diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo edizione 18 - 2022

Verità delle donne e storia vivente

La verità assente della filosofia: la storia vivente

[Traduzione dallo spagnolo di Luciana Tavernini, rivista secondo le indicazioni dell’autrice]

Università di Barcellona, DUODA

  The import of that Paragraph “The word made Flesh” Had the faintest intimation Who broached it yesterday!   “Made Flesh and dwelt among us”   A word made Flesh is seldom And tremblingly partook Not then perhaps reported But have I not mistook Each one of us have tasted With ecstasies of stealth The very food debated To our specific strength –   A word that breathes distinctly Has not the power to die Cohesive as the Spirit It may expire if He –   “Made Flesh and dwelt among us” Could condescension be Like this consent of Language This loved Philology  El sentido de ese Párrafo “La palabra hecha Carne” ¡Tendría él la más leve noción El que lo espetó ayer!   “Se hizo Carne y habitó entre nosotras”   Una palabra hecha Carne es rara Y temblorosamente compartida Tampoco luego quizá relatada Pero si no me he equivocado yo Cada una de nosotras ha probado Con éxtasis de disimulo La mismísima comida disputada A nuestra fuerza específica –   Una palabra que respira claramente No tiene el poder de morir Cohesiva como el Espíritu Podría expirar si Él –   “Se hizo Carne y habitó entre nosotras” Podría ser Condescendencia Como esta aquiescencia de Lengua Esta amada Filología  Il senso di questo Paragrafo “La parola fatta Carne” Aveva la minima idea Lui che lo infilzò ieri!   “Si fece Carne e abitò tra noi”   Una parola fatta Carne è rara E con tremore condivisa Tantomeno poi forse riferita Ma se non mi sono sbagliata Io Ciascuna di noi due ha provato Con estasi dissimulata Lo stesso cibo dibattuto Alla nostra forza specifica –   Una parola che respira chiaramente Non ha il potere di morire Coesiva come lo Spirito Potrebbe spirare se Lui –   “Si fece Carne e abitò tra noi” Potrebbe essere Condiscendenza Come questa acquiescenza della Lingua Questa amata Filologia

Emily Dickinson, Poesia 1715, consegnata a Susan H. Dickinson e copiata da questa. [1]

Una metafisica sperimentale?

La storia – dicono gli storici – cerca la verità, ciò che è realmente accaduto. Cerca la verità con l’ideologia, l’obiettività e il metodo critico. La verità e la storiografia sono state così critiche nella seconda metà del XX secolo che molti hanno concluso sportivamente che l’oggettività non esiste. Ne consegue che la storia degli storici non è verità?

Noi donne siamo assenti dalla Storia e dalle lezioni di Storia, abbiamo detto noi storiche. “Chi ha detto che l’ideologia è anche la mia avventura?” scriveva Carla Lonzi negli anni ’70 del XX secolo. Aggiungendo: “Avventura e ideologia sono incompatibili. La mia avventura sono io”.[2] La mia avventura è la misura della verità delle donne?[3] La mia avventura è assente dalla Storia? La verità delle donne è assente dalla Storia? Può esserci verità nella filosofia e nella storia se la verità delle donne è assente?

“Voi cercate, noi troviamo”, disse una Beghina del XIII secolo a uno scolastico. Loro diffidano, noi ci fidiamo. Noi donne di solito non siamo nichiliste. Per noi il nulla tende a essere un passaggio verso qualcos’altro,[4] un vuoto interiore che acconsente e accede alla scoperta e all’incontro.

“Una nuova concezione della chiarezza, un’attenzione alle forme discontinue della luce e del tempo, si apre come cammino, già all’interno della cosiddetta psicologia del profondo, ma anche nella fenomenologia di Husserl. Entrambe però mancano di un’ultima esplorazione metafisica. Una metafisica sperimentale, che renda possibile l’esperienza umana, senza pretese di totalità, deve ancora nascere.”[5] ha scritto María Zambrano nel 1989.

Oggi, nelle notizie trasmesse dai mass media, ci sono molti racconti di esperienze femminili e maschili che cercano e non trovano la loro ultima esplorazione metafisica. Per esempio, il sorprendente suicidio di una parte minore ma crescente di uomini che uccidono le loro mogli o ex-mogli, partner o ex-partner. Lo fanno dopo aver commesso il crimine, non prima, come sarebbe logico e coerente (oltre che auspicabile) se il loro togliersi la vita fosse il risultato della disperazione, essendo la disperazione la causa che, umanamente parlando, può meglio spiegare un suicidio. Conservo vivo il ricordo dell’impatto che causò in me e in tutta la classe una quindicina d’anni fa, durante una lezione del corso La differenza sessuale nella storia nell’Università di Barcellona, la voce nitida di una giovanissima studentessa che, mentre cercavamo di esprimere a parole quello che sentivamo di fronte a uno dei primi eventi di questo tipo, esclamò: “Avrebbe potuto suicidarsi prima!” Fu un esempio squisito della verità delle donne: attraversando imperterrita ogni fabulazione e persino ogni apparente pietà, vestì di parole ciò che era, lasciando intatto il brivido del rendere nudo. Il brivido è, qui, politico: esige senso, politica del simbolico.

Il marito o l’ex marito che si suicida dopo – e, per disgrazia, non prima – aver ucciso la moglie, o la moglie e le figlie e persino il loro cane (il caso di La Orotava, luglio 2018), accusa e, nel suo modo brutale, denuncia l’assenza nella nostra attuale cultura filosofica di una metafisica dell’esperienza che lo aiuti a riconoscere la verità delle donne, a valorizzarla e a lasciarsi guidare da essa.

Quest’uomo disgraziato accusa e denuncia l’assenza nella sua esperienza di vita dell’anima, di sacro e divino, di “esercizi di incarnazione” come diceva Juana Inés de la Cruz, di “un’ultima esplorazione metafisica”, di pensiero dell’esperienza?[6] La metafisica ha bisogno di carne e presenza? L’uomo suicida, nel commettere il crimine, scopre che il suo delitto è reale, che l’assenza di sua moglie, delle sue figlie, dei suoi figli e di altri esseri viventi che ha appena assassinato, è un’assenza irreversibile, corpi presenti definitivamente senza anima? Scopre, in un certo modo, l’anima, e che nemmeno lui può vivere senza di essa: né senza la sua vita dell’anima né senza le anime della sua vita?

Un altro esempio bruciante è quello dello stupro e dell’incesto.[7] Quello che era stato un diritto implicito dell’uomo fin dalla fondazione del patriarcato ha fatto acqua. Ciò non significa che gli stupri abbiano cessato di esistere, ma piuttosto che le molte violazioni che purtroppo continuiamo ad avere, le viviamo – tutte e ciascuna – come un’ingiustizia criminale, ed esigiamo che spariscano ora, con i loro esecutori e recidivi. La necessità di un’ultima esplorazione metafisica di questo delitto è nata dalla consapevolezza che lo Stato di Diritto si sta schiantando, proprio qui, con lo stupro e l’incesto, contro la fine del patriarcato, fine del patriarcato portata nel mondo dalle femministe e da molte altre donne del XX secolo.[8] Si tratta di un delitto che straripa dallo Stato di Diritto perché è nelle sue fondamenta (le sue leggi) come un diritto maschile implicito. La miseria simbolica delle diatribe giuridiche e politiche – della politica seconda, perché la politica prima, quella delle donne,[9] lo ha ben chiaro – sul consenso e la resistenza o meno della donna violentata tradisce sia la resistenza degli uomini a perdere questo diritto sia la grandezza della rivoluzione femminile e femminista del XX secolo, che esige che la violenza contro le donne diventi impensabile anche per gli uomini. Discutono così i giuristi sul grado di consenso degli uomini a farsi rubare il portafoglio?

Lo stupro e l’incesto feriscono profondamente l’anima di una donna quando viene violata. Lasciano la sua anima inerte, sospesa, sintassi spezzata, sentire proibito, simbolico inafferrabile. Da qui la necessità, oggi, di un’ultima esplorazione metafisica che orienti il recupero vitale di quella (quello) che l’ha subito, così come la concezione dei mezzi per sradicarla dalla testa e dai genitali degli uomini.

Sembrano trovare la loro ultima esplorazione metafisica anche le massicce manifestazioni femminili, sostenute da uomini non patriarcali, che sono esplose senza molta organizzazione durante l’ultimo anno per esprimere il rifiuto generalmente sentito della violenza maschile contro le donne. La violenza maschile deruba una donna della sua anima, come insegnano la poesia e le canzoni. Ricordo la sensazione di veridicità che, da studentessa a Chicago, ho provato grazie a una rappresentazione drammatica femminista che riprende il titolo To kill a mockingbird. Il canto dell’usignolo della moglie infastidiva talmente il marito che finì per ucciderlo, annientando con l’usignolo e il suo canto, l’anima di lei che non alzò più la testa. Già molte donne della mia generazione trovavano impensabile, da giovani, la violenza maschile contro di noi, tanto che avemmo bisogno del femminismo per metterci in guardia, imparando a identificarla. Le nostre madri ci avevano insegnato a considerarla una cosa impensabile nella nostra vita, qualcosa che può essere perpetrata solo da uomini ripugnanti, banditi dall’umano.

Il nucleo della metafisica è la verità della vita dell’anima. Ma l’anima è assente dalle scienze, dalle ideologie e dalle ricerche positivistiche, anche quando la chiamano “psiche”, in greco, per meglio fissare la distanza. La cultura greca classica ignorò deliberatamente la verità delle donne, usurpandola e distorcendola secondo la sua convenienza.

“La Storia è una forma di oggettività, e quindi di distacco dalla vita; è già una certa morte, come ogni forma di oggettività. La donna l’ha rifiutata o non può raggiungerla; sembra vivere identificandosi con la realtà più misteriosa e riluttante a essere dichiarata dal logos in una qualsiasi sua forma. Vita misteriosa delle viscere, che si consuma senza raggiungere l’obiettività. […] La vita della donna è la vita dell’anima.”,[10] ha scritto María Zambrano nel 1944.

Sarà la rivoluzione metafisica in corso, quella della verità delle donne e della vita dell’anima, che Emily Dickinson (1830-1886) ha annunciato come “Rivoluzione di Ubicazione”? La sua poesia 839 dice:[11]

Incompiuta per l’Osservazione –

Incompleta – per l’Occhio –

Ma per la Fede – una Rivoluzione

Di Ubicazione –

Contro Noialtre – i Soli si spengono –

Al nostro Opposto –

Nuovi Orizzonti – loro abbelliscono –

AffrontandoCi – con Notte.

Le viscere dell’anima

Come fare Noialtre oggi, quando i Soli si spengono, una rivoluzione di ubicazione della filosofia e della storia? La fede può entrare nella storia senza che la fede diventi un’altra ideologia? La fede può essere una pratica di apertura della conoscenza alla verità delle donne e della vita dell’anima?

Nella storia dell’Europa, ciò che ha prodotto conoscenza non è sempre stato ciò che il  logos in una qualsiasi delle sue forme è riuscito a dichiarare, anzi; intendendo per logos solo la parola ragionata. È la visione che ha prodotto conoscenza, una visione che contiene in sé anche il logos quando la visione accede alla scrittura. Fu il caso, ad esempio, dell’ineguagliabile pensatrice, compositrice, botanica, medica, scrittrice, politica, fondatrice, predicatrice, poeta, profeta, consigliera di papi e imperatori, badessa, sempre visionaria, Ildegarda di Bingen (1098-1179). La visione, fin dalla sua infanzia, fu la sua via di accesso alla conoscenza, alla parola ragionata, alla parola sentita e all’azione. Ildegarda raggiunse la scrittura, in ciò che questa ha di misura del dicibile nel tempo di ciò che fluisce dall’eccesso femminile, nella relazione duale di fiducia o di affidamento[12] con un’altra donna, più erudita di lei, di nome Richardis von Stade. La stessa Ildegarda dice nella parte autobiografica della sua Vita: “quando scrissi il libro Scivias, avevo in pieno amore una giovane nobildonna, figlia della marchesa che ho appena citato, come Paolo con Timoteo. Lei si era legata a me con amicizia amorosa in tutti i sensi, e aveva mostrato compassione per le mie infermità, finché non ho finito quel libro.[13] In relazione con Richardis von Stade Ildegarda a 43 anni scrisse il suo primo libro, intitolato Scivias sive visionum ac revelationum libri tres (“Conosci le vie o tre libri di visioni e rivelazioni”), un’opera che oggi abbiamo difficoltà a comprendere perché la nostra cultura moderna e postmoderna ha perso il senso dell’allegoria, ma che non possiamo smettere di ammirare.[14] Ai tempi di Ildegarda, la visione e la rivelazione erano le vie più autorevoli di conoscenza e di accesso alla verità, come la grande artista Margarethe von Trotta seppe vedere nel ventesimo secolo quando intitolò il suo film sulla vita di Ildegarda di Bingen (2009) Vision. A metà del XIII secolo, tuttavia, la scolastica sostituì, non senza violenza, la visione e la rivelazione come modalità di accesso alla conoscenza. Così, l’erudizione e il pensiero del pensiero vinsero la battaglia per il simbolico[15] rispetto alla visione, alla rivelazione e al pensiero dell’esperienza. San Tommaso d’Aquino (1224-1274), lo scolastico per eccellenza, non ebbe visioni o rivelazioni. Ma gli accadde che, quando era già anziano, andando a un concilio di Lione, cadde da cavallo e rimase gravemente ferito. Fu portato al più vicino monastero domenicano, e lì ebbe una visione. Su insistenza dei suoi compagni monaci che scrivesse qualcosa mentre era nel loro convento, compose un Commento al Cantico dei Cantici, il più importante poema d’amore della tradizione biblica, dichiarando che tutto ciò che aveva scritto prima (le voluminose opere logiche e anti visionarie per cui è famoso, come la Summa theologiae e la Summa contra gentiles) era “paglia”. La scolastica da lui fondata fu una grande perdita, non definitiva, per la cultura europea. La visione e la rivelazione come via di conoscenza divennero un’assenza (nota e brillante) della potente cultura ecclesiastica cristiana, come era accaduto nella Grecia patriarcale classica con la Medusa e i suoi “sentiri concomitanti con la visione”.[16] La vita dell’anima dovette allora trovare altri rifugi. Anche la fede femminile e il suo senso proprio della fedeltà.

La visione è un’idea attraversata dal sentire; la rivelazione dalla fede. Un sentire patito da uno qualsiasi dei cinque sensi che un essere umano ha, non solo l’occhio. A santa Teresa di Gesù, per esempio, la visione che l’avrebbe portata a essere geniale nella politica e nella scrittura della vita dell’anima le è passata per l’orecchio quando Dio le ha sussurrato in uno di essi: “Non ti dispiacere, Io ti darò libro vivo”.[17] Visione e idea condividono, come sostantivi, la stessa etimologia e radice indoeuropea.[18] Costituiscono ciò che la beghina teologa Margherita Porete, bruciata in Place de la Grève a Parigi da un tribunale dell’Inquisizione nel marzo 1310, chiamò, nel suo Specchio delle Anime Semplici, la divina scientia o scienza divina.[19] Alla condanna di quest’opera, giudicata ortodossa da tre teologi competenti alla fine del XIII secolo, contribuì proprio il trionfo della scolastica, universitaria e maschile, sulla visione, eminentemente femminile e diffusa nelle case, nelle cappelle e nelle scuole di paesi e città. Per capire bene questo, dobbiamo ricordare che il cristianesimo e la Chiesa non sono la stessa cosa, anche se tutto ciò che chiamiamo correttamente chiesa (ecclesia, “assemblea”) sia o pretenda di essere cristiano.

Di che Dio stiamo parlando quando parliamo di scienza divina? Ildegarda e Margherita Porete erano cristiane tanto quanto San Tommaso d’Aquino o i membri dei tribunali ecclesiastici e dell’Inquisizione. Ma nella loro idea e nella loro esperienza personale di Dio ci furono profonde discrepanze, discrepanze che tesero a corrispondere al senso libero della differenza sessuale, senza alcun determinismo. La teologia cristiana, inventata e predicata da un profeta palestinese, Gesù di Nazareth, non solo bevve dalla tradizione biblica ebraica ma anche, intensamente, dalle religioni mediterranee pre-patriarcali. La Bibbia ebraica è pornograficamente patriarcale, come percepisce chiunque si avvicini onestamente alla sua lettura. Gesù di Nazareth, invece, amò profondamente le donne, in particolare sua madre Maria di Nazareth (la Vergine che lo concepì senza coito e attraverso l’udito, attraverso la parola rivelata nel messaggio dell’Annunciazione), ma anche Maria Maddalena, Maria Salomè, Marta, e altre meno famose come la Samaritana, l’Emorroissa, la Veronica che ne riprodusse il volto con il suo velo… Per questo, per l’amore verso le donne e verso sua madre, che Gesù di Nazareth sentì per tutta la sua vita conosciuta, nel cristianesimo coesistono due idee e due esperienze di Dio: Dio Padre e Dio Amore. Il primo, in sintesi, è quello della scolastica; il secondo quello della visione e della rivelazione. E, soprattutto, il cristianesimo, religione sincretica, adottò dalle religioni pre-patriarcali del Mediterraneo il suo principale dogma e mistero su Dio: la Trinità. La Trinità è un dogma femminile millenario, conosciuto fin dal Neolitico, che spiega la Grande Dea o Dea Madre. In origine e secondo l’esperienza viva della procreazione umana, la Trinità era, prima dell’affermazione del patriarcato, una Trinità femminile: le Tre Madri, cioè la nonna, la madre e la figlia,[20] che insieme componevano la massima divinità. Il cristianesimo troncò la genealogia delle Tre Madri sostituendo alla figlia il figlio, un passo necessario per coincidere con il monoteismo patriarcale ebraico che, tuttavia, non permise al Cristo storico di essere riconosciuto come il messia che questo popolo aspettava. Nonostante ciò, la sua religione prosperò, probabilmente perché trionfò tra le donne libere, come le gnostiche del II e III secolo, le monache di Santa Macrina la Giovane dal IV secolo fino a oggi, le prime regine germaniche altomedievali che convertirono i loro popoli, le Beghine e le Beate, le Catare, le mistiche e le visionarie di tutti i tempi…, che riconobbero e riconoscono la sostanza femminile del cristianesimo dietro e sotto la misoginia gerarchica delle Chiese. Ancora oggi, quando il Papa lancia una campagna globale contro la pena di morte, per quanto lodevole sia, una donna sente che la sua Trinità le viene sottratta indebitamente, perché la competenza simbolica sul corpo è sua e non dell’uomo né del padre, santo o no. C’è un ordine simbolico ed è della madre.[21]

La verità delle donne è appesa all’indistruttibile filo d’oro che intreccia la genealogia femminile e materna delle Tre Madri: nonna, madre, figlia. La sua sede, la sede della verità delle donne, sono le interiora o viscere, che Ildegarda di Bingen chiamava viscere dell’anima (viscera animae e viscera animi).[22] Le interiora coincidono e non coincidono con le viscere. Un intestino non è amabile. È reso amabile dalla connessione con l’anima. Viscere e spirito costituiscono un’anima, l’anima del corpo, in una delicata e fragile unione.[23]

Tra loro c’è il desiderio di verità, non le antinomie del pensiero. “La verità sono i pensieri che sorgono nello spirito di una creatura pensante che desidera solo, totalmente ed esclusivamente, la verità”, diceva Simone Weil nel 1943.[24] La verità delle donne sorge quindi dal desiderio di verità, non dal peso degli argomenti.

Ildegarda di Bingen sosteneva che l’anima è sessuata. Ad esempio, una miniatura di quelle che illustrano il testo di una visione di Liber Scivias dipinge al femminile l’anima espirata da una donna mentre muore.[25] Il corpo femminile contiene le interiora complete, in quanto possiede una matrice (utero). Le interiora maschili sono incomplete? No: sono diverse. Così come sono diverse le loro anime, non ineguali. La disparità è una ricchezza della sessuazione umana.

Non conosco alcuna ricerca sulla connessione tra la matrice e il sentire, ma so per esperienza che esiste e che è una connessione intima. L’orgasmo matriciale, ad esempio, lo mostra, come mostrano, per contrasto, le isterectomie superflue della medicina patriarcale.

Per questo, la verità delle donne non è astratta, ma incarnata, amabile. Si lascia astrarre, certo, nella pittura astratta – Hilma af Klint, la sua fondatrice, Sonia Delaunay, Maria Helena Vieira da Silva… – per esempio, quando l’astrarre non è obiettivo ma mezzo di espressione dell’eccedenza femminile che trapassa i limiti attraverso l’aria, senza infrangerli. In questo caso, l’astrazione è anche una visione. Lo stesso accade tra le donne con la conoscenza. Perché la visione e la rivelazione fanno simbolico, simbolico della madre.

Le interiora e il loro sentire sono assenti dalla filosofia e dalla storia fondate nel razionalismo greco ed europeo. Qualcosa di simile accade con la verità delle donne. Bisogna tuttavia riconoscere che, anche in loro assenza, né le viscere, né la verità delle donne, né la vita dell’anima hanno mai cessato di essere presenti. María Zambrano ne riconobbe l’assenza/presenza in frammenti impressionanti e discontinui della sua opera. Ad esempio, in Per una storia della pietà, dove scrisse: “Tutto, tutto ciò che può essere oggetto di conoscenza, tutto ciò che può essere pensato o sottoposto a esperienza, tutto ciò che può essere desiderato, o calcolato, è in qualche modo sentito in precedenza […]. Il sentire, quindi, ci costituisce più di ogni altra funzione psichica, si direbbe che le altre le abbiamo, mentre il sentire lo siamo. E così, il segno supremo della veridicità, della verità viva, è sempre stato il sentire; la fonte ultima di legittimità di ciò che l’uomo dice, fa o pensa.”[26]

Ora, però, una volta finito il patriarcato, molte donne e sempre più uomini desideriamo conoscere e decifrare questa presenza nell’assenza della verità delle donne. Oggi sappiamo, ad esempio, che il tempio greco più celebrato per la conoscenza maschile, quello di Apollo a Delfi, fu in realtà un tempio violentemente usurpato nel secolo VIII a.C. dal patriarcato alla Grande Dea della Terra, quella della Trinità femminile delle Tre Madri. Neus Calvo Escamilla ha scoperto, con le consuete fonti testuali e archeologiche ma sottoponendole a una ermeneutica femminile libera che non ha nulla a che vedere con quella consueta, che il tempio di Delfi era, fin dal Neolitico, un importantissimo luogo di culto della Dea Madre e di oracolo delle pitonesse, indovine e sibille dalle cui viscere sgorgavano le risposte profetiche attraverso i vapori emessi da una crepa mai rinvenuta nel terreno perché sarebbe la vulva, probabilmente quella della Dea stessa.[27] Nello stesso frontespizio del tempio di Delfi, quello in cui tanti savants hanno letto, ripetuto e lodato l’insondabile “Conosci te stesso” del patriarcato, Neus Calvo Escamilla ha osservato l’esistenza di una lettera maiuscola, la E greca o epsilon con tre tratti al centro, una lettera che indica da tempo immemorabile che il tempio apparteneva alla Grande Dea. Ha identificato la E dei tre tratti al centro con quella che Marija Gimbutas ha chiamato “linea tripla”, “associata all’acqua, alle forme serpentine e alla bocca della Dea”. Associa la E di Delfi anche a ideogrammi a forma di pettine come quello del disco di Festos (Creta), pettine a tre punte che, ancora una volta, è un attributo e simbolo della Grande Dea, “il pettine che snoda i fili della realtà, il pettine che aiuta la tessitrice a stringere i fili nel tappeto, il pettine della Dea [Gea]”.[28] Il numero tre si riferisce nella nostra cultura a molte cose, dall’intervenire come tertium in una conversazione disfacendo la tipica antinomia del razionalismo patriarcale fino ai cicli del tempo, dell’agricoltura e della vita umana, ma soprattutto si riferisce alle Tre Madri della genealogia femminile e materna o Trinità femminile.

Cioè all’autentico tempio di Delfi, quello pre-patriarcale, si accedeva per ascoltare la verità delle donne, la verità delle viscere, della bocca della Dea madre e dell’anima.

La lingua oracolare ha continuato a trasmettere la verità delle donne nonostante l’imposizione del patriarcato democratico greco e l’usurpazione degli antichi templi femminili. È così perché il patriarcato non ha mai occupato l’intera realtà né tantomeno tutta la vita di una donna o di un uomo, anche se avrebbe voluto occuparli. Nell’Europa cristiana medievale, la stessa Ildegarda di Bingen fu soprannominata “La Sibilla del Reno” e le sue opinioni, consigli, visioni e rivelazioni furono considerate profetiche dalla gente comune e da papi e imperatori. Nel XX secolo l’opera di María Zambrano, che i filosofi dominanti dell’epoca, in maggioranza marxisti, non vollero o non seppero capire, fu invece accolta da alcune filosofe come si accoglie il linguaggio oracolare.[29] Ricordo ancora la mia sorpresa quando, tempo fa, chiesi fiduciosa al filosofo Carlos París cosa pensasse dell’opera di María Zambrano, e ricevetti in risposta: “Non la conosco”.

Succede, tuttavia, che una o uno vada in cerca della verità delle donne per pura necessità. Così la manteniamo viva. Io stessa, dopo aver letto assiduamente María Zambrano, ho sentito il bisogno di guardare per vedere se le autrici medievali parlavano delle viscere nelle loro opere, e ho scoperto che lo facevano.

Ildegarda di Bingen, per esempio, usa la parola viscera con molte sfumature, tutte riferite alle interiora, in tutta la sua opera, nella sua Vita, nelle Lettere, nello Scivias, nel Liber divinorum operum simplicis hominis, nel Liber causae et curae, nella Phyisica. Parla di materna viscera, viscera mea concussa sunt et sensualitas corporis mei extincta est, parla di beata viscera, di viscera pietatis, di viscera misericordiae, di  materna viscera charitatis et rectitudinis, di viscera superbiae, di viscera diaboli, di viscera compassionis, di viscera animae, di viscera non vulnerata sed integra, di viscera infirma, ecc.[30] Le traduzioni del nostro tempo, invece, sono esitanti, perché hanno perso le tracce della conoscenza della tradizione visionaria e rivelatrice. Ad esempio, la traduzione spagnola di Scivias interpreta “beata viscera” come “cuori beati”,[31] nonostante il fatto che la parola latina e la spagnola “viscera” siano uguali, e nonostante l’accezione di “viscera” come “cuore” non compaia nei dizionari latini. Michela Pereira, invece, traduce fedelmente “viscera animi” come “viscere dell’anima”, offrendo un paradosso alla libera interpretazione della vita delle interiora e della vita dell’anima, suggerendo che coincidano. Anche se sulla delicata questione della maternità vergine di Maria di Nazareth, questione estrema della politica sessuale nell’Europa cristiana, la stessa filosofa traduce “viscera sua non vulnerata sed integra” come “il cui grembo era rimasto intatto senza lacerazioni”.[32]

Essendo, come è, dell’anima, dell’anima incarnata e senziente, la verità della donna è connessa con l’amore. Ma cos’è l’amore? Secondo Emily Dickinson, “Che Amore è tutto ciò che c’è / È tutto ciò che sappiamo di Amore, / È abbastanza, il peso dovrebbe essere proporzionato al Solco”.[33] Secondo Simone Weil, “Una linea retta tracciata con il gesso è il risultato della proiezione del gesso pensando a una retta. Allo stesso modo, un atto virtuoso è il risultato di realizzare un’azione amando Dio. La relazione è la stessa. Non è una linea qualsiasi quella che viene tracciata… né un’azione qualsiasi quella che si realizza”.[34]

Emily Dickinson, Simone Weil, María Zambrano erano donne. Il corpo femminile nasce con una sua capacità propria, la capacità di essere due, di ospitare in sé un altro essere umano, l’umanità intera, di creatura in creatura. L’amore è sempre amore di qualcos’altro. La verità delle donne non è ideologica. Parte da sé per raggiungere qualcos’altro.[35]

Secondo María Zambrano, l’amore fu espulso, insieme alla poesia, dalla polis greca e, così, dalla politica, dove avrebbe brillato per la sua assenza.[36] María, essendo femminile, non femminista (“Non ero femminista, ero femminile: non ho ceduto”),[37] ha ceduto, però, su un punto cruciale: il collegamento diretto tra la polis greca, cioè la prima democrazia europea, e il patriarcato occidentale. In realtà, l’amore fu espulso dalla polis perché la Grande Dea, le Tre Madri, l’Amore e la politica delle donne ne furono espulse. Antigone è la sua testimonianza più visibile e commovente.

María Zambrano non ha tuttavia ceduto (molte universitarie sono due) sullo stretto legame tra l’amore e la vita dell’anima. “La prima idea che si crea dell’amore è già mistica”, scrisse nel 1939. “Per questo – continua – è un grande errore quello che è stato detto tante volte: che l’amore mistico è una copia dell’amore carnale così come è dato. È proprio il contrario: l’amore carnale, l’amore tra i sessi, ha vissuto “culturalmente”, cioè, nella sua espressione, sotto l’idea di Amore platonico che è già mistica. […] Grazie al platonismo, l’amore ha avuto uno status intellettuale e sociale. È stato possibile amare senza che fosse un fatto scandaloso.[38]

Donne, amore, interiora, piacere, buio, viscere, sentire, luce e verità delle donne vanno insieme. La stessa María Zambrano aveva scritto dieci anni prima, nel 1949: “Una delle maggiori disdette e delle più grandi povertà del nostro tempo è l’ermetismo della vita profonda, della vita veritiera del sentire che è andata a nascondersi in luoghi sempre meno accessibili. Fare la sua storia, sia pur timidamente, sarà un’opera di liberazione”.[39]

La storia vivente

Trovare la verità delle donne nell’“ermetismo della vita profonda, della vita veritiera del sentire”, è ciò che la storia vivente cerca e propone. “Io racconto una storia vivente che non respinge l’immaginazione, un’immaginazione che affonda le sue radici nell’esperienza personale, storia più vera perché non cancella le ragioni dell’amore, non respinge le relazioni, dal suo processo conoscitivo”,[40] ha scritto Marirì Martinengo, la fondatrice della storia vivente, in un libro sulla nonna, lentissimamente maturato, pubblicato nel 2005.[41]

Si potrebbe dire che la storia vivente ha visto la luce con il secolo attuale. È nata dalla pratica della differenza sessuale femminile, pratica che ha a sua volta origine in quella parte del femminismo europeo degli anni Sessanta del Novecento che non era d’accordo con Il secondo sesso di Simone de Beauvoir (1949). Sono donne che non si considerarono mai un secondo sesso, né desiderarono mai essere né il primo né un sesso indifferenziato. Considerarsi un sesso indifferenziato non interessò quelle donne per un motivo molto semplice: ci piaceva essere donne, non volevamo essere uomini o vivere come vivevano gli uomini. Di conseguenza non ci interessò la possibilità di smettere di essere donne, né definitivamente né a volte, neppure per deportarci nell’uguaglianza o all’equiparazione con il maschile, né tanto meno per vivere o considerare la sessuazione umana come un atto performativo della volontà personale, cosa che è tipica dell’agonia del postmodernismo patriarcale. Ci interessò maggiormente, come María Zambrano, andare al riscatto della passività, della ricettività, delle pulsioni passive nell’interpretazione del loro dinamismo e della loro creatività offerta, tra le altre, da Lou Andreas-Salomé.[42]

Nell’ultimo terzo del XX secolo la pratica/pensiero della differenza sessuale fece scoperte molto importanti per interpretare la Storia e capire cos’è la storia vivente. La prima e decisiva fu la scoperta della sessuazione della libertà umana, il che significa riconoscere che la libertà non è una ma due, così come sono due i sessi in cui la creatura umana si presenta al mondo, anche l’ermafrodita o la transessuale, senza alcun determinismo. In altre parole, c’è e c’è stata nella storia una modalità della libertà propria delle donne, senza escludere gli uomini né includere tutte le donne né tutte le sfaccettature, tempi o modi di esistenza delle donne. La scoperta la fece Lia Cigarini alla fine degli anni Sessanta a Milano, nel contesto politico della Gioventù Comunista, di cui era allora una significativa militante. Giunse alla scoperta attraverso l’esperienza e la presa di coscienza del valore della sua esperienza. Quello che sperimentò fu che, dopo anni di militanza comunista, era diventata muta, senza niente da dire alle riunioni di partito. La presa di coscienza consistette nel capire che la libertà per la quale il suo partito combatteva non le apparteneva pienamente.[43] E, quindi, che il suo mutismo e la lotta per una libertà che non le apparteneva pienamente erano due cose intimamente connesse tra loro. Il suo mutismo alle riunioni politiche svelava una mutilazione inconscia, proprio quella della verità femminile.

A chi apparteneva allora la libertà per cui aveva combattuto? Questo, che è evidente, non le interessò allora, perché gli uomini del partito erano suoi compagni e molti anche suoi amici, e la lotta tra i sessi non era qualcosa a cui lei voleva dedicarsi.

La modalità della libertà che Lia Cigarini scoprì nel 1969 e di cui mise in parole le caratteristiche originali, insieme ad altre, prima e dopo la fondazione della Libreria delle Donne a Milano nel 1975, la chiamò “libertà femminile”. Ne parlò, non come definizione, perché la libertà con definizione cessa di essere tale, è una sensazione, un sentire “che trova nell’altra vincolo, scambio e misura”. È dunque libertà “con”, non da sola, non individualistica, non riducibile né contraria alla libertà storicamente maschile dalla Modernità.[44] Accade con una frequenza significativa piuttosto che quantitativa – senza escluderla – che una donna si senta libera in relazione.

Faccio un esempio. Alla fine del XV secolo e per tutta la prima metà del XVI, nella penisola iberica e oltreoceano, ci fu una regina molto famosa che concepì e mise in pratica, pericolosamente ma con incrollabile determinazione, un progetto politico fondato sull’esperienza relazionale della libertà, cioè su quella che oggi chiamiamo libertà femminile. Il progetto era quello della monarchia in relazione. Lo realizzò in un’Europa dove molti suoi uomini lottavano con enorme violenza per imporre un patriarcato più duro nella famiglia, l’assolutismo nella monarchia e, nella società in generale, l’individualismo moderno. La regina era Giovanna I, la prima regina di Spagna. Giovanna regnò e governò in relazione con suo figlio Carlo I, V imperatore di Germania, per quasi quarant’anni, tra il 1516 e il 1555. Mesi dopo la morte di Giovanna I, Carlo, che aveva solo 55 anni, abdicò, ritirandosi nel monastero di Yuste. Giovanna I è conosciuta come la Pazza. La leggenda della sua pazzia d’amore, pazzia che non aveva, cominciò a essere inventata dal padre Ferdinando il Cattolico e dal marito Filippo il Bello all’inizio del XVI secolo, quando lei divenne, inaspettatamente, l’unica erede dei regni di sua madre e di suo padre. Le sue idee politiche non erano gradite. Si aprì così una battaglia tra la libertà delle donne e l’individualismo moderno, una battaglia che noi donne perdemmo, come testimonia la caccia alle streghe.[45] Se questo esempio storico viene interpretato con la nozione individualistica di libertà, emerge una pazza; se si interpreta con la nozione di libertà femminile, appare una genia della politica.

La storia vivente nasce proprio dalla scoperta della libertà femminile nella politica delle donne e anche dal riconoscimento del valore personale e politico dell’esperienza per la conoscenza della verità filosofica, teologica, scientifica e storica.

Il riconoscimento del valore politico dell’esperienza personale fu essenziale, ad esempio, nell’opera di santa Teresa di Gesù. In questo, Teresa è un’autrice medievale, come lo fu la sua antesignana nel XV secolo Teresa di Cartagena, anche lei convertita di origine ebrea. Ma la modernità negò progressivamente il valore politico dell’esperienza. L’Illuminismo del XVIII secolo e il materialismo storico del XIX e XX secolo lo fecero in termini estremi, riducendo la politica all’esercizio del potere sociale e alla sua esperienza, ora mutilata perché limitata alla sottomissione. Per questo è stato così rivoluzionario che nel femminismo dell’ultimo terzo del XX secolo noi donne dicessimo: il personale è politico. Il femminismo riconobbe che la cosa più personale che c’è, che è l’esperienza vissuta nella sua integrità, fa politica, non immediatamente ma con le mediazioni appropriate. Questo cambiò radicalmente il senso della politica e, con la politica, della storia e della veridicità storica: la politica cessò di essere confusa con il potere, spostandosi al suo posto originario: l’esperienza.

In questo contesto agitato, si sviluppò la storia vivente. In particolare, presso la Libreria delle donne di Milano. C’era un piccolo gruppo di storiche che si chiamava “Comunità di pratica e riflessione pedagogica e di ricerca storica”. Una di loro, Marirì Martinengo, pubblicò nel 2005 un libro dal titolo La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone donna “sottratta”. Ricordi, immagini, documenti,[46] un libro che, come scrisse lei stessa qualche anno dopo, è un’opera che per scriverla le è stata necessaria tutta una vita, non per le sue dimensioni ma per la profondità della L’esitazione era il segno dell’importanza stessa dell’idea: il segno dell’ombra, dell’oscurità già mescolata alla luce, come è proprio di ogni nasciricerca che dovette fare sulla sua verità di donna e sulla vita delle sue viscere e della sua anima. Dal 2006 il gruppo si chiama “La storia vivente”.

In questo libro Marirì Martinengo ricostruì la storia della nonna, Maria Massone, una storia che l’aveva perseguitata fin da bambina, soprattutto attraverso il silenzio della sua famiglia. Maria Massone fu una donna che, all’età di 31 anni e dopo cinque maternità in sei, fu internata (1895) fino alla morte (1924), cioè per altri quasi 30 anni, in una presunta Casa della Salute. Così Maria Massone fu cancellata dalla memoria della famiglia che lei stessa aveva fondato, sottratta silenziosamente dal suo mondo e dalla storia per qualcosa del suo essere donna che minacciava la classe sociale a cui apparteneva, la borghesia.

All’inizio del libro, Marirì Martinengo scrisse la sua idea essenziale: “C’è una storia vivente annidata in ciascuna/o di noi, costituita di memorie, di affetti, di segni nell’inconscio; non penso che abbia valore storico solo quello che sta fuori di noi, che qualcun altro ha certificato, la famosa storia oggettiva. Io racconto una storia vivente che non respinge l’immaginazione, un’immaginazione che affonda le sue radici nell’esperienza personale, storia più vera perché non cancella le ragioni dell’amore, non respinge le relazioni, dal suo processo cognitivo.”[47]

La storia vivente di Marirì Martinengo, la storia che viveva in lei come malattia latente, come sintomo, come eredità inconscia che le costò la vita intera mettere in parole e portare nella lingua della storica, era, dunque, la memoria della nonna, Maria Massone, una donna “sottratta”, assente dalla sua casa e dalla Storia. Dalla decifrazione e dal racconto di questa storia, vissuta nel suo inconscio e nei suoi sintomi e digressioni vitali e scientifiche, Marirì Martinengo fece la trama della sua opera di storia, del suo libro concreto, e anche della propria personale trasformazione per vivere più libera e con più piacere per le cose, le relazioni e la felicità disponibile, felicità che molte volte è lì, ma qualcosa si mette in mezzo e una non riesce a raggiungerla. Questo può essere chiamato “liberazione dall’oggettività”. E non solo senza rinunciare alla verità, ma mostrandola o, meglio, osando dire la verità sulle donne, per “abbracciare il vero”, per farlo proprio e comune.

Lessi subito questo libro perché avevo e ho una relazione politica con Marirì Martinengo e la sua comunità di storiche. Qualche mese dopo lo presentai, insieme ad altre, alla Libreria delle Donne di Milano e, nel preparare il testo, traducendo il paragrafo che ho citato, ricordo che mi fermai un po’ proprio alle parole “storia vivente”, senza capire perché nel libro la parola “storia” fosse in corsivo e non fosse in corsivo la parola “vivente”, come mi sembrava dovesse essere, perché mi era evidente che fosse storia, e invece era rivoluzionaria l’idea di una storia vivente. Esitai parecchio tra l’essere fedele come traduttrice e l’essere fedele alla genialità dell’idea. E lasciai l’esitazione com’era.

ta. Il libro, in realtà, è una dimostrazione che ciò che è più difficile da accettare anche oggi, a distanza di tanti anni, è che la storia vivente sia storia, non che sia viva e vivifichi. È difficile accettare che sia verità. È difficile accettarlo per la storiografia maschile tradizionale, e anche per una parte importante della storiografia delle donne, quella nata dagli studi di genere. È così nonostante il fatto che la storia vivente non abbia pretese totalitarie, cioè non pretenda di essere l’unico modo di scrivere la storia: non pretenda di riempire un vuoto né tanto meno di proporre un nuovo paradigma.

Ciò che la storia vivente pretende è cercare e trovare la verità storica attraverso il percorso della differenza sessuale, cioè attraverso il percorso del senso libero dell’essere donna o uomo: attraverso il percorso delle viscere, per usare le parole indispensabili di María Zambrano, poiché è nelle viscere che la differenza sessuale mette radici, dove radica il suo sentire: mi sento donna, mi sento uomo. Ma le interiora non entrano nel sapere universitario: sono troppo sporche, incerte, deformi, volubili, indiscutibili, scure, fastidiose… e femminili. Sono femminili e fastidiose, anche se anche gli uomini le hanno, proprio per il loro legame con la verità delle donne, che è verità della madre e della lingua materna. La madre non entra, o entra solo con molte difficoltà, nelle attuali conoscenze universitarie. L’università fu concepita alla fine del XII secolo come Alma Mater (madre nutriente) e, molto tempo dopo, le è difficile lasciare il posto alla madre senza niente di più, quella che concepisce veramente, che continua a essere usurpata, sottratta, assente, troppo autentica nella postmodernità delle fakes.

Così, la Storia oggi è divisa tra la verità concordata, cioè la verità del linguaggio concordato dagli Stati, e la verità delle donne, della madre e della lingua materna. La verità del linguaggio concordato è sicura, assicurata com’è dal potere degli Stati che la pattuiscono; la verità della lingua materna è incerta e delicata, come noi madri siamo delicate e incerte. Oggi, però, l’ossessione per la sicurezza tradisce qualcosa di oscuro. In questo stato di cose, la verità incerta e delicata delle madri suscita una curiosità che preoccupa la verità concordata. Per questo motivo, si può dire che stiamo vivendo nella storiografia, nella filosofia, nella scienza e nella politica una battaglia per il simbolico in cui combattono per il senso della verità storica, da un lato la conoscenza e la storia con radici positiviste e sociali e, dall’altro, la storia vivente e la verità delle donne. Non perché siano due conoscenze antagoniste o due storie, ma perché il paradigma del sociale pretende dalla sua nascita di essere totale, di scrivere una storia totale, e in questo ha fallito, per fortuna, anche se gli costa riconoscerlo. Ha fallito perché era una pretesa vana, presa forse senza saperlo dalle ideologie totalitarie del XX secolo. C’è molto nella vita umana che non rientra nel paradigma del sociale ma che è molto oltre, non contro, il sociale, e che non ha mai cessato di esistere, anche se solo oscuramente, al suo lato, accanto al sociale. In questo oltre (non contro) c’è, tra altre cose, la storia vivente.[48]

La storia vivente propone un’altra relazione con la veridicità storica: quella del sentire. Non quella del potere o del suo attuale antagonista, la forza delle masse. Pensare – scrisse María Zambrano – è decifrare ciò che si sente”.[49] Nella decifrazione del sentire delle viscere si radica la relazione con la veridicità storica che sostiene la storia vivente.

Così la storia vivente salva e riscatta la vita delle viscere, la vita dell’anima.[50] E non quella delle viscere o dell’anima di una persona qualsiasi, non quella delle viscere e dell’anima altrui, ma le proprie. Si tratta di una rivoluzione nella scrittura della Storia: una rivoluzione che finalmente si lascia alle spalle la pretesa ottocentesca di oggettività, senza intaccare in alcun modo l’uso della più squisita, contrastata e certa erudizione per scrivere la storia.

Tra le pensatrici del ventesimo secolo e di oggi, la parte più oscura delle viscere è stata chiamata vita passiva.[51] E con la vita passiva, la chiamata delle viscere.[52] In uno dei suoi testi autobiografici, la filosofa dell’amore e anche della storia, che fu María Zambrano, disse della sua filosofia: “Ho sempre cercato il riscatto della passività, della ricettività. Non lo sapevo, ma da molti anni anch’io stavo facendo alchimia”.[53] La vita passiva è ciò che in me è disposto a ricevere, a prendere, a essere arricchito, prima di tutto attraverso la relazione, sia con altre, sia con altri, sia con la Dea o Dio. Ed è anche ciò che non mi permette di fare con successo ciò che non deve essere fatto da me, benché lo sembri; e, allo stesso tempo, lo impedisce, custodendo sotto la superficie delle cose un mio desiderio vitale che lì non può accedere alla luce; è ciò che in me non mi permette di essere felice quando faccio molto bene le cose sbagliate, custodendo passivamente il mio desiderio di grandezza nel fare attivo che in quel momento è alla mia portata.

Si tratterebbe allora di fare storia soggettiva invece di storia oggettiva? No. Non si tratta di invertire i termini di un’antinomia, perché nell’inversione di termini binari non c’è interpretazione libera ma piuttosto ripetizione della stessa operazione, dello stesso quadro. Ciò che la storia vivente cerca è una “Rivoluzione di ubicazione”, partendo dalla constatazione che le grandi assenti della storia non siamo più noi donne – come tutto il mondo sa, ci sono migliaia e migliaia di ottimi studi positivisti e sociali di storia delle donne – ma le storiche: le nostre vite ed esperienze, le nostre viscere e anima, le nostre relazioni, i nostri nodi interiori, i nostri sentiri, desideri, progetti, paure, limiti, ambizioni… la nostra verità, quando scriviamo la storia. Finora abbiamo occupato con poco senso critico l’antico luogo degli storici, imitandoli come se l’essere donna o uomo fosse indifferente e insignificante. Ora sappiamo che essere donna è una fonte illimitata di senso, è un significante inesauribile. La storia vivente pretende di mettere l’essere donna, la storica, nel nucleo della scrittura della storia. Perché? Perché la storia è una e i sessi che la vivono sono due. Per questo la storia vivente serve a me, che sono medievalista, e non serve solo all’interpretazione della storia contemporanea.

Penso che quando il suo essere donna sarà – o è – il significante della storia che una donna scrive, lei potrà dire, e si potrà dire senza che sembri assurdo o prepotente, che la storia è la storia delle donne. Non credo che avrà importanza se le migliaia e migliaia di studi e ricerche di storia delle donne, che sono state pubblicate in tutto il mondo da quando negli anni ‘60 furono fondati in alcune università americane i primi Centri e Dipartimenti di Studi delle Donne e di Studi Femministi, non si trasferiranno in libri di testo e in sintesi storiche. Non si tratta di entrare nella Storia da cui la verità delle donne è assente. “Approfittiamo della differenza”, scrisse Carla Lonzi in Sputiamo su Hegel, un testo del 1970, “Approfittare dell’assenza”, scrissero le filosofe di Diotima nel 2002, perché la libertà non sta nell’integrarsi nella storia che già esiste, ma nel riconoscere l’esperienza femminile come matrice della veridicità della storia, affinché una donna si riconosca in essa. Vale la pena di tornare al contesto delle parole inaugurali di Carla Lonzi: “La differenza della donna sono millenni di assenza dalla storia. Approfittiamo della differenza: una volta riuscito l’inserimento della donna chi può dire quanti millenni occorrerebbero per scuotere questo nuovo giogo? Non possiamo cedere ad altri la funzione di sommuovere l’ordinamento della struttura patriarcale. L’uguaglianza è quanto si offre ai colonizzati sul piano delle leggi e dei diritti. È quanto si impone loro sul piano della cultura. È il principio in base al quale l’egemone continua a condizionare il non-egemone.”[54]

Come si fa storia vivente? Consiste in una pratica di gruppo in cui si genera e circola autorità femminile. Nella pratica, può accadere “una cosa importantissima per la scienza e la politica: una mediazione vivente”, ha scritto Luisa Muraro. E continua: “Di questo parlavo prima, a proposito del tenere insieme, dentro di sé, nella mente, nello sguardo, nel sentire stesso, il reale e il suo (im)possibile. […] La vostra mente può restare inchiodata allo spettacolo della giustizia iniqua, della crudeltà della morale, dell’autoritarismo della scienza ecc., e perdersi nella disperazione, o può tentare di modificare la realtà con i mezzi che questa prevede e con la conseguenza di girare in tondo. Ma può invece rivolgersi direttamente al vero, al bello, all’amore, alla libertà, al godimento, con la certezza che da qualche parte questo mancante si trova, cioè dentro di noi, almeno come desiderio, e, perché no, dentro gli altri, […] e risvegliare così nel reale il suo possibile: questa è l’operazione della mediazione vivente.”[55]

Tutti i testi di storia vivente che abbiamo finora sono nati e sono stati scritti tentando una mediazione vivente, attraverso un difficile processo di indagine nel profondo della propria esperienza, un’indagine alla ricerca dei nodi, degli ostacoli e dei grumi oscuri del disordine simbolico che hanno bloccato la libera e vera interpretazione della Storia da parte di ogni storica concreta; e che non potevano essere aggiunti alla storia già esistente senza tradirli. Questa indagine non è solitaria, ma è sempre stata fatta in relazione: in relazione all’interno della “Comunità di storia vivente” o al di fuori di essa in una relazione duale di fiducia o di affidamento. Che l’indagine nella profondità della vita delle viscere si faccia in relazione è molto importante, perché da questo dipende che la pratica della storia vivente sia politica, di politica delle donne: si rinuncia al regime dato della mediazione per scatenare, dal reale, il suo impossibile. A sua volta, il fatto che si tratti di una pratica politica implica che la storia che finalmente si scrive è storia comune, non solo una storia personale, anche se lo è. La relazione dà il contesto e contestualizza le scoperte di luce che ogni autrice ricerca e ottiene indagando i nodi della sua esperienza. Un esempio molto interessante e accessibile è il libro intitolato La Pratica della storia vivente.[56] Le sue autrici, tra cui ci sono le fondatrici della Comunità di storia vivente della Libreria delle donne di Milano: Marirì Martinengo, Laura Minguzzi, Luciana Tavernini e Marina Santini, e anche altre storiche, hanno offerto e proposto, partendo dalla pratica della storia vivente, interpretazioni generali di periodi ed eventi storici come l’inurbamento e le migrazioni degli anni ‘60 in Europa, le guerre del XX secolo, il genocidio in Istria alla fine della seconda guerra mondiale, o l’influenza dei diffusi e quasi indicibili abusi sessuali da parte di uomini socialmente ben considerati nella perpetuazione del patriarcato e, con esso, della difficoltà femminile di parlare come donna, di dire la propria verità.[57]

Così, la storia vivente semina il seme di un metodo di conoscenza che può essere chiamato il metodo vivente, intendendo la parola metodo per quello che è: un percorso in movimento. È un metodo di ricerca della verità delle donne nella pratica della relazione piuttosto che nella presunta oggettività e rigore positivista. È un metodo femminile che interpreta la Storia a partire dalla propria storia, passata al setaccio del confronto con altre donne che sono impegnate nello stesso processo. È un metodo che misura la Storia con la verità delle donne e, sui risultati della misurazione, fonda interpretazioni degli eventi orientati dall’ordine simbolico della madre.

È un metodo che, allentando o sciogliendo i nodi vitali della storica stessa, cerca di liberare sia il senso della vita e della verità della storica sia la veridicità storica. Perché? Perché, come scrisse Lia Cigarini qualche anno fa, “Considero della massima importanza dire che le soggettività vanno oltre le regole della rappresentanza e dei partiti”.[58] È proprio questo il punto in cui ha il suo inizio la pratica della storia vivente. Inizia con la parola fatta Carne, che Coesiva come lo Spirito / Potrebbe spirare se Lui – come diceva, presaga, Emily Dickinson nel poema 1715 posto all’inizio di questo testo. Parola rara e con tremore condivisa.

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[1]* Il testo è pubblicato come María-Milagros Rivera Garretas, “La verdad ausente de la filosofía: la historia viviente” in Magda Lasheras y Teresa Oňate (a cura di), Filosofía de la historia y feminismos, Dykinson, Madrid 2020, pp.111-138.

Riprende in parte la conferenza La verdad ausente de la filosofía: la historia viviente, tenuta dall’autrice il 12 dicembre 2018 all’Università Nazionale Autonoma (UNAM) del Messico, organizzata da Instituto de Investigaciones sobre la Universidad y la Educación (IISUE), attraverso il Seminario Escritos de Mujeres e la Facultad de Filosofía y Letras della UNAM, la cui videoregistrazione si trova al link:

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[2] Lonzi, Carla, “Secondo Manifesto di Rivolta Femminile: io dico io”, in Lonzi, Carla, Anna Jaquinta, La presenza dell’uomo nel femminismo, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1978, p. 7.

[3] Mi riferisco al titolo del corso del Máster en Estudios de la Diferencia Sexual de Duoda (Universidad de Barcelona) che tenne Luisa Muraro. Vedi anche: Muraro, Luisa (2009), La verdad de las mujeres in “DUODA. Estudios de la Diferencia Sexual” (38), pp. 71-126.

[4] Muraro, Luisa, Il Dio delle donne, Mondadori, Milano 2003; riedizione: Marietti, Milano 2020, cap. 7; El Dios de las mujeres (prologo e traduzione di María-Milagros Rivera Garretas), Horas y horas, Madrid 2006, cap. 7.

[5] Zambrano, María, Note di un metodo, trad. e cura di Stefania Tarantino, Filema, Napoli 2003, p. 42; Notas de un método, Mondadori, Madrid 1989, p. 26. Vedi anche: Buttarelli, Annarosa e Federica Giardini. “La cosa da pensare”, in Il pensiero dell’esperienza, Baldini Castoldi Dalai, Roma 2008, pp. 9-15.

[6] Sor Juana Inés de la Cruz, “Ejercicios de la Encarnación”, Poesía, Teatro, Pensamiento, introduzione, cura e note di Georgina Sabat de Rivers e Elías Rivers, Espasa Calpe, Madrid 2004. Senza attualizzare lo spagnolo in: Manuel Ruiz de Murga, Sor Juana Inés de la Cruz. Fama y obras posthumas del Fenix de Mexico, Madrid 1700, pp. 60-108. Vedi anche: Buttarelli, Annarosa e Federica Giardini, Il pensiero dell’esperienza, op. cit.; Muraro, Luisa (2007): El pensamiento de la experiencia, in “DUODA. Estudios de la Diferencia Sexual” (33).

[7] Vedi ad esempio: Dickinson, Emily, Ese Día sobrecogedor. Poemas del incesto, prologo e traduzione di Ana Mañeru Méndez e María-Milagros Rivera Garretas, Sabina editorial, Madrid 2017.

[8] Rivera Garretas, María-Milagros (2018) El Estado de Derecho se estrella contra el final del patriarcado in  Duoda (28/04/2018) [Disponible en: www.ub.edu/ duoda/web/es/textos/10/219/]. Sulla fine del patriarcato, vedi: Libreria delle donne di Milano, “Il patriarcato è finito”, in È accaduto non per caso, Sottosopra rosso, gennaio 1996, https://www.libreriadelledonne.it/pubblicazioni/e-accaduto-non-per-caso-sottosopra-gennaio-1996/; Librería de mujeres de Milán “El final del patriarcado. Ha ocurrido, y no por casualidad”, La cultura patas arriba. Selección de la revista ‘Sottosopra’ (1973-1996). Trad. di María-Milagros Rivera Garretas. Horas y horas, Madrid 2006, pp. 185-225. La prima edizione di questo testo fu pubblicata come opuscolo a Barcellona, Llibreria Pròleg 1996.

[9] Sulla politica delle donne, vedi Cigarini, Lia (2007): ¿Qué es la política de las mujeres? Diálogo sobre el libro ‘La cultura patas arriba’, in “DUODA. Estudios de la Diferencia Sexual” (33), pp. 225-241.

[10] Zambrano, María (1987), Eloísa o la existencia de la mujer, in “Anthropos”, supplemento 2, marzo-aprile, p. 80; prima in “Sur”, Buenos Aires, 124, febbraio 1945, trad. it. di Luciana Tavernini.

[11] Dickinson, Emily, Poemas 601-1200. Soldar un Abismo con Aire (prologo, traduzione e lettura delle poesie in spagnolo di Ana Mañeru Méndez e María-Milagros Rivera Garretas), Sabina editorial, Madrid 2013, p. 359; “Unfulfilled to Observation / Incomplete – to Eye – / But to Faith – a Revolution / In Locality – // Unto Us – The Suns extinguish –/ To our Opposite – / New Horizons – they embellish – / Fronting Us – with Night.” “Incumplida para la Observación – /Incompleta – para el Ojo – / Pero para la Fe – una Revolución / De Emplazamiento – // Contra Nosotras – los Soles se apagan – / A nuestro Opuesto – / Nuevos Horizontes – ellos embellecen – / AfrontándoNos – con Noche.” Trad. it. di Luciana Tavernini.

[12] Sull’affidamento, vedi Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, Rosenberg & Sellier, Torino 1987; Librería de mujeres de Milán, No creas tener derechos. La generación de la libertad femenina en las ideas y vivencias de un grupo de mujeres, Horas y horas, Madrid 1991.

[13] Dronke, Peter, Women Writers of the Middle Ages. A Critical Study of Texts from Perpetua (†203) to Marguerite Porete (1310), Cambridge University Press, Cambridge 1984;Donne e cultura nel Medioevo: scrittrici medievali dal II al XIV secolo, prefazione di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, trad. Eugenio Randi, Il Saggiatore, Milano 1986.

[14] L’edizione latina in: Sanctae Hildegardis Abbatissae. “Scivias sive visionum ac revelationum libri tres”, Opera omnia;a cura di Jacques-Paul Migne, Tomus unicus, París, 1855, cols. 533-738. (Patrologia Latina, 197).

[15] Sulla nozione di “battaglia per il simbolico” vedi Sartori, Diana (2016): Volver a pensar, con otras, en lo que hacemos, in “DUODA. Estudios de la Diferencia Sexual” (51), pp. 55-56.

[16] Zambrano, María, Chiari del bosco, trad. di Carlo Ferrucci, Bruno Mondadori, Milano 2004; “El espejo de Atenea”, in Claros del bosque, Seix Barral, Barcelona 1990, p. 145.

[17] Libro de la vida, XXVI.5; ho trattato di questo nel mio: Teresa de Jesús / Teresa of Ávila (trad. inglese di Laura Pletsch-Rivera, edizione bilingue), Sabina editorial, Madrid 2014.

[18] Visione e idea derivano dalla stessa radice indoeuropea *fid; entrambe dall’aoristo eidon del verbo gignṓskō, conoscere.

[19] Muraro, Luisa, Lingua materna, scienza divina. Scritti sulla filosofia mistica di Margherita Porete, M. D’Auria, Napoli 1995.

[20] Borrell, Esther, Les Tres Mares. Les arrels prepatriarcals dels pobles catalans, Pagès, Lleida 2006.

[21] Su questo ordine vedi: Muraro, Luisa, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991; El orden simbólico de la madre (trad. di B. Albertini, M. Bofill e María-Milagros Rivera Garretas). Horas y horas, Madrid 1994; vedi anche Diotima, Il cielo stellato dentro di noi. L’ordine simbolico della madre, La Tartaruga, Milano 1992.

[22] Hildegarda di Bingen, Liber divinorum operum, Pars 1, Visio 4, col. 863, LXXXII: “Scientia itaque boni et mali viscera animae sunt, quibus hominem humilitatem, quae materia omnium virtutum est, docet, et quae hominem in viribus suis in peccatis ita constringit, ut illa in gaudio nunquam perficere possit”. Vedi anche la nota 32.

[23] Prendo questa espressione da Muraro, Luisa, L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto, Casa Editrice La Scuola, Milano 2016; in spagnolo in Muraro, Luisa, El alma del cuerpo. Contra el útero de alquiler (trad. di Sara Alcina Zayas), Icaria, Barcellona 2017.

[24] Weil, Simone, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, trad. it. di Fabio Regattin, Castelvecchi, Roma 2008, p. 42. In spagnolo: Nota sobre la supresión general de los partidos políticos, Escritos de Londes y últimas cartas (trad. di Maite Larrauri), Trotta, Madrid 2000, p. 110.

[25] Allen, Prudence, The Concept of Woman. The Aristotelian Revolution (750 B.C.-A.D. 1250),Grand Rapids (MI) e Cambridge (UK), Wm. B. Eerdmans Publishing Company, 1997, p. 302.

[26] Zambrano, María, Per una storia della pietà in “aut aut” (279/1997), pp. 63-69; Para una historia de la Piedad in “AURORA. Papeles del Seminario María Zambrano, (0/2012),” p. 65; Prima in “Revista Lyceum”, La Habana, 17, 1949. Oggi ci colpisce l’uso abituale di María Zambrano del maschile con pretesa di universale (“uomo”, ad esempio, per riferirsi a donne e uomini); qualche anno fa chiesi a mia madre (un po’ più giovane e anche lei universitaria) come mai loro scrivessero così, e mi rispose: “Perché altrimenti non ti avrebbero dato retta”.

[27] Calvo Escamilla, Neus, (2012) La E de Delfos in “Feminismo/s” (20), pp. 127-142.

[28] Ibid., 140.

[29] Zamboni, Chiara (a cura di), Il cuore sacro della lingua, Il Poligrafo, Padova 2006.

[30] Hildegarda di Bingen, “Acta, XI-154”, Opera omnia, op. cit., col. 61; Vita, 2-35, Ibid., col. 116; Vita, 3-52, Ibid., cols. 127-128; Epistolarum Liber, Epistola prima, Ibid., col. 148; Ep. 13, Ibid., col. 165; Ep. 144, Ibid., col. 223; Ep. 118, Ibid., col. 342; Ep. 140, Ibid., col. 370; Ep. 143, Ibid., col. 378; Ep. 144, Ibid., col. 381; Scivias, 2-visio 6, Ibid., cols. 550 y 551; Scivias, 2-visio 7, Ibid., col. 562-63; Scivias, 3-visio 3, Ibid., col. 596; Scivias, 3-visio 13, Ibid., col. 738.

[31] Hildegarda di Bingen, Scivias: Conoce los caminos, trad. di Antonio Castro Zafra e Mónica Castro, Trotta, Madrid, 1999, p. 508. «Laudate, laudate ergo Deum, beata viscera, in omnibus iis miraculis, quae Deus constituit in molli forma speciei excelsi, quam ipse praevidit in prima apparitione costae viri illius, quem Deus de limo creavit. Qui autem acutas aures interioris intellectus habet, hic in ardente amore speculi mei, ad verba haec anhelet, et ea in conscientia animi sui conscribat. Amen» (Sanctae Hildegardis, “Scivias”, Opera omnia, op. cit., libro 3, visión 13, col. 738).

[32] Ildegarda di Bingen, Il Libro delle opere divine, trad. italiana de Michela Pereira, Arnoldo Mondadori, Milano 2003, pp. 537 e 787.

[33] Dickinson, Emily, “Poema 1747”, Poemas 1201-1786. Nuestro Puerto un secreto, traduzione e lettura delle poesie in spagnolo di Ana Mañeru Méndez e María-Milagros Rivera Garretas, con un epilogo di quest’ultima), Sabina editorial, Madrid 2015, p. 545. “That Love is all there is / Is all we know of Love, / It is enough, the freight should be / Proportioned to the groove.” “Que Amor es todo lo que hay / Es todo lo que sabemos de Amor, / Es suficiente, la carga debería estar / Ajustada al surco.” Trad. it. di Luciana Tavernini.

[34] Weil, Simone, Quaderni, vol. I, II, III, IV, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1982, 1985, 1988, 1993; Cuadernos, trad. di Carlos Ortega, Trotta, Madrid 2001, p. 126; trad. it di Luciana Tavernini.

[35] Sul partire da sé, vedi Diotima, La sapienza di partire da sé, Liguori, Napoli 1996.

[36] Zambrano, María, L’uomo e il divino, trad. G. Ferraro, Edizioni Lavoro, Roma 2008; El hombre y lo divino (1955). Siruela, Madrid 1991.

[37] Trenas, Pilar (2003), Entrevista a María Zambrano (1904-1991), in “DUODA: Revista d’estudis feministes”, (25), pp. 141-165.

[38] Zambrano, María, Filosofia e poesia, trad. L. Sessa, Pendragon, Bologna 2005; Filosofía y poesía, Fondo de Cultura Económica, Madrid 1993, p. 68; trad. it. di Luciana Tavernini.

[39] Zambrano, María, Per una storia della pietà, op. cit., p. 65. Sul sentire oggi, vedi Rivera Garretas, María-Milagros, Entrevista a Candela Valle Blanco. Psicología en femenino, in “DUODA. Estudios de la Diferencia Sexual” (48), 2015, pp. 112-129.

[40] Martinengo, Marirì, La voce del silenzio. Mi ha chiamata da sempre, in “DWF”, 3/2012, p. 11; Martinengo, Marirì (2011), La voz del silencio me llama desde siempre, in “DUODA. Estudios de la Diferencia Sexual”, (40), p. 44; vedi anche Martinengo, Marirì (2015), Me llama desde siempre: la respuesta a la llamada, in “DUODA. Estudios de la Diferencia Sexual” (49), pp. 68-94.

[41] Martinengo, Marirì, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta”. Ricordi, immagini, documenti, ECIG, Genova 2005, p.21.

[42] Zamboni, Chiara (2018), El sentir: una de las palabras clave del vínculo entre feminismo e inconsciente, in “DUODA. Estudios de la Diferencia Sexual”, (54), pp. 52-60.

[43] Cigarini, Lia, “L’obiezione della donna muta”, in La politica del desiderio, a cura di Luisa Muraro e Liliana Rampello, Pratiche editrice, Parma 1995, pp. 57-61; “La objeción de la mujer muda”, in La política del deseo. La diferencia femenina se hace historia, trad. di María-Milagros Rivera Garretas, Icaria, Barcelona 1995; vedi anche Rivera Garretas, María-Milagros (2009), Entrevista a Lia Cigarini, in “DUODA. Estudios de la Diferencia Sexual”, (36), pp. 181-188.

[44] Sulla libertà femminile vedi Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, op. cit.; Cigarini, Lia (1995), Libertad femenina y norma, in “DUODA. Revista de Estudios Feministas”, (8), pp.85-107; vedi anche (2004), Muraro, Luisa, Enseñar la libertad; Cigarini, Lia, Libertad relacional; Sartori, Diana, Libertad ‘con’; e Dominijanni, Ida, La apuesta de la libertad femenina, in “DUODA. Revista de Estudios Feministas”, (26); Cavaliere, Luisa e Lia Cigarini, C’è una bella differenza. Dialogo, et al, Milano 2013; (2015), “Hay una buena diferencia. Un Diálogo”, trad. di María-Milagros Rivera Garretas, Biblioteca Virtual de investigación y Docencia Duoda (BviD) [Disponible en: ] Consultado Diciembre 2019.

[45] Parlo di questo in La reina Juana I de España mal llamada la Loca / Queen Joanna I of Spain wrongly called the Mad, trad. inglese di Laura Pletsch Rivera, Sabina editorial, Madrid 2017.

[46] Martinengo, La voce del silenzio, op. cit.

[47] Ibid., p. 21.

[48] Ho trattato di questo in “La vida de las mujeres: entre la historia social y la historia humana”, in Sabaté, Flocel e Joan Farré (a cura di), Medievalisme: noves perspectives, Pagès editors, Lleida 2003, pp. 109-120.

[49] Zambrano, María, Claros del bosque, op. cit., la quarta di copertina dice: «Creo pues que como libro es el que más responde a esa “idea” hace tiempo formulada de que “pensar es ante todo –como raíz, como acto– descifrar lo que se siente”, entendiendo por sentir el “sentir originario”, expresión usada por mí desde hace años».(«Perciò credo che come libro sia quello che più responde a questa “idea” formulata da tempo che “pensare è prima di tutto – come radice, come atto – decifrare quello che si sente”, intendendo per sentire il “sentire originario”, espressione da me usata da molti anni.» Trad. it. di Luciana Tavernini).

[50] Rivera Garretas, María-Milagros, “Riscattare e redimere il presente” in Buttarelli, Annarosa e Federica Giardini (a cura di), Il pensiero dell’esperienza, Baldini Castoldi Dalai, Roma 2008, pp. 343-357; (2007), La historia que rescata y redime el presente, in “DUODA. Estudios de la Diferencia Sexual” (33), pp. 27-39; in inglese, (2008): History that rescues and redeems the present, “Imago Temporis. Medium Aevum”, (2), pp. 17-25.

[51] Muraro, Luisa, “Vita passiva”, in Buttarelli, Annarosa, Giannina Longobardi, Luisa Muraro, Wanda Tommasi, Iaia Vantaggiato, La rivoluzione inattesa. Donne al mercato del lavoro, Pratiche editrice, Milano 1997, p. 77; Vedi anche Zamboni, Chiara, L’azione perfetta, Centro Virginia Woolf, Roma 1994.

[52] Si può vedere Rivera Garretas, María-Milagros, (2005) Madres e hijas: la llamada de las entrañas in Portal MujeresHoy (11/05/2005) [Disponible en: ] Consultado Dicembre 2019.

[53] Trenas, Pilar, Entrevista a María Zambrano (1904-1991), op.cit.

[54] Lonzi, Carla, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1974, p. 21; Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione, Liguori, Napoli 2002.

[55] Muraro, Luisa, Il Dio delle donne, Mondadori, Milano 2003, pp. 153-154; El Dios de las mujeres, Horas y horas, Madrid 2006, pp. 188-189. Ringrazio Gloria Luis Peralvo per avermi ricordato l’importanza di questo frammento.

[56] Tradotto e pubblicato nella Biblioteca Vitual de investigación y Docencia Duoda (BViD), dell’Università di Barcellona: [Disponible en: <http://www.ub.edu/Duoda/bdiv/text.php?doc=Duoda.text:2016.12.0009>] Consultato Dicembre 2019.

[57] Mercader Amigó, Laura e María-Milagros Rivera Garretas, Hablar como mujeres. Una elección, Resultados del taller de Duoda (con Gloria Luis Peralvo), in “Las jornadas Radicalment feministes. 40 Anys de Feminisme a Catalunya (2, 3 y 4 de junio de 2016)”, Xarxa Feminista de Catalunya, Barcelona 2017, pp. 35-38.

[58] Cigarini, Lia, (2007) La fetta di torta, in “Via Dogana” (8), settembre, p. 5; in Cavaliere, Luisa e Lia Cigarini, C’è una bella differenza. Dialogo, et al, Milano 2013, pp. 71-79; (2015) in spagnolo: “El trozo de tarta” in Cavaliere, Luisa e Lia Cigarini. “Hay una buena diferencia”, op. cit.