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per amore del mondo Numero 3 - 2004

Femminismo

La scommessa del femminismo·

 Che ci sia libertà per le donne, è la questione del femminismo, non altro. Tutto il resto che associamo a “femminismo” o c’entra con la libertà o dobbiamo dargli un altro nome. Che ci sia libertà per le donne, a rigore dovrebbe essere una questione principale dell’umanità intera, e non soltanto del femminismo. Anzi, il femminismo neanche dovrebbe esistere, ma solo l’umanità, se non fosse che l’umanità si è considerata libera anche in assenza di libertà femminile, come nell’antica Atene o nella Francia rivoluzionaria. Paradosso estremo, a pensarci bene. Eppure perfino banale, basta ricordare le quante guerre e lotte di liberazione che si sono combattute e vinte, anche con il contributo femminile, senza che ciò abbia significato libertà per le donne. L’Algeria insegna.

Possiamo dire che ormai questo paradosso appartiene al passato? Molti, in quella parte del mondo che si chiama Occidente, sono pronti a rispondere che sì. Seguendo il criterio da me proposto, dovremmo concludere che il femminismo è arrivato felicemente in porto, avendo perduto la sua ragione d’essere. C’è del giusto in questa veduta. Penso, per fare solo un esempio, alla maniera in cui, oggi, le giovani donne abitano i luoghi dell’istruzione superiore, con agio, signoria e profitto, oltre che sempre più numerose. E misuro il grande cambiamento in termini di libertà femminile ripensando non soltanto alla lotta per l’istruzione femminile condotta da Virginia Woolf (A Room of One’s Own, 1929, Three Guineas, 1938) ma alla mia stessa esperienza di studentessa universitaria, quarant’anni fa, in un mondo dominato dalla presenza maschile.

 

Tuttavia, sentiamo che si tratta di una risposta prematura. La mia personale esitazione a pensare che il femminismo abbia felicemente concluso la sua parabola, non deriva dal perdurare di esclusioni e discriminazioni anche nel nostro tipo di società. Si esagera molto con questo fenomeno. O, meglio, si sbaglia ad interpretarlo. Si arriva infatti a includervi anche delle libere scelte femminili (es., la preferenza per gli studi umanistici, o la scelta del tempo parziale nel lavoro) al punto da far nascere il sospetto che il criterio seguito sia non la libertà ma la parità delle donne con gli uomini. Ciò che mi fa esitare, è proprio questo, ossia la constatazione che la libertà per le donne è legata all’uguaglianza con gli uomini e che questo legame costituisce un limite per la libertà stessa, la rende meno libera, per così dire. Oggi i progetti progressisti di emancipazione, ancora in circolazione negli anni Settanta, non hanno più corso. In compenso, esiste una specie di femminismo di Stato, ossia una politica statale, spesso dettata da agenzie internazionali, che si attacca sistematicamente ad ogni espressione di asimmetria tra i sessi, considerata come sinonimo di disuguaglianza e causa di discriminazione. Sembra quasi che si voglia cancellare ogni manifestazione della differenza femminile, che si tratti della scelta degli studi, delle strategie per accordare vita familiare e lavoro retribuito, o delle preferenze nel tipo di impegno politico… Perché, ad esempio, non si vuole neanche ipotizzare che la scarsa presenza di donne nelle aule parlamentari possa significare una scarsa simpatia femminile per la democrazia rappresentativa?

In secondo luogo, mi mette a disagio che si pretenda, in Occidente, di “esportare” la libertà femminile in altri paesi e culture. In alcuni casi si tratta, scopertamente, di propaganda ideologica: penso all’ultima guerra dell’Afghanistan associata da certi commentatori alla liberazione delle donne. In altri casi, tuttavia, non si può dire altrettanto, non è certo propaganda il libro informato e pensoso di Martha Nussbaum, Women and Human Development. The Capabilities Approach (Cambridge U.P., 2000), che si fa carico di esporre e risolvere una serie di problemi che si pongono dall’interno della società indiana. Il mio disagio non è meno grande in casi come quest’ultimo, anzi, perché sono modelli di quell’universalismo a senso unico che si continua a praticare da parte nostra verso il resto del mondo con un’autorità molto ambigua.[i]

In generale, penso che nella civiltà che si autorappresenta come occidentale, vi sia sì dell’amore femminile della libertà, ma che questo amore si traduca in fatto politico secondo una concezione non libera della libertà femminile. Per cui il paradosso che dicevo prima non farebbe che spostarsi e diventare il paradosso di una cultura politica che, promovendo presenza e protagonismo di donne, di fatto promuove non-libertà femminile. Le donne soldato del carcere di Abu Ghraib in Iraq rappresentano il caso estremo di ciò che intendo dire.[ii]

 

Con ciò ci troviamo davanti ad una grave contraddizione del nostro presente-futuro, quella di una libertà femminile che non trova la sua misura, essendo spinta, dal processo di integrazione delle donne nella vita pubblica, ad esercitarsi fuori da ogni società femminile, in un mondo che era di uomini e che, per tanti aspetti, resta a misura maschile – libertà che rischia così di andare alla deriva dell’insignificanza e dell’imitazione.

Stiamo assistendo al formarsi di un nuovo assoggettamento delle donne? “Assoggettamento”, inteso nel senso suggerito dalla radice della parola, di un farsi soggetto sì, ma nella soggezione da…, una soggezione nuova, in forme che non sono più quelle del patriarcato. Il femminismo postmoderno, lucido nell’analisi critica ma impacciato dalla sua pregiudiziale antimetafisica e dalla sua avversione per l’universale, non ha risposte e funziona piuttosto come uno specchio del modo in cui vanno le cose: l’umanità dispersa in una pluralità indefinita di differenze, l’esperienza soggettiva sfruttata e abusata dai linguaggi della pubblicità, i corpi e i desideri perduti nella confusione crescente di segni e segnali… C’è qualcosa di strano in tutto questo, perché più si va verso l’universale neutro della tecnologia e del mercato, e più il corpo femminile si trova coinvolto ed esposto, che si tratti delle frontiere della ricerca scientifica, dei linguaggi mass-mediali o dei più aspri conflitti armati.

 

Ogni tentativo di bilancio di questi trent’anni di femminismo si trova così sospeso a una domanda radicale come quella di sapere che cosa sia veramente libertà per le donne. Questa stessa estremità ci obbliga ad affidare il nostro passato, per la sua interpretazione e la sua ripresa, alla “memoria dell’avvenire”, ossia alle generazioni future, senza per questo esonerarci dal tentativo di dirne qualcosa: le nuove generazioni hanno diritto che noi facciamo il tentativo.

Una semplice rievocazione del passato non riesce a dare l’intelligenza di quello che è accaduto, la può dare invece la scoperta del passato che non è passato e che è ancora in gioco. Ma come si fa? Con l’energia del conflitto praticato apertamente, rispondo, ossia mettendo in parole quelle cose che ci dividono, tra femministe, tra donne, tra donne più giovani e donne più vecchie. La possibilità di istruirci, di fare carriera, di comparire sulla scena pubblica accende un desiderio di successo e questo crea una contraddizione non ancora affrontata fra donne, la contraddizione dei costi che siamo/non siamo disposte a pagare per affermarci in prima persona nella vita pubblica, e della indulgenza che siamo/non siamo disposte ad avere verso le nostre simili che subordinano tutto al successo personale. Chi conosce il femminismo dall’interno, sa che è sempre stato un campo di battaglia ed è in questo campo di battaglia, nel conflitto aperto con altre, praticato senza chiudere la comunicazione, che la libertà femminile ha trovato la sua misura – quando l’ha trovata. Ed ha preso forma quell’autorità femminile che nessuna legge può rimpiazzare poiché da lì viene la misura della libertà per una donna.

 

Racconterò un fatto. Un giorno di quest’anno, nella Libreria delle donne di Milano, che esiste dal 1975, tre giovani donne vicine ai trent’anni, fra loro amiche e figlie di femministe, hanno parlato della loro incipiente carriera professionale, rispettivamente, regista teatrale, artista visuale, sceneggiatrice, nel corso di un ciclo d’incontri dedicati al lavoro di donne in ambiti non tradizionalmente femminili. Le tre colpirono il pubblico, formato in gran parte da donne più vecchie di loro, per il garbo, la competenza e la personalità di cui davano mostra. Nessuna di noi – abbiamo pensato – a quell’età avrebbe saputo fare altrettanto bene. Ma ci colpirono anche per l’assenza di riferimenti alle idee e alle pratiche del femminismo. Senza sforzo dichiararono la loro riconoscenza alle rispettive madri, lì presenti. Ma questo fu in seguito ad una sollecitazione dal pubblico e non ispirò loro nessuna riflessione politica. Nelle loro parole non c’era ombra di risentimento né di rivendicazione nei confronti dei loro coetanei maschi. Si vedeva che avevano saputo ereditare il meglio del femminismo, ma che erano inconsapevoli della posta in gioco nel passaggio dalla nostra alla loro generazione. Godevano della loro libertà come di una cosa naturale; se invitate a riflettervi, è probabile che avrebbero parlato il linguaggio dei diritti.

Che cosa non va in tutto questo? La risposta in sé è semplice ed è che le tre – e come loro chissà quante altre giovani donne – considerano “naturale” una libertà che l’ordinamento politico riconosce loro, non a causa che sono donne, ma indipendentemente da ciò e a causa che le donne sono uguali agli uomini. Si può anche dire che in realtà esse godono di una libertà che è di origine femminile e che, come tale, non viene loro riconosciuta dall’ordinamento politico. Insomma, esse godono inconsapevolmente di un bene che, per l’essenziale, ha a che fare con una presa di coscienza. Tale è la libertà femminile. E tale – anticipando il seguito – potrebbe essere la libertà umana tout court dal momento in cui diventasse libertà relazionale, che si sviluppa e si rafforza con la libertà dell’altro da sé.

 

Va detto che il femminismo può accompagnarsi ad una certa smemoratezza e inconsapevolezza. Questo tipo di femminismo, oggi il più diffuso, si esprime in tanti modi. Uno merita una speciale attenzione ed è la preferenza a mettersi con altre donne per svolgere certe attività, che si tratti di andare in vacanza o di aprire uno studio professionale o di avviare un’impresa di lavoro. In ciò è riconoscibile la pratica più eclatante del movimento femminista, quella di riunirsi tra donne escludendo la presenza di uomini. Potremmo quasi parlare, per l’oggi, di una pratica della “separazione minore” rispetto a quella degli anni Settanta. Qual è la differenza? Che quest’ultima, la “separazione maggiore”, venne a interrompere consapevolmente il processo di integrazione delle donne nella società degli uomini, portato avanti dalle forze progressiste spesso con la mediazione delle associazioni femminili, nel contesto del grande progetto di emancipazione delle classi subalterne, fra le quali erano incluse anche le donne. Le donne che si riunirono nei primi gruppi femministi alla fine degli anni Sessanta, e che aprirono la strada al movimento di massa degli anni Settanta, in ogni parte del mondo industrializzato, si lasciavano alle spalle un’esperienza di coinvolgimento personale nella politica e nella cultura degli uomini. Erano anni di grande fermento politico. Il gesto di rottura fatto da quelle donne fu qualcosa di totalmente imprevisto che causò non poca sorpresa nei loro compagni, e bisogna ancora spendere delle parole per spiegare il suo significato. A causarlo non fu, lo ripeto, una condizione di ingiusta discriminazione, bensì un vissuto di disagio profondo e una crescente estraneità verso i linguaggi, le pratiche e i progetti fino allora condivisi con gli uomini. Lo dettava, in positivo, la volontà di trovare, nello specchio e nello scambio con altre donne, le parole per parlare di sé e del mondo nella fedeltà alla propria esperienza.[iii]

Fu allora, con quei primi gruppi separati, che il fatto della differenza sessuale passò dalla parte del soggetto ed ebbe fine la oggettivazione della differenza femminile. Nacque allora quello che, in seguito, con Luce Irigaray, si chiamerà il pensiero della differenza sessuale.[iv]

Il progetto progressista dell’emancipazione emanava da un soggetto presuntamene neutro, e faceva lo sbaglio di considerare le donne alla stregua di un gruppo sociale oppresso e discriminato. Con il pensiero della differenza “donna” è invece un nome dell’umanità intera, l’altro è “uomo”; forse, ci sono altri nomi ancora, da trovare o già trovati, ma questi due sono i principali. Impostata su questa base, la lotta contro il dominio sessista per mettere argine e, chissà, fine alle sofferenze che patiscono le bambine e le donne per il solo fatto di non essere di sesso maschile, diventa lotta per un cambiamento che riguarda l’umanità nella sua interezza, poiché le une significano anche gli altri e viceversa, in un rapporto non simmetrico (le donne infatti nascono da donna e gli uomini, invece…pure), il cui significato resta da trovare e che, una volta trovato, resterà – forse – da ritrovare e così sempre, al pari dell’amicizia, dell’amore, della concordia.

 

La cosa che manca al femminismo diffuso, ma che c’era agli inizi e che perciò resta affidata alla memoria dell’avvenire, è la consapevolezza che la libertà femminile non è ovvia, e questo in due sensi. In primo luogo, perché la libertà per le donne non va senza l’obbligo tacito di un loro adattamento alle condizioni che gli uomini considerano fondamentali per la convivenza civile, ad esempio le condizioni della democrazia rappresentativa, che, per parlare francamente, siamo molte a giudicare delle gran perdite di tempo. Condizioni, bisogna purtroppo aggiungere, che possono rovesciarsi in quelle della convivenza incivile; sto pensando alle pilote dei bombardieri della Nato che hanno operato nella guerra del Kosovo e alle kamikaze della resistenza palestinese e cecena. In un senso positivo, la libertà femminile non è ovvia perché porta con sé la domanda e la possibilità di una politica nuova e differente, non più basata sui rapporti di forza regolati bene o male dal diritto, ma sulla relazione e sulla negoziazione, pur con tutta la fragilità che le caratterizza.

Con l’esperienza vissuta nei gruppi femministi, dove parola, coscienza di sé e libertà si generavano dai nostri scambi, abbiamo avuto l’idea di una libertà non liberale bensì relazionale: non come diritto che sancisce un’universale prerogativa di nascita (il “nasciamo liberi” dei filosofi moderni), ma come possibilità creativa, come apertura ad un di più di essere, affidata alla qualità dei rapporti che intratteniamo con gli altri, con noi stessi e il mondo, e compatibile con la dipendenza in cui siamo degli altri dal primo all’ultimo giorno di vita. E come un bene il cui godimento trova nella libertà dell’altro non il suo limite ma, ben al contrario, il suo incremento.

Non avevamo però elementi per pensare che una simile libertà potesse trovare posto nella società delle donne con gli uomini. In effetti, si tratta d’una prospettiva che chiama in causa gli uomini in termini che il femminismo, finora, ha pensato solo idealmente e non ha praticato. La sfida femminista ha segnato il declino dell’Uomo come ente neutro e come nome universale. Lo ha fatto in pratica, con la pratica della separazione. Non lo ha fatto per avversione intellettuale all’universale, ma per dare esistenza simbolica (parole e autorità) alle donne. E così facendo ha posto la critica del dominio sessista nell’orizzonte di un’interrogazione radicale sull’essere umano, che resta aperta. “I sessi sono due” – come in molte abbiamo detto e ancora diciamo – non è la formula della risposta, ma quella della domanda.[v]

 

Il problema, lo ripeto, è davanti a noi, posto ma non risolto, problema di un ordine simbolico in cui l’individuo sa che c’è altro da sé, lo sa non secondariamente né strumentalmente, ma come qualcosa che lo riguarda nel più intimo di sé. E non dimentica quello che ha imparato nascendo. Problema di un senso libero della differenza sessuale. Si può dirlo in altri modi: la asimmetria tra i sessi può tradursi in una relazione praticabile senza pregiudizio per l’uguaglianza e senza perdita di libertà di un sesso nei confronti dell’altro? Ci può essere libertà per le donne senza emancipazione? Ridetto nei termini più semplici e radicali che riesco a trovare: possiamo essere libere/i dalla necessità di essere uguali e dall’obbligo di entrare in competizione?

Si tratta, in sintesi estrema, di passare ad un altro ordine di rapporti, nel senso che ha espresso una scrittrice italiana, Cristina Campo, grande lettrice di fiabe e maestra nel sottrarsi alle simmetrie forzate: “La caparbia, ininterrotta lezione delle fiabe è la vittoria sulla legge di necessità e assolutamente niente altro, perché niente altro c’è da imparare su questa terra. Le prove alle quali gli eroi della fiaba sono chiamati – e come, per superarle, debbano uscire decisamente dal gioco delle forze, cercare la salvezza in altro ordine di rapporti…”.[vi]

 

 

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[i]               Sophie BESSIS, L’Occident et les autres. Histoire d’une suprématie, Préface inédite de l’auteur, La Découverte, Paris 2003

[ii]              Riprendo qui un’idea già esposta al decimo congresso internazionale della Società delle filosofe (IAPh), a Barcellona, nel 2002: Luisa MURARO, Enseñar la libertad, in Fina BIRULÉS & María Isabel PEÑA AGUADO (eds.), La passió per la llibertat. A passion for freedom. Acció, passió i política. Controvérsies feministes. Action, Passion and Politics. Feminists Controversies, Universitat de Barcelona, Barcelona 2004, pp. 52-54.

[iii]             Mi baso sul racconto politico della LIBRERIA DELLE DONNE DI MILANO, Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, Rosenberg & Sellier, Torino 1987, 1998 (traduzione inglese di Patricia CICOGNA e Teresa de LAURETIS: THE MILAN WOMEN’S BOOKSTORE COLLECTIVE, Sexual Difference. A Theory of Social-Symbolic Practice, Indiana U. P., Bloomington and Indianapolis 1990).

[iv]             Luce IRIGARAY, Speculum. De l’autre femme, Minuit, Paris 1974; ead., Éthique de la différence sexuelle, Minuit, Paris 1985 ; ead., Sexes et parentés, Minuit, Paris 1987. In Italia, il pensiero di Irigaray ha liberamente ispirato l’opera di « Diotima », un gruppo di filosofe nato nel 1884 del quale citerò soltanto il primo libro apparso, DIOTIMA, Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, 2003.

[v]              Questa formula è anche il titolo di un libro che ha fatto molto discutere in Francia: Antoinette FOUQUE, Il y a 2 sexes, édition revue et augmentée, Gallimard, Paris 2004

[vi]             Cristina CAMPO, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987, p. 157.