diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 8 - 2009

Il Punto di Leva

La scala senza pioli

Il testo che segue è tratto dall’ultimo capitolo di un saggio in corso di stampa sulla politica ripensata fuori dalle nozioni correnti, intitolato Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio (Mondadori 2009). Questo testo prepara sviluppi più recenti, intorno al tema dell’indipendenza simbolica dal potere: il generale di Sun Tzu di cui si parla qui, è una figura di tale indipendenza. E troverà il suo naturale prolungamento nel contributo di Luisa Muraro al prossimo libro di Diotima, ricavato dal grande seminario dell’autunno 2008, “La politica e il potere non sono la stessa cosa”. Nel testo e nel libro l’autrice si rappresenta come una delle nane di pietra che ornano il muro di cinta di Villa Valmarana ai nani, a Vicenza; è nei pressi di questa villa che, per anni, la comunità Diotima si è riunita in occasione dei suoi ritiri filosofici.

 

Quando il sindaco della mia ricca città, in pieno inverno, ordinò di coprire di punte acuminate le prese d’aria della metropolitana e spiegò che lo faceva in nome del decoro cittadino, per impedire ai barboni di stendersi lì sopra a scaldarsi nottetempo, come avevano preso l’abitudine di fare, che cosa dovevamo pensare? Che avevamo eletto un mostro? O non piuttosto uno stupido? O che lui, nostro autentico rappresentante, ci stava segnalando la deriva dell’ethos cittadino, di cui non ci eravamo ancora accorti? Ma costui, conosciuto come un mediocre brav’uomo che le contingenze del momento avevano portato a quella carica, da dove prendeva l’ispirazione per spingere il diffuso egoismo cittadino a tali estremi da farci vergognare? Era, la sua, un’interpretazione osée ma sostanzialmente corretta del mandato ricevuto dagli elettori, oppure, con tutta la sua buona volontà di uomo pubblico, si era gravemente equivocato nell’interpretarlo? In tal caso, come catalogare il suo errore? Errore politico, carenza etica o perdita dell’orientamento? Per finire, tutto si è rapidamente risolto con un sussulto di vergogna generale che fece ritirare l’ordinanza. In spagnolo si chiama vergüenza ajena: vergognarsi per un altro.

In filosofia, verso la fine del secolo scorso, c’è stata una “svolta etica”. Molti si sono messi a pensare che l’economia, la politica e le scienze avrebbero bisogno di una correzione o di un complemento di natura morale, le ragioni per pensarlo non mancano, dopo la sconfitta del comunismo con i suoi progetti di giustizia sociale, la globalizzazione dei mercati e della guerra, l’ipersviluppo della tecnoscienza.

Ma nessuno di costoro, nel paesaggio sconvolto, sembra avere visto l’affacciarsi di un desiderio femminile che lotta per contare e si mette in gioco. Oppure non hanno riconosciuto, nello squilibrio che porta l’affacciarsi di un desiderio di libertà, una risorsa morale e un punto di leva per il cambiamento, con qualche eccezione, nelle agenzie internazionali. I più, hanno riconosciuto solo una richiesta di parità. Va detto che altri, fra i cercatori di risorse umane nel mercato del lavoro, non si sono equivocati a tal punto.

Per parte mia, mi lascio guidare, in pratica e in teoria, dall’autorità immanente alla vita stessa della lingua, che ho imparato ad ascoltare dapprima nel Sessantotto nella lotta di liberazione delle parole, poi entrando nella società delle donne, in una ricerca di lingua che abbiamo chiamato generazione del mondo, come un mettere al mondo il mondo.[1] Il desiderio di libertà che dicevo sopra, non è desiderio di un oggetto che si chiamerebbe libertà: è desiderio di esprimersi liberamente, perché il desiderio, per sua natura si direbbe, parla, vuole parlare e, impedito, lo fa ugualmente, con i sogni, i sintomi. E l’unica autorità che gli corrisponde felicemente, ma vera autorità, è quella della lingua e del linguaggio in generale.

La lingua viva che ci orienta nel senso della realtà, lo fa senza essere razionale o irrazionale, logica o illogica, vera o falsa, giusta o ingiusta. Come fa? Con noi che ci parliamo, non c’è dubbio, anche se la risposta è incompleta. Fin dove sono arrivata io, ho visto che quando il circolo delle rispondenze fra parole e cose, è attivo e coinvolge coloro che si parlano, non c’è quasi bisogno di una legge o di una morale codificata. Per contro, se non c’è attività simbolica in corso e coinvolgente, ogni ordine sociale, volente o nolente, ha bisogno di essere imposto e si traduce in una forma di dominio che merita la nostra ribellione. Senza quel circolo che genera il poco o tanto di giustizia e verità di cui siamo capaci e ce le fa accettare, la conoscenza e la giustizia diventano porte aperte al potere arbitrario di decidere che cosa è vero, che cosa è giusto, forme dell’irrealtà e della sfiducia.

Necessario ma non sufficiente, ho scritto del lavoro simbolico che assicura all’essere di non finire in niente, alla giustizia di avere voce, alla bontà di vincere sull’egoismo.

Tenterò, con una domanda, di entrare nel significato di queste parole: che cosa capita esattamente al posto e a causa di quella insufficienza? La risposta è semplice: quello che capita è questo mondo. Non intendo dire che questo mondo sia il teatro delle nostre carenze: esso è, ben più, il loro risultato, risultato cioè di una mediazione insufficiente, effetto di una rispondenza fra le cose e le parole che continua a riprodurre eccessi e carenze. Il lavoro della mediazione è come una scala cui mancano gli ultimi pioli, come una nave che le correnti non lasciano approdare; non si può tuttavia farne a meno e non si può abbreviare la strada, il perché è una questione per la quale ho trovato più aiuto nelle fiabe che nella filosofia, che non ha il gusto degli enigmi.

Il grande Platone ha teorizzato che l’essere, e così pure la giustizia, la bontà, la bellezza, non sono di questo mondo. Aiutandosi con i miti, ha insegnato che oltre a questo mondo esiste un cielo dove le idee che ci orientano, vigono in una condizione perfetta, e noi lo abbiamo abitato prima di nascere. Il plus, egli lo ha concepito, dunque, come una luce preesistente che soccorre il nostro lavoro simbolico e a quest’ultimo attribuisce la caratteristica eminente della ripresa, in quanto consiste essenzialmente in un laborioso ricordare la nostra dimenticata esistenza di abitatori del cielo dove abbiamo potuto contemplare le idee.

Io, la nana di pietra sul muro della villa, non oso seguirlo tanto in alto, nonostante lo abbiano seguito le pensatrici che più mi tengono compagnia in questa ricerca, Simone Weil e al suo seguito Iris Murdoch e Cristina Campo. E propongo la risposta che ho ricavato ispirandomi ad un antico libro di filosofia cinese, L’arte della guerra del maestro taoista Sun Tzu (o Sun Zi), più antico di Confucio. Secondo questa risposta, l’insufficienza della mediazione in sé non è un limite o un difetto. È un passaggio, è in vista di una possibilità ulteriore che ci viene offerta e che, per il fatto stesso di essere tenuta presente, modifica la visione delle cose. In che cosa consista,  lo esporrò con le parole dell’antico maestro, del cui significato mi sono impadronita per i miei scopi, certa di non far loro danno.

Questo antichissimo libro, imbevuto di saggezza, un vero e proprio manuale che si rivolge in prima istanza al generale che conduce l’armata in guerra, a distanza di 2500 anni, caso più unico che raro, continua ad essere studiato nelle scuole e nelle accademie, in Asia e in Occidente. I suoi insegnamenti, semplici quanto profondi, possono applicarsi ad un gran numero di situazioni, dagli affari alla vita di coppia, fino ad abbracciare l’intera condizione umana. Esso insegna a governare le situazioni di conflitto mediante i mezzi a disposizione, la conoscenza di sé, quella dell’avversario e del mondo circostante, così da ottenere il risultato desiderabile. Nel linguaggio del libro, il risultato desiderabile consiste nel vincere la guerra senza gravi danni, se possibile senza combattere, e, meglio ancora, senza darlo a vedere.

Lungo tutto il testo, diviso in tredici brevi capitoli, si insiste sull’obbedienza dovuta dal generale agli ordini dell’imperatore cui spetta la responsabilità politica della guerra. “In guerra il generale riceve il comando dal sovrano”, ripete in apertura anche l’ottavo capitolo, intitolato Nove variazioni, sull’importanza di conoscere le varianti tattiche e di saper modificare i piani. Ed è qui che, a un certo punto, leggiamo un capoverso dal finale sorprendente: “Ci sono strade che non devono essere seguite, eserciti che non devono essere attaccati, città che non devono essere assediate, posizioni che non devono essere prese d’assalto, ordini del sovrano che non devono essere eseguiti”.[2]

A sorpresa, di colpo, il testo ci mette davanti ad un enigma. Quello che dice, nella frase da me sottolineata, è in contrasto con il suo costante insegnamento, ma possiamo parlare di una contraddizione? Tale non appare, considerando che la contemplata disobbedienza viene in coda a una serie di varianti, essa stessa dunque come una variante, di un genere però speciale,  poiché non si tratta di scostarsi da una determinata strategia, ma dalla giusta misura del potere del generale, fondato sul comando ricevuto da chi il potere lo possiede in proprio. Si potrebbe pensare, a questo punto, che non sia esattamente così e che il potere sia invece spartito, secondo le rispettive competenze. Si potrebbe altrimenti supporre che vi siano dei casi che fanno eccezione (confermando la regola). Ma il maestro taoista non avvalora né l’una né l’altra ipotesi, infatti non dà precisazioni e non tornerà più sulla questione: il suo insegnamento consiste tutto nel constatare che, talvolta, si deve non agire come sarebbe giusto, anzi giustissimo, obbedire all’imperatore. Che nome dare a questa eventualità, non lo dice.

La necessaria mediazione è una forma di obbedienza: obbedienza alla necessità, ripete spesso Simone Weil. La necessità della mediazione è l’imperatore al quale non possiamo che obbedire. Ma ecco che neanche il dovere sacrosanto di obbedire all’imperatore, vale in assoluto, dobbiamo saperlo senza tuttavia sapere quando possiamo derogare. Accade o, meglio, può accadere che non valga ciò di cui abbiamo la certezza che vale. In quali circostanze? Sun Tzu non lo dice perché, possiamo immaginare, non lo sa in astratto, fuori dal trovarsi lui stesso a essere il generale che riceve gli ordini dell’imperatore. Lui, che forse fu un generale, sa questa possibilità e, soprattutto, sa che il generale deve a sua volta saperla. Sun Tzu ci insegna che la necessaria mediazione non è sufficiente e che non c’è altro da sapere, a questo proposito. Nel suo testo, non c’è nessuna apertura possibile alla casistica. Immaginare che si tratti di una spartizione delle competenze tra il generale e l’imperatore, o che si tratti dell’eccezione che conferma la regola, o qualsiasi altra congettura, è un indebito completamento che offusca il significato dell’insegnamento.

Un enigma, sì. Ma, se non cerchiamo di smussarlo, il suo significato diventa evidente nell’effetto che produce. La contemplata disobbedienza come possibilità che il maestro taoista insegna a tenere presente, non assorbita da congetture varie, si riverbera sull’obbedienza facendo così della sua pratica un agire libero. Ogni volta che il messaggero arriva con gli ordini dal palazzo imperiale, può portare gli ordini ai quali non si deve obbedire. Se il vuoto normativo non ci paralizza e continuiamo a guidare l’armata verso il risultato desiderabile, ecco che la sottomissione del generale all’imperatore, la nostra sottomissione alla necessità e alla necessità del lavoro della mediazione, prende, dall’inizio alla fine, la divisa della libertà.

È con questa “variazione” che l’equilibrio, nella ricerca delle parole capaci di salvare il reale e di generare con questo lavoro qualcosa di vero e di giusto, si schioda da ogni fissità, ideale, materiale o normativa, e diventa praticabile. È l’equilibrio instabile del funambolo e della ciclista, condizione della competenza simbolica. Come i parlanti nativi sanno fare sempre nuove frasi nella lingua in cui si parlano, secondo i contesti e le loro esigenze, ed è questo che i linguisti chiamano competenza linguistica e in ciò consiste la lingua, così la competenza simbolica, per analogia, è un imparare ad orientarsi nel mondo, a leggere in esso le sue possibilità inedite, e a governarlo.

Insieme a questo guadagno, come suo corollario, si affaccia la scoperta di ciò che impedisce alle necessarie mediazioni di chiudersi in un sistema di dominio. La loro insufficienza chiama la nostra libertà con voce che arriviamo a intendere se abbiamo “virtù”, nel significato che le dà Machiavelli, tradotto nel contesto della postmodernità: forza e astuzia di aprire un passaggio tra il tutto già deciso, già interpretato, già previsto, e il non ancora. Il tutto già interpretato della mia esperienza, il tutto già definito di quello che conta e di quello che si considera invece trascurabile o spregevole, il tutto già saputo dai saperi specialistici, il tutto già deciso dai poteri di questo mondo, quello economico al primo posto. E il non ancora: un filo appena, ma, a seguirlo, si arriva a un mare, un oceano, tre oceani, di possibile. L’equilibrio instabile è libero. Quello che di noi, poco o tanto che sia, resta fuori dall’ordine stabilito (il “corpo selvaggio” lo chiamavo nel libro dedicato ai simbolici ferri da calza della metafora e della metonimia, Maglia o uncinetto), insiste a chiedere una coerenza ben più ricca, potente e parlante di quella di un codice penale o di una teoria etica, pena seminare disordine materiale e simbolico, come di fatto avviene e l’arte del cinema non manca di mostrarci. Si tratta di riuscire a sbrogliare il filo dell’imbrogliata matassa e farlo passare dalla cruna di un’inedita combinazione. Non fanno così i poeti, non è per questo che leggiamo le poesie?

Una domanda sta aspettando la sua risposta: che cosa accade nel punto in cui il generale che conduce l’armata verso il risultato desiderabile, riceve dal sovrano ordini ai quali non deve obbedire? Sulle loro caratteristiche e sulle circostanze che li fa riconoscere, non sappiamo nulla, ma è certo che ordini di questo tipo possono arrivare. Ora che il generale non deve sottostare agli ordini del sovrano da cui ha ricevuto il comando, come può comandare? Così noi, non è forse illusione credere che possiamo sapere e decidere alcunché senza sottostare al sistema delle mediazioni in vigore? Siamo noi come la sciocca colomba dell’exemplum filosofico, che si sente impedita nel volo dalla resistenza dell’aria e sogna di volare nel vuoto?

C’è un errore in queste domande (e nell’exemplum della colomba), nel quale non cade Sun Tzu. Questi presenta il dovere di non obbedire nella forma di una costatazione: ci sono strade…, ci sono città…, ci sono ordini dell’imperatore… Le domande lasciano pensare che il problema penda o dipenda da una nostra opzione, mentre non è esattamente così: non c’è opzione né prima né dopo. (Si tende sempre a esagerare il proprio potere di decisione.) Il generale riceve ordini ai quali non deve obbedire, e analogamente noi ci troviamo a salire sulla scala senza pioli, o in volo nel vuoto. Questo si tratta di pensare, e alle domande rispondiamo perciò con un paradosso: sì, volare nel vuoto è possibile, dev’essere possibile, perché già lo stiamo facendo. Ossia, è possibile non conformarci al sistema delle mediazioni in vigore, perché qualcosa di noi già si trova fuori da esso. In noi e nel mondo c’è del già pensato, ma c’è anche dell’impensato e dell’impensabile. E il mondo non è esploso, e se esploderà, guardate che non sarà per questo: sarà per l’esonero dalle necessarie mediazioni, sarà per via delle scorciatoie, militari o politiche o ideologiche.

Allora, facciamo il passo ulteriore. Che è di renderci conto che, andando dietro a quel qualcosa che vive e prospera o patisce, ma senza debiti verso l’ordine simbolico dominante, possiamo sottrarci, io dico, al dominio ed entrare in un altro ordine di rapporti, dove non vale la legge del più forte.

Ma il generale, che ha come regola di obbedire all’imperatore, potrebbe paralizzarsi nel momento in cui non può più farlo. È naturale, e per questo (anche per questo) Sun Tzu scrive il suo libro. Non che il libro sostituisca la poderosa autorità dell’imperatore, sta lì a tenere occupato il posto, è un segnaposto. In un passo lontano da questo citato, troviamo l’elogio del generale che “avanza senza il pensiero fisso di coprirsi di gloria o si ritira senza temere di cadere in disgrazia, con il solo pensiero di proteggere il suo paese e di rendere un buon servizio al sovrano” (cap. 10, punto 25). Il generale che non obbedisce agli ordini, rischia ben più della carriera, la testa. Ritirarsi o avanzare è una scelta lasciata a lui, non così l’obbedienza all’imperatore. Tutto andrebbe a posto (salvo la testa) se, a questo punto, potessimo appellarci ad una legge superiore, come fa Antigone che si ribella all’ordine di Creonte. Ma niente di simile è previsto in questo testo che, non a caso, non appartiene alla tradizione occidentale, come invece il conflitto tragico fra Antigone e Creonte che tanto ci affascina. Qui c’è solo il libro segnaposto.

Riprendo il “passo ulteriore”, del sottrarsi al dominio per un altro ordine di rapporti. La strada che si apre, nel vuoto normativo, inteso in senso forte, è quella della mediazione vivente. L’impensato e l’impensabile sono la causa della nostra attività simbolica che può prendere il posto dell’ordine simbolico in vigore (l’imperatore); al posto della regola ci siamo tu e io, qui e ora, noi che siamo coesistenza di esperienza mediata e di reale muto, viventi in un mondo risultante da una parola deficitaria, senza rimedio. Più o meno come il generale che, nudo e crudo, a capo dell’esercito, continuerà a servire il suo paese e l’imperatore, senza il rivestimento del comando. (E i soldati, gli obbediranno? Non me ne intendo specialmente di uomini e tanto meno di soldati, ma di natura umana, un poco sì e direi che sì, gli obbediranno.)

[1]              Mettere al mondo il mondo, è il titolo di un libro di Diotima (La Tartaruga, Milano 1990).

[2]              Sun Tzu, L’arte della guerra, a cura di Alessandro Corneli, Guida, Napoli 1988, p. 107.