La rivoluzione accade
Per amore del mondo 16 (2019) ISSN 2384-8944 https://www.diotimafilosofe.it/
Affinché sia veramente chiaro a chi legge cosa mi abbia lasciato il Grande Seminario di Diotima del 2018, credo che sia necessario esporre il mio punto di vista pre-seminario e i criteri con cui sono solito interpretare la realtà che mi circonda. Sono un uomo che si è realmente avvicinato alla teoria e alla prassi del movimento femminista in tempi relativamente recenti, ma che non ne è mai stato estraneo. Forse perché sono cresciuto con molte donne della mia famiglia, che sono state per me esempio di vita, o perché da sempre ho militato nell’area politica propria della sinistra a vari livelli. A questa mia passione per la politica ho affiancato quella accademica, laureandomi in Storia e specializzandomi in particolare nello studio delle Scienze Religiose. Ne consegue che il mio metodo analitico sia molto influenzato da quello marxista proprio della scuola storico-religiosa italiana di Brelich e De Martino.
Dopo questa breve presentazione, che – ammetto – assomiglia più a un’autodifesa, partirò subito col dire che questo ciclo di incontri per me è stato estremamente stimolante e che ha certamente messo in discussione alcune mie convinzioni, evidentemente poco o mal radicate. La mia metodologia, pertanto, mi impone di affrontare con ordine i quattro incontri, partendo dal primo di Luisa Muraro.
L’intero seminario è intitolato “Sbilanciamoci dalla parte della politica delle donne”, giusto per mettere le cose in chiaro fin da subito. Luisa Muraro parla del bisogno di “sentirsi buoni” e per farlo mette in campo la sua «Difesa di Simplicio»: il riferimento è al personaggio del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo, Simplicio è lo studioso tradizionalista che fatica a concepire la Rivoluzione Copernicana. È un personaggio inventato da Galilei, con l’intento di mettere in ridicolo gli avversari. Ebbene, nel suo intervento Muraro attualizza questa figura, connotandola come la persona media che proviene dalla classe popolare e dalla classe media impoverita che oggi votano la Lega perché offre sfogo ai sentimenti di rabbia, insicurezza, impotenza e rancore. L’intento non è quello di sbeffeggiare questo nuovo Simplicio, bensì di comprenderlo. Muraro sottolinea che Simplicio avrebbe bisogno di sentirsi “buono” per essere più civile (quindi in contatto con gli altri) e che la cultura della classe popolare da cui proviene è prima di tutto una “cultura dell’aiutarsi”: ai bisognosi si dà una mano, a differenza di ciò che fanno solitamente le classi dominanti. È proprio nell’identificazione di queste classi dominanti a cui contrapporsi che si crea un distacco con il passato: Simplicio ora appartiene al populismo di destra, quello reazionario, il cui nemico è il libero mercato, le Banche e le élite economiche, che impongono di accettare abitudini che confliggono con la tradizione, quella tradizione che dà tanta sicurezza. Tali novità vanno dal cibo etnico, alle “nuove tecnologie”, agli immigrati. La gestione dei flussi migratori – verrà più volte ripetuto durante i vari incontri del grande Seminario – è uno dei punti focali della politica mondiale odierna. Questo tipo di populismo conservatore e reazionario trova grande espressione nella Francia della Le Pen, negli Stati Uniti di Trump, nel movimento a favore della Brexit del Regno Unito ed è giunto in Italia con la Lega e il Movimento 5 Stelle.
Luisa Muraro riprende la distinzione tra populismo di destra reazionario da quello di sinistra rivoluzionario. Il secondo troverebbe la sua massima espressione nel Sud America, con il Peronismo. La scelta di questo esempio resta a parer mio un po’ infelice. Loris Zanatta, tra i maggiori esperti italiani di storia latinoamericana, definisce il Peronismo come un «regime ibrido», che nasce emulando il fascismo, esprimendo «appieno il viscerale nazionalismo, il governo autoritario e la volontà di chiudere la pagina liberale della storia argentina.[1]» È vero che Juan Domingo Peron si avvalse dell’appoggio delle classi popolari e dei socialisti – almeno nei primi tempi –, che si adoperò per diminuire la povertà e che coinvolse i sindacati nelle sue lotte, tuttavia la sua esperienza trovo sia più identificabile in un “socialismo nazionale”, che nel socialismo vero e proprio. Peron riprendeva chiaramente aspetti del fascismo come il “corporativismo”, o il sindacalismo di stampo franchista, come la Falange di José Antonio Primo de Rivera. Con la conquista del potere, infatti, si dedicò alla repressione delle frange sindacali ideologicamente radicate a sinistra. Pertanto, trovo il Peronismo più simile alla destra, che alla sinistra. Personalmente avrei scelto un esempio diverso, magari quello cileno di Salvador Allende, socialista vero e proprio divenuto simbolo di resistenza in tutta l’America Latina, o i casi più storicamente vicini, come quello di Hugo Chavez in Venezuela, grande ammiratore di Gramsci e fondatore dell’idea di “Socialismo del XXI secolo”, o di Evo Morales in Bolivia, indigeno Aymara ex «ex-cocalero» (sindacalista dei coltivatori di coca) e fondatore del MAS – Movimento Al Socialismo.
Tralasciando queste mie precisazioni, il concetto che Luisa Muraro ha voluto portare a riflessione è la crisi del progressismo in tutte le sue manifestazioni, sia quella scientifico-tecnologica che quella politica, ma anche quella dei diritti e dei “nuovi diritti”. Tra questi ultimi sono compresi la regolamentazione della prostituzione e la GPA (Gestazione Per Altri). Ed è qui che ho avuto i miei primi vacillamenti, poiché ammetto di aver avuto un’opinione piuttosto superficiale su queste tematiche e di aver scoperto la loro complessità e profondità proprio in questa occasione. Partendo dalla questione della prostituzione, ho sempre pensato che la sua regolamentazione avesse come pregio quello di togliere donne in difficoltà dalle mani della malavita e che in fondo le “sex workers” (esistenti laddove la prostituzione è regolamentata) avessero guadagnato diritti e assistenza. Non avevo tuttavia tenuto conto di una cosa fondamentale, ovvero del punto di vista delle donne stesse. Le prostitute non sono come la cannabis, non è che “legalizzandole” si risolve il problema. A quanto pare se ne creano altri, potenziando il controllo e l’accesso di un sistema patriarcale al corpo delle donne. Muraro cita Carole Pateman, che parla di “falsi diritti” nel suo libro Il contratto sessuale e di come questi siano una versione neoliberista della libertà maschile di accedere al corpo femminile. Ebbene, sentendomi toccato nel mio marxismo intrinseco ho sentito il bisogno di ripensare la questione in altri termini, trovandomi a considerare queste problematiche non più come marginali, ma come nuovi importanti sintomi di quello che è il vero problema di fondo, ovvero il sistema economico-sociale vigente.
Posta in quest’ottica più vicina ai miei ambiti di interesse e di studio, ho riconsiderato le problematiche e strutturato nuove opinioni a riguardo, anche grazie al parallelismo fatto tra i meccanismi del neocolonialismo, di cui sono un fervente oppositore, e il capitalismo di stampo patriarcale sul corpo delle donne. Quando i liberali progressisti di destra dell’Economist parlano del progetto “L’Africa nel destino dell’Europa”, citato da Muraro, non parlano di un aiuto disinteressato per il continente oltre il Mediterraneo, ma intendono invece l’«importo di manodopera nera in maniera ordinata», per fare i comodi delle aziende di proprietà dei bianchi. Anche le risorse destinate allo “sviluppo” dei paesi africani derivanti da questo progetto porterebbero a uno sviluppo socio-economico basato chiaramente sul modello europeo, senza tener conto delle particolarità territoriali e culturali dei paesi africani. E questo altro non si può che chiamarlo “colonialismo”. Ebbene, col corpo delle donne accade la stessa cosa: i “diritti” vengono loro concessi illusoriamente per il loro bene, quando invece si creano nuove forme di accesso al corpo femminile e di sfruttamento maschile dello stesso. Neocolonialismo maschile.
Non si può negare l’influenza della globalizzazione neoliberista sulla politica e sulla società. Negli anni ’80 avvenne il cambiamento del sistema economico capitalista, con il passaggio dal “fordismo” al “post-fordismo”. Mark Fisher in Realismo Capitalista identifica una data precisa, il 6 ottobre 1979, giorno in cui «la Federal Reserve portò i tassi d’interesse al 20% spianando la strada alla cosiddetta supply-side economics che avrebbe modellato la realtà economica in cui tuttora siamo immersi»[2]. Da allora il mercato è in continuo cambiamento, la stabilità economica propria del fordismo viene sacrificata alla “flessibilità” postfordista, aumentando lo sfruttamento della classe lavoratrice da parte della finanza globale e le disuguaglianze economiche, facendo più ricchi i ricchi e più poveri i poveri. Il “mercato” diventa la nuova divinità, come spiega Paolo Scarpi in Si fa presto a dire Dio, con un capitolo ad hoc dal titolo emblematico: Imperialismo, universalismo e globalizzazione[3]. Nel capitolo, Scarpi descrive la naturale correlazione tra il sistema religioso monoteista e la globalizzazione economica. In passato, il potere politico imperialista e quello religioso sono sempre andati a braccetto, imponendo col colonialismo un modello sociale ed economico universale, uguale per tutto il mondo, fagocitando o distruggendo l’«altro-da-sé». Gli esempi sono purtroppo numerosi, primo fra tutti quello degli Indigeni americani, da nord a sud. L’universalismo monoteista non ammette altra verità al di fuori della propria, portando sistematicamente all’annientamento di ciò che è diverso, per formare un’unica comunità “universale”. Allo stesso modo funziona la globalizzazione, che tende ad eliminare le differenze socio-economiche per imporre il proprio sistema di produzione, sacrificando sull’altare del mercato intere culture e comunità economiche autonome. Tutto questo proprio perché il mercato, che diventa «un’entità metastorica sovraordinata all’azione umana»[4], vede nelle differenze etniche, nazionali e culturali un ostacolo da abbattere. Si agisce in nome del “mercato”, come in passato si agiva in nome di Dio, condividendo con Dio anche le caratteristiche di anonimato e inconoscibilità.
Il monoteismo, quello cristiano nello specifico, ha quindi profondamente modellato molte caratteristiche del capitalismo[5], prima tra tutte quella della sistematica eliminazione delle differenze in favore di un unico modello da seguire. Ed è qui che si inserisce il patriarcato moderno, strettamente collegato a questo sistema, che non riconosce le differenze e non le valorizza, anzi le demonizza. La lotta femminista si situa quindi alle radici sia della lotta contro il patriarcato che contro un sistema di controllo di stampo capitalista[6]. Infatti, Luisa Muraro nomina Ferruccio De Bortoli e Joseph Stiglitz, che prendono marcatamente posizione dichiarando che la globalizzazione minaccia gravemente il primato della politica e che solo la politica può porvi un freno. Muraro parla della Politica delle Donne come di una politica volta a un cambiamento di civiltà: la civiltà necessita della politica, altrimenti si baserà solo sui rapporti di forza e sul governo dei tecnocrati dell’economia.
Questo mi ha portato a pensare che perché la Politica delle Donne abbia successo ci sia bisogno anche della compartecipazione degli uomini. Per fare un esempio, una rivoluzione di popolo avviene più velocemente e più efficacemente se l’esercito dell’oppressore, o parte di esso, si schiera con le masse rivoluzionarie. Così avvenne in Russia nel 1917; la Rivoluzioni di Febbraio e d’Ottobre non sarebbero mai riuscite senza le “Guardie Rosse”, gruppi armati formati certamente da operai e contadini, ma anche da disertori dell’esercito zarista, come i marinai della flotta baltica di Kronstadt. Alla stessa maniera, la Politica delle Donne deve coinvolgere gli uomini, o una gran parte di essi, affinché il sistema inizi a vacillare. Perché il Femminismo si completi nel suo auto superamento e si giunga al “senso libero della differenza sessuale”, è necessario entrare in contatto persino con Simplicio.
Come dice Luisa Muraro, Simplicio non vede di buon occhio i cambiamenti, anzi, lo spaventano. Intimamente è ancora legato al sistema fordista, radicato nella tradizione e che gli dava certezze per una vita tranquilla. Gli veniva insegnato che le minacce a questa tranquillità giungevano dall’esterno, ovvero dai comunisti che volevano distruggere i valori con cui era cresciuto. Aggiungerei che, dopo la caduta dell’URSS, la “minaccia dall’esterno” ha lentamente cambiato provenienza, finendo con l’identificarsi con gli immigrati di varia origine. Dopo l’11 settembre 2001 la nuova minaccia è diventata soprattutto il terrorismo islamico, quindi i musulmani in generale. Ad oggi, sembra che a minacciare la società siano tutti questi elementi messi assieme. Simplicio ci crede fermamente per molti motivi, il principale è che tutti questi “nemici” siano semplici da identificare e da combattere. Ciò che invece è davvero alla base del disfacimento della sua realtà fatta di tradizione e stabilità è il capitalismo stesso, nella sua nuova evoluzione postfordista. Il capitalismo ha bisogno della famiglia per creare e crescere il proletariato secondo uno schema di valori adatti al suo sfruttamento, eppure esso stesso sta minando le fondamenta della possibilità della costruzione di una famiglia, creando una situazione sociale basata sulla “flessibilità” che inevitabilmente genera precarietà. “Flessibilità” è un termine rassicurante che ha il solo compito di nascondere la definizione più realistica di “instabilità”. L’individuo perde il controllo sulla progettazione della propria vita. Il lavoro finisce per coprire tutta la sfera della vita generando profondi conflitti nelle relazioni umane. L’instabilità della vita si traduce in instabilità psicologica, portando all’aumento di casi di depressione e di sindrome bipolare, poiché bipolare è il capitalismo stesso: esso passa da momenti di euforia – le «bolle» – a momenti di profonda depressione – «depressione economica». Proprio per questo Mark Fisher dice che «il capitalismo nutre e riproduce gli umori della popolazione a un livello che nessun altro sistema sociale ha mai sfiorato»[7]. Simplicio si trova quindi in una situazione complessa, non è lucido, e tutto questo per lui non è per nulla facile da riconoscere e comprendere. Come può la politica, soprattutto quella delle donne, avvicinarsi a Simplicio?
Annarosa Buttarelli, nel secondo incontro, parla proprio di questo: non a caso il suo tema è «Prossimità». L’approccio alla pratica politica per me è stato sempre teorico ed esperienziale, ma raramente linguistico. Mi è sempre stata chiara la distanza di linguaggio tra il politico di professione e il popolo, allo stesso modo ho sempre ritenuto necessario il superamento di quella distanza in favore della costruzione un linguaggio comprensibile a tutti. Tuttavia, ho sempre avuto l’impressione che mi mancasse un passaggio, un appiglio teorico, che credo di aver trovato in questo ragionamento sulla “direttrice metonimica”.
La figuratività e la distanza dalla realtà della parola metaforica sono i caratteri che i populismi sfruttano maggiormente, poiché la metafora si lega alle prime impressioni, alle pulsioni, senza passare dall’elaborazione simbolica, lasciandola quindi più spesso preda della manipolazione. Diversamente, la parola metonimica si fa strada dall’esperienza vissuta e la sua simbolizzazione acquisisce senso a partire da essa senza salti o interruzioni. Il linguaggio di per sé deve mantenersi prossimo a ciò che accade, altrimenti non si ha la capacità di rappresentare il mondo. Il tal modo il referente è coinvolto e ancorato, poiché c’è relazione diretta tra contesto e parola. Con la “ipermetaforicità” che caratterizza il linguaggio politico attuale, altro non si fa invece che nutrire il “corpo selvaggio” della società, il distacco dal pensiero logico.
L’azione della politica delle donne si inserisce qui, in un momento di crisi della rappresentanza, e quindi della democrazia, nell’orizzonte politico. Mi ha reso molto felice il fatto che Annarosa Buttarelli abbia citato Antonio Gramsci, figura talmente pregnante da essere tuttora tremendamente attuale, che già aveva scritto dell’importanza della prossimità col popolo negli anni ‘30[8]. Gramsci aveva compreso che né il popolo, né le classi sociali sono masse informi, giungendo alla conclusione che il popolo stesso fosse il luogo delle differenze. Il problema della rappresentanza sta proprio su questo punto: tutte queste differenze sono irrappresentabili nella loro completezza in una democrazia rappresentativa. Tra queste differenze, la differenza femminile spicca come apice dell’irrappresentabilità nel sistema attuale. Avevo riflettuto in passato sui problemi della democrazia rappresentativa, considerandone i limiti, ma non avevo compreso quanto questi riguardassero così da vicino le istanze del movimento femminista. E anche in questo caso, non trovo difficoltà nell’intraprendere, per usare parole della Buttarelli, il «cammino storico della diversificazione delle istanze». Un cammino che attraversi diversi linguaggi e costruisca un simbolico che porti tali istanze a una comunicazione circolante, tale da contrastare e magari sostituire l’universale tradizionale. Compito facile? Per niente, bisogna cambiare la forma mentis delle persone, forgiata dalla visione monoteista.
L’universalismo è figlio del monoteismo. La nostra società è permeata dal monoteismo in maniera profonda e visibile ogniqualvolta la molteplicità viene rifiutata in favore di un modello unico. Ed è naturale che sia così, se fin dalla più tenera età ci viene insegnato che esiste un solo Dio, che ha fornito un codice comportamentale, una sola via, da seguire per raggiungere la beatitudine oltre la morte. Il fatto è che la nostra società non è sistemicamente in grado di concepire la pluralità e la diversità, poiché è stata plasmata su di una mono visione. E il Capitale ha ereditato dal monoteismo la medesima caratteristica: non prevede alcuna alternativa a sé stesso. La sfera religiosa è più invasiva nelle politiche dell’essere umano di quanto si creda, proprio perché, di fatto, la religione è politica. Dunque non escluderei di agire anche su questo aspetto, senza pensare di eliminarlo dalla società, ma proponendo alternative di sistema. Non ho la soluzione a portata di mano, chiaramente, ma vale la pena secondo me spendere del tempo a meditare su questo aspetto, perché «Dio, che esista o meno, è il risultato di un percorso concettuale»[9]. Scrive infatti Paolo Scarpi: «il politeismo, là dove possiamo riconoscerlo, si rivela espressione di una società complessa e stratificata»[10]. La conoscenza sviluppata nella disciplina accademica della scienza delle religioni insegna che il collante di una società politeista sono le relazioni tra gli individui che la compongono, in cui sono riconosciute e valorizzate le differenze di ognuno, diversamente da un mondo monoteista, basato invece su una relazione sistemica soltanto, ovvero la subordinazione. Ogni monoteismo tuttavia presuppone storicamente un politeismo, nasce da esso per poi semplificarsi e ridursi in una visione unica, con la quale è più semplice gestire il potere e governare.
Con questo non sto certo dicendo di imporre la religione politeista come base per la società futura, ma ricordare che il politeismo è un sistema sociale capace dì per sé di abituare le persone a “pensare plurale”. Le novità provenienti dall’esterno infatti sono state nella storia raramente respinte da questo tipo di religioni (e società), molto più spesso assimilate. Può essere interessante raccogliere questa modalità di pensiero come spunto da cui partire per una civiltà futura improntata alla valorizzazione delle differenze e delle reti di relazioni, una società che sappia “pensare plurale”.
Ma torniamo all’intervento di Annarosa Buttarelli, che come ben si può notare mi ha dato diversi spunti di riflessione. Dopo aver riflettuto sul concetto di «prossimità», il suo discorso si concentra sul concetto di «prossimo». È in effetti estremamente utile fermarvisi, viste le dichiarazioni recenti del ministro leghista (e veronese) Lorenzo Fontana: durante un’iniziativa del suo partito a Pisa ne febbraio 2019, il ministro ha portato la sua interpretazione del passo cristiano «ama il prossimo tuo», identificando questo come colui che è «in tua prossimità», ovvero che è «più vicino», gli italiani agli italiani[11]. Riprendendo il discorso sul linguaggio, si può affermare che questa sia chiaramente un’affermazione il cui contenuto è stato manipolato, prendendo il significato delle parole in maniera estremamente superficiale. Antico e Nuovo Testamento sono testi complessi e ricchi di simbolismo, da non prendere alla leggera. Annarosa Buttarelli cita quindi Francoise Dolto – che mi ha fatto scoprire, cosa di cui le sono molto grato -, una psicanalista cristiana contraria alle soluzioni monolitiche, autrice di vari studi, tra cui I Vangeli alla luce della psicanalisi: la liberazione del desiderio. Buttarelli riprende la sua definizione di «prossimo», frutto di un lungo lavoro filologico e linguistico che ha attraversato i significati della parola nelle diverse lingue dei testi sacri, risalendo dal latino al greco, fino all’ebraico. Saltando qualche passaggio per giungere al nocciolo, Dolto sostiene che l’accezione reale di «prossimo» sia spaziale, che includa cioè sia «amici» che «nemici». Porta l’esempio della parabola del Buon Samaritano: qui il “prossimo” non è colui che il Samaritano salva, ma il Samaritano stesso. Vi è un capovolgimento della morale, nel quale colui che è salvato dovrà amare il suo salvatore come sé stesso. Per l’apostolo Giacomo questa era la legge più importante, la legge regale dell’amore che va insegnata a chi è stato salvato. Il Samaritano invece agisce per intuizione di giustizia e questo rientra in tutt’altro ordine di significato.
Dolto vuol farci comprendere in questo modo il riconoscimento del «debito al prossimo», un debito d’amore saldabile praticando la stessa cosa ad altri, chiunque essi siano. Un concetto molto profondo che punta a ridefinire la politica sociale sulla base delle relazioni. Si tratta di un atteggiamento coraggioso, di certo non in linea con quello dei governanti o dei populisti odierni (che in questo momento in Italia coincidono), che hanno scelto invece di giocare la carta della paura. Penso inevitabilmente alla questione migratoria, del quale io sono un figlio diretto: sono nato in Argentina da genitori figli di migranti italiani e spagnoli, cresciuto in Italia tra crisi d’identità e discriminazioni. Pensate invece che in Argentina esiste il “giorno del migrante italiano” (3 giugno) per ricordare che metà della popolazione argentina ha almeno un parente italiano. Noi italiani siamo stati accolti – o meglio “salvati”? – da decine di Paesi in giro per il mondo, ma ancora questo «debito al prossimo» non lo stiamo ripagando.
Annarosa Buttarelli ha quindi parlato di come il linguaggio viene utilizzato all’interno dei contesti politici. In modo differente ce ne parla anche Caterina Diotto nel terzo incontro, intitolato Qualcosa di nuovo sul fronte occidentale, dove affronta le tematiche legate alla narrazione. Anche lei si muove all’interno del contesto politico contemporaneo, trattando il tema del populismo di destra e di come esso stia influenzando la società, soprattutto grazie alla propaganda capillare. Questa si muove soprattutto sui social network, spesso delegittimando verità certificate a favore di altre alternative, le cosiddette fake news, inserendosi nel grosso calderone che è il “complottismo”. Di fronte a questo, Diotto descrive una sinistra “sfatta”, citando un appello di Massimo Cacciari che invitava a reagire chiunque del panorama nazionale volesse contrastare la progressiva presa di potere della destra radicale. Parla quindi della questione migratoria, sempre al centro del dibattito politico italiano, e di come sia affrontata dai vari schieramenti. Cita un articolo di Alessandra Ciattini, docente di antropologia culturale all’Università “La Sapienza” di Roma, per far presente che proprio nel dibattito politico degli intellettuali di sinistra mancano i riferimenti alle vere problematiche, come la crisi globale, gli effetti del neoliberismo sul mondo del lavoro, il neocolonialismo. Ebbene, in questo contesto è naturale porsi la classica domanda di leniniana memoria: che fare? Caterina Diotto ci offre degli “sbilanciamenti” utili per affrontare la situazione.
Il primo è un metodo, quello del «radicamento», con il quale impegnarsi in prima persona nel mondo politico, senza sottoscrivere posizioni altrui. Per spiegare questo prende in esame La prima radice di Simone Weil e i «moventi della politica», ovvero quel carburante necessario a provocare un’agire politico: suscitare paura e speranza attraverso minacce e promesse; la suggestione; l’espressione di pensieri e sentimenti inespressi di alcune parti della società; l’esempio; le modalità di relazione e delle organizzazioni. Di questi moventi, nel XXI secolo sono stati molto usati la paura e la speranza, ma non c’è più la suggestione. Nell’Europa di oggi è sostituita infatti dall’espressione dei sentimenti inespressi. Quando le persone riconoscono tali parole dette da una persona, o un gruppo, nella società, le persone che provano le emozioni si radicano e si muovono nello spazio politico con una riacquisita consapevolezza di sé. Ebbene, la lettura di Caterina Diotto sottolinea che questo meccanismo per Simone Weil funzioni nel bene e nel male. Perché non vi sia una degenerazione è necessario un «interesse appassionato per gli esseri umani e per la loro anima» (mi sovviene alla mente “Che” Guevara, quando diceva che «il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d’amore»[12]) e la capacità di comprendere ed esprimere le «sfumature delicate e le relazioni complesse» dei sentimenti delle persone, in relazione al contesto. Assistiamo invece, apparentemente, alla degenerazione del radicamento, trasformato in propaganda che privilegia i sentimenti puri a discapito delle sfumature. Per combattere bisogna agire non come sta facendo la sinistra oggi, ormai astratta dal corpo sociale, ma ricostruendo un altro tipo di narrazione sul piano orizzontale delle relazioni.
Arriviamo quindi alla seconda parte dell’intervento di Caterina Diotto, quello che io ho trovato più interessante, che si occupa delle tipologie di «narrazione». Vengono esposti tre tipi di narrazione, aventi come riferimento il tessuto sociale, i cui fili intrecciati sono le relazioni che lo creano e lo muovono. Questi tipi di narrazione si distinguono dal posizionamento del “narratore” o “narratrice” all’interno del tessuto. Si può essere, quindi, troppo vicino, cosa che non permette di vedere il disegno nella sua interezza, ma una piccola parte, rendendo difficile, se non impossibile, la contestualizzazione. Nel secondo caso invece il narratore o la narratrice osserva il tessuto dall’alto, senza trovarvisi all’interno, perdendo di vista le sfumature relazionali e addentrandosi nel mondo dell’astrazione. Manca infatti l’esperienza diretta, qualsiasi analisi che può uscire da questa posizione è inevitabilmente incompiuta e proprio qui sta il problema perché ha invece ha pretese di assolutezza e completezza. L’ultimo caso è quello in cui il narratore o la narratrice si trova all’interno del contesto, sollevandosi di poco per vedere il disegno del tessuto che si sta formando attorno a sé. Si tratta di una conoscenza parziale, ma aperta, pertanto più vicina al reale. È consapevolmente fallibile, proprio per questo da questa narrazione possono uscire parole di verità, poiché tiene conto delle sfumature delicate e delle relazioni complesse. Ebbene, non posso dire che questi fossero concetti a me sconosciuti, anzi. Proprio perché ho comunque una certa esperienza di attivismo politico, radicamento e narrazione sono inseparabili compagni di viaggio. Tuttavia, il merito di questa esposizione è stato quello di mettere nome e cognome a cose che ho imparato proprio con l’esperienza diretta. Sono riuscito a mettere sul tavolo parti del mio vissuto e a mettervi sopra un’etichetta. Nel fare questa autoanalisi, il dare nome e cognome a parti di me, mi sono, in un certo senso, conosciuto meglio.
Nella terza parte Caterina Diotto descrive gli effetti della narrazione, dove questa ci può portare. La narrazione molteplice porta ad un allontanamento dall’identità accentratrice propria dei populismi. Non funziona quindi come questi vorrebbero, progettandola, ma accade in modo inaspettato. Ogni cosa nella società “in parte funziona e in parte accade” e questo “accadere” non è misurabile né prevedibile, sfuggendo completamente al meccanismo del “funzionare”. Diotto cita quindi Marirì Martinengo e la “Pratica della storia vivente”: qui si intreccia la pratica femminista del “partire da sé”, la ricerca storica e la narrazione. Si inaugura una storiografia che ha le «caratteristiche del cammino», che affonda le sue radici nell’esperienza personale e che non respinge l’immaginazione, dando una forte importanza alle relazioni, soprattutto a quelle che ci sono tra i fatti e chi li racconta, cosa che io apprezzo particolarmente. La Storia contiene infatti infinite situazioni, fatti e attori, i motivi che portano uno studioso a scegliere di approfondirne alcuni piuttosto che altri sono chiaramente personali e per nulla casuali. Pertanto, la sola scelta di un argomento evidenzia una relazione tra questo e chi lo studia. Lo storico “completamente distaccato” dai fatti non esiste, e chi sostiene di esserlo – e mi assumo tutte le responsabilità di tale affermazione – mente in primis a sé stesso: quando qualcuno racconta un fatto necessariamente ha un posizionamento nei confronti di tale fatto, la cosa migliore e più onesta che può fare è palesare il suo posizionamento e spiegare come e perché ci sia arrivato. Ed è proprio con queste due parole, «come» e «perché», che mi collego a ciò che diceva Ibn Khaldūn, storico e ālim (termine che indica l’uomo di scienza tra i musulmani) morto nel 1406. La Storia è solo in apparenza la narrazione di fatti: al centro della ricerca storica sta infatti la «meditazione», lo «sforzo di arrivare alla verità, spiegando con finezza le cause e le origini dei fatti, ma anche alla conoscenza approfondita del come e del perché degli avvenimenti»[13]. Lo storico musulmano, quindi, già seicento anni fa suggeriva l’idea di un coinvolgimento totale e spirituale («meditazione») nella ricerca storica.
Giungo quindi all’ultimo intervento del Grande Seminario, quello di Chiara Zamboni, dal titolo, a una prima impressione, poco rassicurante: In territorio pericoloso con bussola, ma senza mappa. Qui si parla dell’importanza delle pratiche politiche delle donne, in questo momento di fragilità politica. La Politica delle Donne non si propone di governare la realtà, bensì di cambiarla. Ciò che mi ha davvero affascinato di questo intervento, la cosa su cui vorrei spendere una riflessione, è la questione relativa a “l’ascolto del dolore” e tutto ciò che ne deriva.
L’ascolto del dolore degli altri ha origine dalla pratica femminista del “partire da sé”. Chiara Zamboni mette subito in chiaro che questa è una “teoria” in fase di sviluppo, motivo per cui la trovo particolarmente interessante. Dice che per dare parola al dolore degli altri, dirne parole di verità, è necessario entrare in contatto col proprio di dolore e stare in rapporto con esso. Una pratica in termini quasi buddhisti. Zamboni auspica che il dolore smetta di essere usato per creare opinione pubblica, ma che esso diventi invece un fatto politico, che è anche un po’ quello che vuole dirci Mark Fisher con altre parole. Il dolore, a differenza dell’euforia, ha una dimensione profonda e va ascoltato soprattutto per sciogliere i sentimenti violenti che lo circondano e creano rigidità. Parliamo di odio, risentimento, disprezzo, tutto ciò di cui i populismi di destra si nutrono. Questo ha a che fare, secondo la relatrice, col tramonto dell’ordine simbolico del Padre, che può aver generato del dolore, soprattutto tra alcuni uomini. Nello specifico, Chiara Zamboni propone un ripensamento, una riproposizione leggera e fluida della figura del padre a livello singolare. E forse sarebbe il caso di spendere del tempo anche su questa questione, poiché il dolore che provano alcuni uomini nel contesto appena descritto è causato dallo spaesamento, dal non saper più cosa essere o fare, cosa invece molto chiara per le donne all’interno del pensiero femminista. Purtroppo, questo non è chiaro a molti uomini, e non sempre per colpa loro ma per colpa di un sistema che li ha cresciuti secondo la mono visione patriarcale e che, quindi, faticano a vedere altri ruoli per sé stessi nella società. Tornando al rapporto col dolore, viene nuovamente citata la psicanalista Francoise Dolto – che dopo questo seminario ho imparato ad apprezzare molto – che in Tutto è linguaggio afferma che dire la verità di ciò che ci fa soffrire riapre lo spazio al desiderio. Si rompe quindi la corazza del risentimento, per mettere in movimento questo desiderio. La politica si apre all’inventiva, abbandonando il sentimentalismo del dolore. Automaticamente si mette in moto un meccanismo, che lo si voglia o no: semplicemente “accade”, come diceva in precedenza Caterina Diotto parlando dell’inaspettato, l’imprevedibile. La Politica delle Donne è questo, una forma nuova di invenzione, nata da una riflessione sul dolore provocato da un sistema sbagliato. È la base di una rivoluzione tuttora in atto, in pieno contrasto con meccanismi come quello della governance, per la quale qualcosa non esiste se non fornisce servizi, e ciò che resiste o si ribella viene fagocitato e rimodulato, rendendo estremamente difficile fare opposizione.
Ma è proprio in questo sistema, che crea oppressione e ingiustizie, che l’invenzione politica delle donne può portare qualcosa di nuovo e importante. Questo Grande Seminario mi ha mostrato potenzialità e metodi che prima, onestamente, ignoravo. L’effetto, per quel che mi riguarda, è stato molto stimolante: mi ha dato spunti, tematiche da approfondire, autrici e autori da conoscere. Ovviamente tutto questo mi ha portato anche a modificare alcuni dei miei comportamenti nella vita di tutti i giorni. Ma penso che di importante mi abbia lasciato anche buone speranze per un futuro ancora possibile, il che, nella situazione italiana odierna, è tutto dire. Reputo ormai imprescindibile il pensiero femminista per arrivare alla Rivoluzione che in molti aspettiamo. Uno slogan dice che «La Rivoluzione sarà femminista o non sarà». E tanto, prima o poi, la Rivoluzione accade.
[1] Loris Zanatta, Storia dell’America Latina, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 134-138.
[2] Mark Fisher, Realismo Capitalista, trad. it. di Valerio Mattioli, NERO, Roma 2018, p. 78.
[3] Paolo Scarpi, Si fa presto a dire Dio, Salani Editore, Milano 2010, p. 93-102.
[4] Ivi, p. 99.
[5] Max Weber con L’etica protestante e lo spirito del Capitalismo inquadra decisamente la questione.
[6] A tal proposito Mark Fisher, sempre in Realismo Capitalista, descrive le sfaccettature del controllo capitalista non solo a livello socio-economico, ma anche e soprattutto psicologico. In particolare, approfondisce l’aumento catastrofico dei mental diseases tra i giovani all’interno del capitolo Impotenza riflessiva, immobilizzazione e comunismo liberale.
[7] Mark Fisher, Realismo Capitalista, NERO, Roma 2018, p. 81.
[8] Interessante in tal senso la nuova breve raccolta di scritti di Gramsci, tratti dai Quaderni del Carcere e articoli da vari giornali e riviste, edita nel 2019 da Cento Autori col titolo Contro il Populismo.
[9] Paolo Scarpi, Si fa presto a dire Dio, Salani Editore, Milano 2010, p. 61.
[10] Paolo Scarpi, op. cit., p. 65.
[11]https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/02/24/prima-gli-italiani-per-il-ministro-fontana-e-basato-sulla-bibbia-ama-il-prossimo-tuo-cioe-quello-in-tua-prossimita/4994072/ link al video dell’iniziativa in questione.
[12] Ernesto “Che” Guevara, Scritti, discorsi e diari di guerriglia, 1959-1967, a cura di Laura Gonsalez, Einaudi, Torino 1969.
[13] Ibn Khaldūn, Discours sur l’histoire universelle «al-Muqaddima», Collection Unesco, Beyrouth 1967, Tomo I, p, 5.