diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 9 - 2010

Lingua dell'altro

La realtà è troppo ricca per rinchiuderla in un’unica parola

Il nostro tema, la lingua dell’altro, si può interpretare come la lingua degli uomini oppure la lingua di un’altra cultura. Possiamo anche osservare la lingua stessa in quanto sistema, e vedere in che modo ha espresso la differenza sessuale e la differenza culturale. Più che denunciare i difetti della lingua, ancora in gran parte patriarcale, una lingua che fa fatica a dire che una donna fa l’avvocata o la ministra o la direttora del corso di laurea, possiamo cercare assieme degli esempi felici dove la lingua tenta, e talvolta riesce, a dire la realtà delle nostre vite. Forse dobbiamo cercare con il lanternino ma, in qualche caso, qualcuno o qualcuna ha già trovato una felice soluzione per esprimere una relazione più rispettosa e creativa con l’altro, l’altra.

 

Sento  necessaria una riflessione su entrambe le cose, perché sono convinta che, da come impostiamo la questione fra uomini e donne, possa derivare anche una strada per la convivenza rispetto alle diverse culture. Si tratta di una differenza, nell’uno e nell’altro caso, innegabile e suppongo anche irrinunciabile. Ma quali pratiche possiamo mettere in atto per conservare la differenza e per guardare all’altro e all’altra con ammirazione e stupore tali da poterci nutrire nell’altra cultura tenendo fede alla propria origine e mantenendo la propria differenza culturale e sessuale?

 

Gli ultimi decenni hanno visto una grande attenzione alle differenze che emergono nella lingua comune, che poi si è rivelata non sempre comune a uomini e donne ma diversa, talvolta fino all’incomprensione. Oggi vorrei brevemente elencare le posizioni in campo e distinguere alcune ipotesi nella descrizione della lingua degli uomini da una parte e delle donne dall’altra. Questa terminologia di distinzione è stata usata anche nella sociolinguistica  e nella etnolinguistica per distinguere la lingua diversa di classi sociali, nell’ambito dell’immigrazione e rispetto all’assetto linguistico nelle realtà coloniali.

 

 

Ipotesi deficitaria

Risale al linguista danese Otto Jespersen, il quale parla nel suo  libro del 1922, Language: Its Nature, Development, and Origin , di una lingua deficitaria delle donne. Secondo lui le donne usano un lessico deficitario e una sintassi incompleta perché anche il loro modo di pensare è deficitario.

Anne Grimm[1], giovane linguista tedesca che ha fatto una recente ricerca su “Lingua delle donne – lingua degli uomini?”, vede anche in Robin Lakoff una rappresentante della stessa ipotesi deficitaria anche se la Lakoff  critica la posizione di Jesperson. Anche lei parte dal presupposto di una lingua delle donne che si manifesta come debole, incerta e troppo umile.

Jennifer Coates (2004), altra grande linguista americana, è convinta che questa ipotesi, anche se sbagliata, sia ancora molto diffusa fra la gente. Si vede dal successo di corsi che si organizzano per le donne ancora oggi, per dare a loro una maggiore competenza in ambito pubblico, sulla falsariga di: Corso di retorica per donne: come parlare e farsi ascoltare.

Certo è che questi corsi, basati sulla idea dell’uguaglianza  da raggiungere insegnano alle donne come possono parlare meglio per riuscire, poi, in ambito pubblico, a imporsi più  facilmente. Se si vogliono vedere i risultati di questa politica basta  osservare le donne nei vari dibattiti televisivi, che non cedono più la parola agli altri finché non hanno finito, si sovrappongono a altri parlanti, si inseriscono e tagliano il  discorso di un altro/a, aggrediscono il partner del dibattito e sembrano una parodia di alcuni uomini vecchio stampo patriarcale.

Mi sembra che questo modo di ragionare non faccia altro che confermare la supremazia della lingua patriarcale. Perde anche l’occasione per osservare e valorizzare la modalità di parlare delle donne che da sempre usano la lingua per scopi diversi. Generalmente non per avere più potere ma per mettersi in sintonia ed empatia con l’altro, per insegnargli qualcosa. Il migliore esempio è l’educazione e contemporaneamente l’educazione linguistica dei propri figli o degli allievi. Le donne usano la lingua anche per lottare perché generalmente non usano le armi e non picchiano ma impongono il loro desiderio con la parola, certo in una modalità tutta diversa dagli uomini. Non a caso Ida Dominijanni intitola il suo saggio[2]La parola è la nostra politica”e dice che le donne conoscono la  potenza delle parole.

 

Ipotesi della dominanza

La tesi risale al famoso libro di Dale Spender “Man Made Language” (1980) che afferma che il potere maschile viene esercitato attraverso la lingua. Loro impongono i temi da trattare, non ascoltano le donne ma le interrompono e esercitano in tal modo il controllo sulla lingua e le fanno tacere. Oltre a Dale Spender anche Mary Daly e Dorothy Smith hanno esteso questi concetti per dimostrare come la nostra realtà sia “a misura d’uomo”, e come la società patriarcale occidentale abbia storicamente (e continua a farlo) tenuto posizioni di potere con cui ha controllato il significato. Come tale, la lingua è in sé un microcosmo politico che installa e riproduce le relazioni di potere predominante. La subordinazione e l’oppressione delle donne è strutturata e perpetuata attraverso il linguaggio.

 

Certo, così si diffonde l’idea che le donne sono sempre dipendenti dall’uomo, prive di autorità e senza una propria cultura, un proprio pensiero. Inoltre si dimentica del tutto che è la donna che insegna la lingua materna sia alle bambine che ai bambini.

Anche Alain Touraine nel suo bel libro Il mondo è delle donne non è convinto della tesi della dominanza e dice:

Bisogna forse scorgere in questa egemonia dell’idea di dipendenza estrema una forma acuta di quell’odio di sé e di quella vergogna che caratterizzano tanti  uomini? Uomini sempre più consapevoli dell’indebolirsi della loro posizione in quanto membri dell’élite che un tempo dominava il mondo?”

E lui vede un futuro luminoso in mano alle donne:

“ Le donne non parlano il linguaggio delle trincee. Pensano che la libertà sia stata ormai più o meno conquistata e che il problema reale non sia più quello di organizzare una controffensiva femminile. Si tratta, al contrario, di produrre un rovesciamento generale, capeggiato dalle donne,  che ci conduca verso una cultura in cui la vita privata risulti politicamente più rilevante di molti altri settori della vita sociale.”[3]

 

Ipotesi della differenza

L’ipotesi della differenza fra lingua delle donne e lingua degli uomini risale agli  anni 80 e più precisamente al testo dell’etnolinguista John Joseph Gumperz, A Cultural Approach to Male-Female Miscommunication[4]. Si parte dal presupposto che donne e uomini vivono in culture differenti e hanno sviluppato per questo motivo anche una lingua differente.

Certo la differenza è completa in certe società dove la vita di uomini e donne scorre su binari completamente distinti. Nelle nostre società la lingua è una ma si parla di un uso  piuttosto diverso.

Deborah Tannen[5], allieva di Robin Lakoff[6], è la più nota rappresentante di questa corrente. La comunicazione fra uomini e donne è  considerata come una comunicazione interculturale. Le donne, secondo lei, usano la lingua per relazionarsi mentre gli uomini la praticano per trasmettere informazioni.

Questa posizione ha avuto molto successo perché è un’esperienza di tutte e di tutti che la comprensione fra uomini e donne spesso non è felice.

Ma a mio avviso è una posizione  che porta alla paralisi e all’immobilismo. Suggerisce che uomini e donne sono su pianeti diversi e che è inutile volersi comprendere. Non si chiede agli uomini di entrare nel discorso ma, al contrario si cementifica così una differenza che potrebbe rivelarsi più ricca di quella che appare.

 

Diversa è la posizione di Luce Irigaray oggi  che parte dal presupposto che la relazione fra uomo e donna sia finora impensata. Nel suo  testo La via dell’amore[7] afferma che il dialogo fra i due è appena cominciato:

”Questa interrogazione non è realizzabile a partire da rappresentazioni già esistenti. Costringe a un altro tipo di pensiero ove l’orizzonte stesso e la sua costituzione vanno messi in questione. Non si tratta più semplicemente di integrare nuovi termini in una logica stabilita da  secoli. E’ la logica stessa che va modificata, la grammatica del pensare.[8]

 

Ipotesi del code-switching[9]

 

  1. Rocchi – “«…Eravamo anche cinque o sei, tutte fimmine… e ‘ndammo up to London e… and that was the first time I’ve been in London…”

 

Questa ipotesi non parte dal presupposto né della mancanza né della differenza del linguaggio delle donne. Ma afferma che le donne, secondo il contesto, abbiano l’abitudine di passare da una varietà all’altra della stessa lingua, come una persona bi o trilingue che secondo  la compagnia e il contesto sa usare una o un’altra lingua. Difatti questa ipotesi deriva dagli studi sulla lingua nell’immigrazione. Certamente questa ipotesi implica che esista un codice di uomini e un altro di donne nettamente separati.

 

Nell’immigrazione, le donne sono le prime a prendere coscienza della nuova lingua. Esse reagiscono al prestigio o allo stigma di una data forma linguistica. Passano spesso alla lingua del paese di accoglienza proprio perché sensibili al valore simbolico della stessa e disposte a fare la propria parte. Di conseguenza, quando il cambiamento è in atto, esse sono più veloci e più efficaci.[10] Gli uomini, infatti, sono valutati in base alla loro occupazione e alla loro capacità di guadagno, le donne rivendicano la loro rilevanza all’interno della comunità attraverso altri segnali, quali, appunto, il saper parlare la nuova lingua.

Anche al di fuori dell’emigrazione le donne, generalmente, usano le diverse varietà della lingua, attente solo alle aspettative delle persone coinvolte nella relazione. Tutte queste varietà sono valutate positivamente. Si critica la competenza di una donna solamente quando parla in modo non adeguato in un determinato contesto.[11]

Questa teoria parte dal presupposto che le donne, secondo il contesto, sappiano cambiare  registro. Con i bambini parlano la lingua adatta ai bambini, in un contesto pubblico quello più adeguato, sul posto di lavoro un altro ancora e con le amiche quella lingua relazionale ricca di sentimento e complicità descritta così magnificamente da Alessandra Retico nell’articolo apparso su Repubblica il 27  aprile: “Sorelle”.

 

“Le ragazze conoscono l’alfabeto dei sentimenti, a loro viene naturale, sono portatrici di storie e di generazioni e certo non è un caso, sono sempre donne e lo saranno, madri anche delle parole. Aprono le emozioni come fossero luoghi, ci vanno ad abitare, le fanno circolare in casa: amore, dolore, paura non fanno in tempo a diventare fantasmi, non si depositano nel silenzio, non si impolverano. Le ragazze dicono che succede, e perché, e come, e quando, e ancora, e tu? Mettono fuori l’allegria e i dubbi, li maneggiano come utensili semplici: le parole le usano come cavatappi per brindare contro l’inquietudine.”

 

La stessa cosa non vale per molti uomini, specialmente quelli cresciuti ancora in epoca patriarcale, che sono privi di certi registri soprattutto quello relazionale.

 

Si parla anche della eterogeneità dello stile di scrittura delle donne. Un esempio è Hèlene Cixous, ma non solo.

 

La lingua della differenza nella concezione di alcune autrici di Diotima[12]

 

Il pensiero della comunità di Diotima non vede una bipartizione del linguaggio. La lingua non chiede l’uguaglianza e non si vuole arrivare a un dialogo simmetrico e Luisa Muraro dice:

“Per parte mia, […] mi lascio guidare, in pratica e in teoria, dall’autorità immanente alla vita stessa della lingua, che ho imparato ad ascoltare dapprima durante il Sessantotto nella lotta di liberazione delle parole, poi entrando nella società delle donne, in una ricerca di lingua che abbiamo chiamato generazione del mondo, come un mettere al mondo il mondo[…]

La lingua viva, che ci orienta  nel senso della realtà, lo fa senza essere razionale o irrazionale, logica o illogica, vera o falsa, giusta o ingiusta. Come fa? Con noi che ci parliamo non c’è dubbio, anche se la risposta è incompleta. Fin dove sono arrivata io, ho  visto che, quando il circolo delle corrispondenze fra parole e cose è attivo e coinvolge coloro che si parlano, non c’è  quasi bisogno di una legge o di una morale codificata.”[13]

La lingua rispecchia la situazione dei rapporti fra le persone. Di conseguenza si dovrebbe, là dove si percepisce povertà di linguaggio, andare alla radice e comprendere che forse siamo di fronte a una povertà di relazioni.

Importante per il pensiero di Diotima è la lingua materna insegnata generalmente dalle donne, sia alle bambine che ai bambini maschi. Resterà anche per la persona adulta la matrice più importante del suo pensiero.[14]

Questa lingua materna resta una risorsa creativa per tutta la vita e rende possibile una Lingua in presenza come dice Chiara Zamboni nel titolo del suo libro. Lei espone bene come ogni parlare in  presenza è più una performance che un atto sistemico. La persona che parla si espone, rischia e dirà qualcosa che non controlla completamente perché anche i significanti hanno una vita propria e richiamano alla mente cose non razionalmente presenti. La lingua per Chiara Zamboni sta fra il desiderio del dire, la memoria inconscia e la grazia delle parole.

 

Ma, alla fine, vorrei aggiungere un’altra ipotesi.

 

L’ipotesi della sacralità

Il divieto della parola

Per me la grammatica declinata al maschile ha sempre rappresentato un ostacolo alla libera espressione e mi sono chiesta come era possibile che nelle società non ancora industriali si abbia potuto includere la donna nascondendola nel discorso quando nella vita reale rivestiva un’importanza inestimabile. E ho trovato la mia risposta:

perché tutte le cose della vita stanno nella dimensione del sacro. Se concepiamo il sacro, seguendo Maria Zambrano, come il nome di una condizione nella quale non hanno patria né l’io né il  tu che permettono di parlare e, dunque, il movimento del linguaggio.

 

Nel mondo delle società tradizionali del mito (Eliade) certe cose non si possono nominare: anzi le cose più importanti per la vita delle persone restano nella sfera del non nominato. Noi viviamo una strana Kulturvergessenheit in quanto non ricordiamo da dove veniamo. In molte religioni è stato operato questo divieto della parola: non si parla di Dio, lo si invoca solo, magari come Allah con i suoi 99 nomi, non si fa il vero nome del bambino appena nato, non si parla del corpo e delle funzioni del corpo, non si parla del sesso, non si parla del parto e delle mestruazioni e non  si parla delle emozioni nelle società tradizionali, non si parla dei morti o della morte (Rom).

Si può dire che tutto ciò di cui abbiamo bisogno, e che è di fondamentale importanza per la nostra vita, non entra nel lessico delle nostre lingue. Ma non per moralismo e per un provinciale pudore bensì talvolta per rispetto. Esercitiamo un autocontrollo psicologico per proteggere quelle zone di  grandi emozioni e di  grande suscettibilità. Pronunciare il  nome dell’amato è un troppo e contemporaneamente un troppo poco: la relazione d’amore, per esempio, è sempre eccedente alla dominazione  e al controllo razionale. Anche per paura superstiziosa che tutto questo possa essere riconosciuto e distrutto dalle divinità maligne.  Talvolta anche perché non sono cose che si solidificano e diventano oggetto ma sono degli stati in progress che possono, appena nominati, già essere scomparsi, oppure potrebbero risultare parole offensive, parole pronunciate con leggerezza che fingono delle relazioni dove in verità non esistono.

Infatti, la parola ha uno strano potere di evocare i nostri desideri, di mettere il nostro corpo in uno stato di corrispondenza: parlare di cibo ci fa venire fame, parlare di certe parti del corpo ci procura desiderio sessuale, parlare di terre lontane ci aumenta il desiderio di viaggiare, parlare di piccoli ci rende pieni di tenerezza.

E’ questo forse il motivo per cui si omette la presenza delle donne nei  testi? E’ steso forse sul nostro mondo visibile una specie di velo che copre ciò che ci coinvolge troppo?

E chi ha steso questo velo? La comunità tradizionale, le donne, gli uomini?

 

Certo, in questa sfera del non nominato, in quella invisibilità alla parola, non agli occhi e non al sentire, può succedere di tutto. Potrà sussistere una venerazione e un timore per queste sfere ma può anche succedere che questo invisibile alla lingua venga svalorizzato e negato nella sua esistenza e nella sua vitale importanza. Questo, è la mia ipotesi, nelle nostre società è successo alle donne, alle divinità e al corpo delle donne. Non più non nominate per rispetto sono  state taciute e talvolta maltrattate, finché alcune donne stesse hanno finito con l’ignorare il loro proprio valore.

Tornare all’origine delle nostre pratiche tradizionali ci può far capire quanto abbiamo perso di sacralità. E abbiamo voluto perderla per entrare nella visibilità, per essere, in questo modo, presenti nella vita quotidiana ed anche pubblica, anche se diversamente, come gli uomini lo sono, e presenti nelle parole.

 

Certo nella lingua, in quanto grammatica, siamo rimaste ancora nella invisibilità e si fa fatica da una parte ad accettare questa morfologia disuguale, l’inclusione continua nelle desinenze che segnano solo il maschile. Dall’altra facciamo anche fatica a modificare la lingua in questa direzione perché essa si muove come una lumaca mentre noi donne corriamo, alle volte voliamo.

Ci troviamo oggi, nella nostra società post-moderna, ad affrontare in modo individuale questa crisi dei significati condivisi delle parole e a costruire delle storie significative per uomini e donne in base a cui vivere.

Il quotidiano sforzo dei soggetti, uomini e donne, di costruire nella relazione nuovi giochi linguistici e nuove storie e di non essere “parlati dal linguaggio”, costituisce la nostra ricerca di espressività vicino all’esperienza, al contemporaneo reale.

 

Di queste numerose ipotesi che cercano di descrivere la relazione fra uomini e donne, mi sembra che nessuna sia l’unica spiegazione del reale ma tutte quante esprimano qualcosa di ciò che è accaduto e che tuttora accade.

Nessuna ipotesi è esauriente ma una si aggiunge a un’altra per formare un quadro complesso della situazione fino ad oggi. Le spiegazioni di questo filosofema della lingua[15]  sono piuttosto addizioni come tutte le esperienze di vita lo sono. La realtà è troppo ricca per rinchiuderla in un unico pensiero. Siamo sempre una cosa ma anche altro e, per quel che riguarda gli uomini, chiediamo anche a loro di essere anche altro.

 

[1]              Anna Grimm, “Männersprache” – “Frauensprache”?, Verlag Dr.Kovač, Hamburg 2008.

[2]              Ida Dominijanni, La parola è la nostra politica, in: Buttarelli A./ Muraro L./ Rampello L., Duemilauna, donne che cambiano l’Italia, Pratiche Editrice, Milano 2000, p. 207.

[3]              Alain Touraine, Il mondo è delle donne, tr. Monica Fiorini, Saggiatore, Milano 2009, p. 102, 105.

[4]              Gumperz (ed.), Language and Social Identity, Cambridge University Press, Cambridge (UK), 1982.

[5]              Deborah Tannen , Ma perché non mi capisci?, Sperling & Kupfer 2004.

[6]              Robin T. Lakoff, Language and Woman’s Place.

[7]              Luce Irigaray, La via dell’amore, tr. Roberto Salvatori, Parigi 2002, Italia 2008.

[8]              Luce Irigaray, ivi, p. 65.

[9]              Commutazione o alternanza di codice oppure anche Code-Switching funzionale

[10]            “Prendendo in esame la questione degli usi linguistici delle comunità migratorie, esistono infatti elementi per riconoscere come le donne, in tale contesto, possano essere in grado di avvalersi di reti sociali che offrono loro la possibilità di interagire, rispetto agli uomini, in maniera più diretta con soggetti parlanti una lingua diversa dalla propria. A ciò può sommarsi, poi, una maggior consapevolezza da parte delle donne delle corrispondenze sociali degli usi linguistici, dovuta, forse, al fatto che la loro posizione (almeno al momento dell’arrivo nel paese ospitante) è in qualche modo subordinata a quella degli uomini.”, in: Studi Linguistici e Filologici Online 6, Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa

                www.humnet.unipi.it/slifo, p. 221

[11]            Barbara Eakins Westbrook/Eakins Gene R .(1978), Sex Differences in Human Communication. Boston.

[12]            Faccio presente il breve saggio di Vita Cosentino, Elisabeth Jankowski – Punti fermi sul linguaggio sessuato, in: Rivista di Diotima online ”Per amore del mondo”, 2007

[13]            Luisa Muraro, Al mercato della felicità, Mondatori, Milano 2009, p. 130.

[14]                              Vita Cosentino e Elisabeth Jankowski, Punti fermi sul linguaggio.cit.

[15]            Genevière Fraisse, in: Alessandra Pantano, Contaminazioni, Il Poligrafo, Padova 2008, p.154.