diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 4 - 2005

Saggi

La passione per la parola autentica  

 Introduzione

Nel mio lavoro di ricerca sul rapporto tra lingua materna e politica all’interno della produzione letteraria di Christa Wolf ho adottato il taglio storico, che mi ha aiutato a tenere sempre viva e dinamica quella triangolazione che, da subito, ho posto come base del mo lavoro: la lingua materna, il contesto storico politico e il testo.

Quando scrivo che la triangolazione tra lingua materna contesto storico e testo è dinamica, intendo dire che, nel mio lavoro, tale triangolazione è sempre stata “aperta” all’aria del passato e alla brezza del non ancora. Questo perché credo che, per capire il rapporto esistente tra lingua materna e politica, sia necessario leggere Christa Wolf alla luce non solo di ciò che lei, in un determinato momento storico, riesce ad articolare, ma soprattutto alla luce di ciò che per lei, in quel determinato momento storico, non è ancora formulabile nella “sua lingua materna”, che non è semplicemente “il tedesco”.

Lingua materna, per Christa Wolf, è quella lingua che abbraccia parole libere, non incarcerate nelle prigioni semantiche che il potere politico, di volta in volta, di periodo storico in periodo storico, ha costruito intorno a loro. E’ il bisogno di recuperare QUESTA lingua materna che scopriamo nella sua opera. Si tratta di un progressivo, lento cammino all’interno della stessa lingua, il tedesco, nel tentativo di liberare le parole da significati stereotipati, che impediscono loro di muoversi nel “qui ed ora” della storia.

Leggere Christa Wolf alla luce di ciò che per lei, in un determinato momento storico, non è ancora formulabile nella “sua lingua materna” aiuta quindi a riconoscere non solo la sua aderenza ai codici simbolici dominanti, (la Novella moscovita 1961), ma anche i primi tentativi di affrancarsi da questi (Il Cielo diviso 1963), gli espliciti cambiamenti di prospettiva (Riflessioni su Christa T. ., 1968) e la fatica del dire e mediare (Trama d’infanzia 1976).

Nel saggio Leggere e Scrivere, composto nel 1968, subito dopo Riflessioni su Christa T., si legge:

 

L’esigenza di scrivere in modo nuovo è conseguente, sia pure con distacco, a un modo nuovo di stare nel mondo. A intervalli regolari che sembrano abbreviarsi, il nostro udito, la vista, l’olfatto, il gusto si comportano diversamente da quanto avveniva poco tempo prima. Nel modo di avvertire il mondo circostante si è verificato un mutamento che giunge a sfiorare l’intangibilità del ricordo; ancora una volta vediamo il mondo – ma cosa significa il mondo?- sotto una luce diversa; anche il senso e il gusto del vivere appaiono oggigiorno , meno durevoli che non in tempi passati; l’inquietudine è considerevole.” [1]

 

Ora, se il nuovo modo di stare nel mondo non trova adeguata espressione, ciò significa che il cambiamento in atto sta operando non solo al livello della percezione del mondo, ma anche al livello della sua significazione. E’ in atto cioè un mutamento, una trasformazione all’interno linguaggio. I codici simbolici dominanti non sono più sufficienti a mediare ciò che si ode, si vede, si odora, si gusta. E’ necessario riflettere, operare delle mediazioni tra il proprio modo di cogliere il mondo e quel simbolico di cui si dispone. Un simbolico, che risulta, però, essere inadeguato.

Poiché nel corso della sua esistenza il “nuovo modo di stare, vedere il mondo” sembra ripetersi è opportuno pensare che anche la riflessione sulle modalità di mediazione del vero, legato a ciò che si esperisce, si rinnovi, comunque in forma diversa.

Nel mio lavoro ho scelto, dunque, di analizzare in quanti/quali modi per Christa Wolf sia stato possibile operare mediazioni tra la propria percezione del mondo e gli ordini simbolici dati al fine di riuscire a dare una lettura sincera del reale. Sincera non è un aggettivo da me scelto.  E’, però, aggettivo caro all’autrice. Più volte, in saggi, discussioni, è talvolta anche nei suoi testi, l’aggettivo “aufrichtig” (sincero) emerge, anche nella forma sostantivata, come “Aufrichtigkeit” ( sincerità).  Per lei “sincerità” è sinonimo autenticità soggettiva, concetto chiave della sua poetica.

 

 

II Introduzione di percorso.

La magia del cambiamento.

La mia riflessione prende vita da una parola che, magicamente, mi ha orientato nel mio lavoro di analisi storico-letteraria dell’opera di Christa Wolf, volto a mettere n luce come la lingua diventi per lei potenza capace di mediare un mondo altrimenti destinato a rimanere muto, interiormente incarcerato, esteriormente invisibile non incisivo..

La parola è stata, nella mia lingua materna, l’italiano, “cambiamento”.

Sento però la necessità di tradurla in tedesco perché, in quella che per me è una lingua straniera, la potenza simbolica della parola è più forte, più immediata e comprensibile. E’ solo nella lingua straniera che essa diventa orientamento. Penso, dunque, a “cambiamento” non solo come Änderung ma anche come Wandel, perché diverso è il risultato al quale si approda se si riflette rispettivamente su una “Anderung” o su un “Wandel”. Nel primo caso la riflessione determina una “Ver-änderung”, una trasformazione, nel secondo una “Ver-wandlung”, una ben più radicale metamorfosi. [2]

E’ indubbio che sia Veränderung che Verwandlung implichino la rielaborazione simbolica di un cambiamento ma la diversità dell’effetto scaturito da tale rielaborazione mi porta a distinguerle.

Il cammino di Christa Wolf è stato spesso analizzato come un lavoro volto a saldare i conti con un passato non superato, intento ad elaborare il lutto di anni difficili da accettare, quelli legati al passato nazionalsocialista. Un lavoro della memoria sulla memoria, che, spesso, si rivela cattiva consigliera, capace com’è di avvalersi di ricordi abbelliti, incipriati e ripuliti per ogni nuova occasione, ricordi che diventano “medaglioni”, a cui, ognuno, all’occorrenza, fa ricorso.

Da questa prospettiva sembra che nell’opera della Wolf sia il passato ad illuminare il presente, che ne mostra il senso.

Mi piace pensare al percorso opposto, che proprio la parola “cambiamento” mi ha in qualche modo suggerito.

Se la consapevolezza, più volte rimarcata dall’autrice, circa la presenza del passato nel presente, un tempo mi aveva orientato verso il passato, ora mi ancora maggiormente a quello che, di volta in volta, diventa il suo presente. La visione che ora ho di questa sua consapevolezza è cambiata, proprio come quando si guardano quegli strani quadri che in base alla concentrazione dello sguardo rivelano immagini e paesaggi diversi. Difficilmente si riesce a percepirli entrambi contemporaneamente. Sono sempre in successione. Ora il passato dentro al presente mi mostra il presente, quando prima mi mostrava il passato.

E in questo è la parola cambiamento che mi ha aiutato, che mi ha mostrato diverse “trasformazioni” all’interno dell’opera di Christa Wolf. Cesure inizialmente implicite, poi evidenti. Trasformazioni che riguardano prima il suo modo di percepire il mondo, poi il suo modo di scrivere.

Cambiamenti che non determinano subite trasformazioni, ma che spesso si manifestano anche laddove sembra vano cercarli, nelle sue prime recensioni letterarie.

E’ da qui che ha inizio il mio lavoro.

 

 CAPITOLO I – “WANDELSARBEIT” O TRAUERARBEIT?

 

Christa Wolf nasce a Landesberg/Warthe, oggi Polonia, allora una piccola città di 55.000 abitanti nella Neumark brandeburghese.

Nel gennaio del 1945 abbandona la sua città natale fuggendo dalle truppe dell’armata sovietica che stanno occupando la regione. Dopo mesi di peregrinazioni e di continui spostamenti la sua famiglia si stabilisce a Gammelin nel Meclemburgo e Christa Wolf diventa abitante della zona d’occupazione sovietica, dal 1949 cittadina della Repubblica Democratica Tedesca. Cittadinanza, la sua, siglata dal suo ingresso nella SED, il partito socialista unitario, che presiede alla fondazione della RDT.

Subito dopo il compimento dei suoi studi universitari, a partire dal 1953, inizia a lavorare presso lo “Schriftstellerverband”.[3]

Christa Wolf sceglie questo lavoro. Ha, infatti, un’alternativa, sicuramente non meno allettante: Hans Mayer le aveva offerto di lavorare come sua assistente all’università.. Ma lei non vuole rimanere nell’ambiente universitario, ciò che la affascina è “la pratica della letteratura socialista”. Il lavoro presso il comitato degli scrittori le è congeniale perché le permette di entrare in contatto con la letteratura durante il suo processo di elaborazione e, soprattutto, con coloro che la scrivono.

Ma non è congeniale solo a lei.

 

Il candidato si rivela molto utile a fini operativi dal momento che si trova nella condizione di fornirci informazioni su singoli scrittori, che nei loro scritti non sostengono la politica culturale del nostro partito e del nostro governo o che manifestano tendenze borghesi.[4]

 

Quest’atto, conservato insieme con gli altri negli archivi della Gauck- Behörde di Berlino, ha per oggetto la valutazione di Christa Wolf, candidata a sua insaputa a diventare informatrice segreta. Si vuole fare di lei una collaboratrice dei servizi segreti di Stato, cosa che si realizza il 24 Marzo 1959 quando Christa diventa la tanto biasimata e vilipesa “Margherete”, il cui compito consiste nel fornire informazioni sull’operato e la vita di determinati scrittori.[5]

Margherete, che ai due rappresentanti dell’autorità ha dato l’impressione d’essere “tranquilla, composta ed onesta”, [6] è intimidita e si dichiara disposta ad incontrarsi con loro nuovamente. Redige anche un rapporto, il cui contenuto si rivela però soltanto di carattere informativo.  Evidenti sono invece “il suo riserbo e la sua accentuata cautela”, causati, come si legge, da una “comprensibile angoscia intellettuale” .

Quando, nel 1959, Christa Wolf si trasferisce a Halle, il fascicolo rimane aperto a sua insaputa. Ad Halle, come lei stessa scrive nell’articolo pubblicato sulla Berliner Zeitung, incontra ancora un “certo compagno”, collaboratore della Stasi ed addetto al Mitteldeutscher Verlag, e con lui si intrattiene su questioni di politica culturale, perché è ancora dell’idea che, attraverso questa via, si possa esercitare più efficacemente la critica.[7]

Ma ad Halle qualcosa cambia, e questo qualcosa non è testimoniato negli atti, imbevuti della lingua della Stasi. Nell’articolo sopra menzionato Christa Wolf scrive:

 

„..proprio gli anni vissuti ad Halle rappresentarono una tappa importante nello sviluppo della mia posizione critica, soprattutto verso la politica culturale della RDT: affrontai allora le prime discussioni all’interno del comitato degli scrittori, il mio atteggiamento durante il XXI congresso del partito venne pubblicamente criticato all’interno del giornale del partito “Freiheit“. Tutto questo non è presente nell’atto a me noto, che raccoglie solo poche pagine, ma in questi anni la Stasi deve aver capito di essersi sbagliata su di me.”  [8]

 

Non intendo, qui, analizzare l’effetto che la scoperta e la conseguente pubblicazione degli atti hanno avuto sulla scrittrice. Quegli atti mi interessano, ora, per confrontarmi con la Christa Wolf degli anni cinquanta, che lei, in un dialogo con Therese Hörnigh, così definisce:

 

Gli anni cinquanta erano anche questo: anni d’intense discussioni. Dogmatismo? Si. Se vai a rileggere i giornali di quel periodo, rimani sconvolto. Bisogna immaginarsi che i verdetti pubblicati sui quotidiani contro gli scrittori e le loro opere venivano allora presi seriamente spesso anche da chi ne era colpito e per costui avevano conseguenze. Si svolgevano, però, assemblee, nel corso delle quali si diceva, ciò con cui non si era d’accordo.

E noi giovani eravamo coinvolti in tutto. Partecipavamo, era una questione nostra. Eravamo euforici, tutto ciò che accadeva „ qui ed ora“ era decisivo, la cosa giusta si sarebbe affermata presto e completamente, noi avremmo vissuto il socialismo che Marx aveva inteso. Da un lato immersione in un modo di pensare oggettivo, critico, analitico e dialettico, dall’altro una sorta di “ certezza di salvezza”, che durò pochi anni. [9]

 

Sono questi gli anni in cui Christa Wolf aderisce alla normativa del realismo socialista.[10]

Era stato Maxim Gorki che, al I° Congresso degli Scrittori del 1934, aveva esposto per la prima volta in modo organico i canoni del realismo socialista, validi per tutte le espressioni artistiche: l’artista deve dare il proprio contributo alla realizzazione del progetto rivoluzionario, attraverso delle opere dotate di una forte valenza educativa; da esse cioè deve emergere, tramite un’esposizione di estrema chiarezza, l’interpretazione marxista della realtà storico-sociale e soprattutto gli obiettivi politici e i principi morali indicati dal partito comunista. L’arte non deve limitarsi ad avere basi marxiste–leniniste, deve fungere da catalizzatore al fine di avvicinare gli esseri umani alla causa del socialismo.[11]

L’arte sposa il realismo socialista, e, come in ogni ben riuscito matrimonio patriarcale, deve eseguire fedelmente i compiti a lei affidati: esprimere consenso al partito[12], incoraggiare una visione positiva della realtà,[13]trattare i temi tipici della rivoluzione socialista attraverso l’impiego di personaggi esemplari.

Anche Christa Wolf si cimenta in questo “apprendistato al paradiso”. I vecchi diari vengono bruciati, sostituiti da quelle che, in Riflessioni su Christa T, vengono definite “le nuove riviste”, importanti come il pane quotidiano, [14] perché propongono “l’esatto contrario di ciò che aveva avuto luogo nella Germania fascista.” E lei, Christa Wolf vuole “proprio il contrario”.

 

Non volevo affatto qualcosa che potesse essere simile al passato. Credo che per molti della mia generazione sia stato così. Era l’origine di questo legame .

 

Sono gli anni in cui ci si lascia impossessare dall’idea della perfezione che la società nascente avrebbe finalmente potuto offrire.

La “nuova generazione” del resto sembra vivere nella nuova società come “il pesce nell’acqua“, perché “questo tempo è il suo elemento, ovvio sfondo esistenziale, a loro aderente come una seconda pelle”.[15]

L’attenzione è rivolta al “nuovo essere umano”, l’essere umano del futuro,[16]che avrà dimenticato ciò che ancora opprime.

Ma cos’è che continua a pesare, anche ora, in una nuova società, “nella quale ogni sasso, ogni essere umano, dove anche l’aria e il cielo stesso sono nuovi e dove, quindi, “sembra semplice, ricominciare da capo una vita intera”?[17] Che cosa significa dimenticare, più ancora, dimenticare ciò che opprime?

In questi anni, sto ancora riflettendo sugli anni cinquanta, non ci sono risposte perché non vengono esplicitamente formulate, a livello simbolico, le giuste domande. [18]

E’ questo il nodo critico. La lingua non aiuta, non ancora.

L’impronta didascalica del realismo socialista è, infatti, presente nelle sue prime recensioni letterarie, pubblicate sin dal 1952 su “Neues Deutschland” quotidiano politico del SED, ed il tono è apparentemente allineato a quel dirigismo intransigente.

Scrivo “apparentemente” perché tale impronta didascalica è solo l’impressione che si ha, se ci si ferma ad una prima lettura dei testi, confrontando magari i suoi critici giudizi con le posizioni adottate, in politica culturale, dal partito. Si leggono parole che sembrano omologarsi ad un ordine simbolico precostituito.

Ma non è così. L’“accostamento” delle sue parole crea un quadro diverso rispetto a quello ufficiale imposto. Vengono, infatti, intrecciate insieme in un modo capace di comunicare, sebbene implicitamente, un significato altro.

Intravedere un messaggio diverso rispetto a quello manifesto è possibile se si assume come punto di riferimento costante l’autrice. E’, infatti, attraverso lo spiraglio della posteriore, maggiore consapevolezza della scrittrice, che si riesce a “decodificare” anche quelle prime recensioni., quando il problema della censura interiore ed esteriore determinava concretamente e in negativo[19]  “il limite del dicibile”.

Negli anni d’edificazione della RDT continua ad agire il meccanismo dell’autocensura, conseguente a quello della censura, così fortemente sentito durante il nazionalsocialismo. Si sa perfettamente ciò che si può dire, ciò che si deve evitare di chiedere, ciò che è lecito provare e ciò che bisogna soffocare perché deviante rispetto alla norma. [20]Soffocare e reprimere.

Non riesco, dunque, a vedere, in quelle recensioni, “la combattente del programma politico letterario degli anni di formazione della RDT ”, come, al contrario, afferma K. Sauer.

Mi colpisce, in particolare, una sua recensione, quella riguardante il romanzo di Ehm Welk, “Im Morgennebel”. Accanto alla critica, volta a rilevare la carente aderenza alla linea di partito dell’opera, rivelatasi incapace di rappresentare “tipici sviluppi”, Christa Wolf suggerisce la sua ricetta per una perfetta riuscita della “Parteilichkeit des Autors”. Scrive:

 

La fedeltà dello scrittore alle linee del partito non si esaurisce nella testimonianza corretta dal punto di vista ideologico, nella deduzione intellettuale, ma proprio all’artista, essa richiede di stare anche emotivamente, con tutto se stesso, dalla parte giusta.. La grande letteratura realista sorge quando il sentimento e la ragione dello scrittore riescono a cogliere in modo profondo e corretto il suo tempo e a trarre dalla realtà i giusti criteri per un operare artistico. [21]

 

C’è qualche ingrediente che stona in questa “ricetta”. O forse gli ingredienti sono giusti ma è quello che creano, mescolandosi, che non può essere “la fedeltà al partito dell’autore”, “die Partelichkeit des Autors”.

Mi stacco dal contesto e guardo alla frase da fuori.

Perché così mi è più semplice riflettere sulla profondità delle parole, sulla loro ricca,

inesauribile stratificazione semantica. Voglio prima capire e poi contestualizzare.

Perché dico che devo “astrarre” per capire? Perché partendo dal contesto storico la frase pur essendo “legittima”, fin troppo comprensibile, non è per me prova evidente di adesione al realismo socialista, di adesione alla norma.

Capisco che quello che mi crea questione è il soggetto, “Die Parteilichkeit des Autors”.

La questione nasce perché l’affermazione della Wolf è un consiglio rivolto ad uno scrittore, rimproverato di non attenersi al codice estetico dominante. Come può, allora, l’ammonimento non risultare fedele alle linee di tale codice?

Perché è troppo vicino all’idea di “autenticità soggettiva”, quell’autenticità di cui Christa Wolf scrive ampiamente nel saggio del 1968, Leggere e scrivere e di cui discute approfonditamente con Hans Kaufmann in Autenticità soggettiva- Colloquio con Hans Kaufmann.[22]

Negli anni cinquanta era necessario e quindi obbligatorio parlare di “autenticità” (unione tra “Gefühl” (sentimento) e “Verstand” ( ragione) altro non è che autenticità) assumendo come termine di riferimento “Die Parteilichkeit”, perché era in atto quello che Anna Chiarloni ha chiamato il “progredire dall’io al noi” in nome di un progresso collettivo volto ad abolire apparentemente ogni forma di disumana reificazione.

Ma l’autenticità dell’autore non può nascere dalla sua aderenza alla norma, dalla fedeltà al partito unitario, che annulla la posizione individuale, le fa perdere il suo essere da qualche parte, l’unione appunto tra “Gefühl” e “Verstand”. Un paradosso questo dal quale si cerca di uscire cucendo insieme parole di verità e parole vuote. Se si riconoscono, le parole vuote creano però uno spazio, anch’esso vuoto, che lascia maggior movimento e luce alle altre.

Dunque, Christa Wolf indubbiamente ha fatto proprio l’insegnamento appreso durante i seminari di germanistica seguiti durante gli anni universitari, tuttavia, sebbene sia “una fidata compagna”, lascia trasparire, a mio avviso, già in queste prime recensioni letterarie, una non completa aderenza al codice letterario e simbolico dominate.

Commentando il romanzo di Werner Reinowski “Die Welt muss unser sein”, sottolinea:

 

Ogni essere umano sa che nella realtà >succedono< molte cose. Si verificano tra l’altro anche molte tragedie umane; la nostra letteratura le ignora, perché non sono >tipiche< ; perché tipico è solo ciò che è positivo! In questo modo i nostri scrittori, proprio i più giovani, che trovano nella nostra nuova vita il loro soggetto, per amore di una definizione intesa male e a causa della paura degli addetti alla rilettura e revisione dei manoscritti, orientati in modo altrettanto errato, lasciano soli i loro lettori , che da loro vogliono sapere perché mai oggi gli esseri umani continuino a soccombere a causa di colpe proprie o altrui o perché gravi errori di singoli funzionari causino enormi danni.  [23]

 

E’ questa un’affermazione indirettamente rivelatrice della posizione stessa della scrittrice che non era, a mio avviso, emulatrice di un pensiero altrui come al contrario scrive K. Sauer.[24]

Non a caso, chiamata ad esprimere un’opinione sulla sua prima opera letteraria “Moskauer Novelle”, Christa Wolf, nel 1973, a distanza quindi di quindici anni, dalla pubblicazione della suddetta opera, scrive:

 

“Opera Prima!- Del resto questa cosa non esiste affatto. Ritornano sempre in mente i primi tentativi dei primi anni. Progetti di romanzo o dramma realizzati per metà o tre quarti, e poi diari, poesie d’occasione politiche e private, scambi epistolari colmi di sentimento con amiche e poi ancora invenzioni di favole ed insolenti storie-menzogna, per il consumo pratico – sono quelle importantissime forme primitive di ingenuo esercizio artistico, la cui revoca avrebbe per il bambino considerevoli conseguenze e dalle quali può nascere il bisogno di esprimersi scrivendo. [25]

 

Non esiste alcuna “opera prima”, alcun “primo romanzo”. Sempre ogni opera narrativa è preceduta da attività di scrittura, apparentemente “quotidiana”; un diario, uno scambio epistolare, bugie raccontate a fini pratici e, perché no, anche recensioni letterarie.

Che cosa significa? Significa che ciò che l’autrice ammoniva in quelle recensioni letterarie, può essere letto ed interpretato da un lato come “autoammonimento” rivolto verso il proprio modo di scrivere, dall’altro come “prospettiva” auspicabile del proprio modo di fare e concepire la “scrittura della realtà”.

Christa Wolf non ha ancora scritto, negli anni cinquanta, alcuna opera compiuta. Ma il suo impegno nell’ambito letterario è notevole. Tenendo fisse nella mente le parole da lei espresse nel saggio del 1973 Uber Sinn und Unsinn von Naivität, mi piace dunque leggere la recensione a libro di Reinowki come mascherata autorecensione, perché, così, “i conti tornano”, qualcosa sembra cioè coincidere.

Nella recensione del 1954 la Wolf, infatti, sottolinea l’incapacità degli scrittori più giovani di rappresentare la realtà, che non è solo positiva. E’ oscurata, come si legge, anche da tragedie umane, sulle quali però non ci si sofferma, quasi fossero aspetti irrilevanti, piccole ombre su un palcoscenico illuminato, altrimenti, assai bene. Il tecnico delle luci sa orientare il riflettore, che spesso diventa raggio abbagliante. Alla fine si rischia di riuscire a parlare solo della luce. Ma perché? La Wolf lo dice, qui, molto bene: “per amore di una definizione intesa male e per la paura degli addetti alla revisione e lettura dei manoscritti, altrettanto orientati in modo sbagliato”.

Un ammonimento rivolto a giovani scrittori e a coloro che svolgono la funzione di lettori presso case editrici. E lei è sia “giovane” scrittrice che lettrice.

L’orientamento sbagliato la riguarda, dunque, e lei ne è consapevole. Lo comunica implicitamente, senza mettere in gioco il significato di tale consapevolezza.

Del resto la consapevolezza da sola non basta a creare un nuovo orientamento. Prepara però il cambiamento.

 

 

Capitolo II

Lingua come FORZA della libertà

 

2.1 Robusto Realismo e  Fantasia Creatrice

La consapevolezza di un orientamento sbagliato viene messa in gioco a partire dalla sua seconda opera narrativa, Il cielo Diviso. E’ da qui che ha inizio il cambiamento. .

A partire da Il Cielo Diviso, infatti, nei testi di Christa Wolf la lingua e il reale appaiono in un rapporto di costante ascolto reciproco e di reciproco rispetto. Ed è in questo ascolto reciproco e reciproco rispetto tra lingua e reale che si riconosce la forza politica dei testi di Christa Wolf.

Ora, la politica è del registro del simbolico, è intrisa di linguaggio, è fatta di parole. Paradossalmente quindi ogni testo potrebbe essere considerato politico.

Ma non è così. Si riconosce forza politica all’interno dei testi di Christa Wolf perché essi aprono la realtà mostrando ciò che di REALE c’è in essa. [26]

Se la realtà è ciò che si impone a noi attraverso leggi che mostrano come tutto si ripeta, il reale, invece, l’imprevisto della realtà, è legato alla percezione soggettiva della realtà. E’ il sentiero che l’essere umano, guidato dal desiderio, apre all’interno della realtà, nel tentativo di seguire la predisposizione dell’anima.

La realtà, però, come una “catena di fatti” sembra comportarsi ed agire come un pericoloso magnete alla cui forza d’attrazione sembra quasi impossibile sottrarsi.

Il magnete realtà rischia, cioè, di annullare ogni deviazione, rischia di uccidere la libertà di spostamento, di soggettivo movimento.  Impedisce cioè di cogliere qualcosa che possa orientarci in modo nuovo, in modo differente, impedisce di mediare quel REALE, che, come scrive Christa Wolf, “ esiste al di la dell’importante mondo dei fatti”. La realtà, infatti, diventa così regina tiranna anche del linguaggio. E Christa Wolf, cresciuta nella ex Repubblica Democratica Tedesca, è assolutamente consapevole del potere distruttivo che la “realtà” può agire sulle parole, sul linguaggio.

In un brevissimo testo del 1994 Referto, l’autrice descrive, riassumendo in poche frasi, quale fosse un tempo il suo rapporto con le parole: le aveva a disposizione tutte, afferma, le usava “senza riflettere, ma dietro ciascuna appena l’avevo pronunciata, si

levava come un’ombra la parola menzogna”.2

Questo perché quelle parole, delle quali lei credeva di poter disporre liberamente, non illuminavano il reale, erano staccate dalla sua esperienza. Aderivano ad un ordine simbolico il cui obiettivo era quello di veicolare una realtà, che voleva essere di tutti ma che non poteva comprendere il reale di nessuno.  

La breve riflessione presente in Referto non è “nuova”, nel senso di precedentemente mai elaborata.

In quel “passato”, al quale lei fa riferimento nel saggio sopraccitato, la sensazione di non dire parole capace di dare voce al REALE diventa stimolo che induce la scrittrice ad interrogare continuamente se stessa in rapporto alla realtà e ai mezzi a disposizione per poterla mediare.

Ora, Christa Wolf sa bene che per essere davvero realisti è necessario scorgere l’imprevedibile. In un discorso tenuto per commemorare la figura di Heinrich Böll, parla di lui come di un uomo onesto probo, incorruttibile. E rivela in che cosa consista per lei, scrittrice comunista della Germania orientale, l’incorruttibilità di quest’autore cattolico della Repubblica federale. Scrive, infatti, come lui si sia sempre preso la libertà di sviluppare i suoi personaggi a partire dal loro nocciolo morale scontrandosi quindi con la contraddizione tra quella sorta di vitalità a cui ognuno di loro anelava e le norme i cliché della società.

E poi aggiunge;

 

Si: questo narratore ha fantasia ma non si perde dietro a fantasticherie –…..la sua opera nasconde un’utopia– un’idea cioè di esseri umani attivi in una società che non si autodistrugga. Un’utopia certamente- ma Böll non è un’utopista. Se proprio devo usare una categoria, voglio definirlo come un robusto realista. [27]

 

Quando Christa Wolf pronuncia queste parole a Berlino è il 7 Dicembre 1997.  Sono quindi lontani gli anni della Repubblica Democratica Tedesca. Tuttavia leggendo quanto lei dice di Böll sembra, in verità, che lei rifletta su quello che è stato il suo modo di guardare alla e di scrivere sulla realtà.. Anche lei è, infatti, una “robusta realista”, e lo è perché, al pari di Böll, dispone di fantasia immensa. Meglio “esattezza fantastica”.

Sembra paradossale che per essere “robusti realisti” sia necessario disporre di “fantasia”. Eppure è davvero così perché chi è robusta realista non si accontenta di ritrarre la realtà. Vuole cogliere ciò che di reale c’è in essa. E per fare ciò è indispensabile avere fantasia.  La fantasia creatrice diventa nell’opera di Christa Wolf amplificazione della realtà, apre la realtà ad una dimensione ulteriore, quella dell’imprevisto. Aiuta a percepire ed esperire la pluridimensionalità e molteplicità del mondo.

Il modo di concepire e di dare parola alla realtà di Christa Wolf nasce, quindi, dalla necessità di non rimanere bloccata in quella dimensione univoca che il realismo socialista prevedeva.  Nel bellissimo saggio del 1968, Leggere e scrivere, dichiara

 

Lasciamo che gli specchi facciano il loro compito: rispecchiare. Non possono fare altro. Letteratura e realtà non stanno di fronte come lo specchio e ciò che vi si rispecchia. Sono invece fuse in un tutt’uno nella coscienza dell’autore.

L’autore è una persona importante.  [28]

 

Per il realismo socialista l’autore doveva essere cronista, la sua opera specchio di una realtà ideologicamente definita. Una realtà fissa dogmatica.

Christa Wolf non ci riesce. Ci sta dicendo che non è pensabile scrivere senza considerare la dimensione dell’autore, quella che lei chiama “coordinata del profondo”.

In un’epoca in cui, dunque, ogni cosa veniva oggettivata, lei leva una voce diversa e ci parla dell’autore come di una “persona importante”. Importante perché il suo compito non è quello di descrivere obiettivamente la realtà. Quello è il compito forse delle scienze naturali. Autore e autrice la possono raccontare, inventandola in base alla propria esperienza. E inventare la realtà significa esprimere ciò che in essa non è visibile ma che comunque esiste perché produce degli effetti che si percepiscono all’interno dell’anima, come l’inquietudine, l’angoscia il senso di inadeguatezza. E laddove c’è inquietudine, lei lo sa bene, c’è senso che necessita d’essere significato.

Ora, quella di inventare la realtà è un’impresa ardua, difficile, perché per fare questo è necessario misurarsi con quelli che sono i codici simbolici dominanti, che non comprendono a priori ciò che è l’imprevisto, il reale.

L’impegno di Christa è, quindi, quello di trovare una lingua in grado di dire il reale ancora inaudita. E’ in questo senso un impegno politico.

E i suoi testi, esplicitamente a partire da Il cielo diviso, sono testimonianza di come, progressivamente, l’autrice diventi consapevole del fatto che solo il linguaggio può essere dimora visibile del reale inaudito. Una consapevolezza questa, della lingua come unica dimora possibile del reale, che ne presuppone un’altra: quella di realtà plurale, pluridimensionale.

 

2.2 . Il cielo di –viso. Riflessioni sul volto del mondo

Verso la fine degli anni cinquanta la Repubblica Democratica Tedesca era riuscita portare a buon punto la costruzione della società socialista, era integrata nella società degli stati socialisti e cominciava a fortificare le posizioni ormai raggiunte.

E la letteratura di quegli anni, dal canto suo, si impegnava a dare un ritratto orgoglioso di quella che, di fatto, era una raggiunta nuova nazione.

Aveva come obiettivo quello di illustrare i progressi ottenuti in virtù del socialismo, autoesame significativo non solo per mettere in luce le virtù politiche del socialismo ma anche per rendere evidente all’interno, del realismo socialista, quella che Walter Ubricht chiamava die klassische Erbe, l’eredità classica.[29]

Al V Congresso della Sed nel 1958 fu proclamata la rivoluzione culturale socialista: la separazione tra vita ed arte, la distanza tra gli intellettuali ed il popolo doveva essere abbattuta. Walter Ulbricht, il presidente del consiglio di Stato, chiamò ad espugnare le cime della cultura gli operai, che non tardarono a mettersi in moto, formando numerosi circoli di “operai scriventi”.

Arte e vita dovevano fondersi, intrecciarsi insieme. Nell’aprile del 1959 la casa editrice “Mitteldeutscher Verlag” di Halle organizzò, su suggerimento di una brigata di lavoro, una conferenza dei suoi autori, allargata a membri di brigate del lavoro socialista e di operai scriventi.

A questa cosiddetta prima conferenza di Bitterfeld si discuteva sull’innalzamento del livello culturale degli operai, sui programmi culturali e formativi dei collettivi di lavoro e sulla promozione del lavoro artistico del popolo.[30]

Ulbricht stesso e Alfred Kurella, responsabile della cultura del comitato centrale della SED, erano presenti ed esortavano gli operai a scrivere opere letterarie partendo dalle loro esperienze nell’ambiente di lavoro, e gli scrittori, dal canto loro, erano tenuti ad immergersi nella vita produttiva soggiornando in fabbriche e cooperative agrarie. Solo così, si pensava, avrebbero potuto ritrarre fedelmente la realtà nella sua dimensione dinamica e rivoluzionaria.

Molti scrittori e scrittrici, come Brigitte Reimann, Eduard Cludius, Franz Fühmann, Erwin Strittmatter, Hans Marchwitza, Werner Reinowski, Helmut Hauptmann, Herbert Nachbar, trascorrono, dunque, periodi più o meno lunghi nei centri della produzione industriale ed agraria. Le numerose opere narrative partorite in questo periodo risultano, però, sterili, generalmente caratterizzate da caratteri stereotipati e da trame assolutamente prevedibili.

Nel gennaio dl 1961, in una seduta della presidenza del comitato degli scrittori si discute, quindi, con senso critico sul “ Bitterfeldweg” e nel corso del V congresso degli scrittori, nel maggio del 1961, si decide di concedere agli intellettuali non solo una maggiore libertà nella scelta delle tematiche ma anche la possibilità di esprimere critiche sociali. Questa nuova linea, più morbida, sebbene rivista nel 1963, rimase alcuni anni in vigore. Ed è proprio in questo clima, in questa atmosfera di “autorizzata liberalità” , che nasce Il cielo Diviso, “a breakdown in Socialist Realism”.[31]

Anche Christa Wolf, rispondendo all’invito del Bitterfelweg, fa la sua esperienza in fabbrica. Nel 1959 collabora, infatti, per un certo periodo nel lavoro organizzativo e politico del “VEB Waggonbau Ammendorf”, una fabbrica nazionalizzata di vagoni. Si rende conto, però, della problematicità di questo tipo d’esperienza, desiderato dal partito, ma lontano dalla sua formazione e dalla sua indole. Anche se inizialmente desidera scrivere un testo narrativo volto a dare parola alle difficoltà della vita operaia, nel breve racconto Martedì, 27 Settembre, scritto nel 1960, ci rivela come gli inizi del suo lavoro siano lenti, difficili, insoddisfacenti. Dal suo tirocinio nella fabbrica dei vagoni ha preso vita un primo intreccio e nella nebulosa cerchia di personaggi presenti si sono ormai staccate un paio di facce, una ragazza di campagna, che, per la prima volta in vita sua, si reca a Berlino per studiare e diventare insegnante, facendo contemporaneamente pratica in uno stabilimento, e un chimico, Manfred, suo amico, con il quale non resterà insieme.

Gli avvenimenti che si trova a descrivere le sembrano, però, banali. In quel breve racconto di inizio anni sessanta si legge infatti:

 

“Dalla pura e semplice storia della brigata si sono ormai staccate un paio di facce, persone che conosco meglio e che ho connesso l’una all’altra in una storia che, lo vedo chiaramente, è ancora troppo banale (…).E’ straordinario come questi avvenimenti banali, << tratti dalla vita>>, sulle pagine di un manoscritto aumentino la loro banalità fino all’intollerabile.”. [32]

 

Sa molto bene che il vero lavoro comincerà soltanto quando avrà trovato “ la super-idea che rende la materia banale narrabile e degna di essere narrata.”[33] E la super idea non tarda a manifestarsi.

Dell’ambiente del lavoro produttivo in fabbrica a Christa Wolf interessa principalmente l’aspetto sociale, cioè come questo tipo di lavoro possa influire nel processo di trasformazione della coscienza politica di quelli che vi sono coinvolti. Ecco la “super idea” che diventa il taglio della sua opera.

In un dialogo con Hans Kaufmann afferma.

 

Il vocabolo “prassi” è letterariamente fecondo soltanto come prassi sociale; ciò che mi interessa , in altri termini, sono i rapporti che i produttori allacciano, nel processo di produzione, tra loro e con altre istituzioni e strati della società,vale a dire, (devo ripeterlo ancora) fino a che punto e in qual modo la loro attività pratica li pone in grado di partecipare al processo del mutamento storico…. D’altra parte, io non credo di partire, in qualche parte dei miei lavori da una morale astratta, da una istanza che sorvoli le acque delle lotte di classe, a cui l’autore socialista possa richiamarsi. [34]

 

Il Cielo diviso non parte da alcuna morale astratta. Christa Wolf si impegna, infatti, ad osservare la realtà senza cercare di trovare in essa ciò che è stato imposto di vedere. Se molti si erano impegnati in un estenuante “lavorio di riconoscimento”, quasi si trovassero ad osservare strani, imperscrutabili quadri, nei quali, così si dice, basta fissare con attenzione per scoprire incantevoli figure, lei, Christa Wolf vuole vedere senza occhiali, senza prescrizione alcuna.  Guarda oltre, al di là della realtà costruita da parole incatenate negli slogan politici, si impegna a tracciare un’immagine onesta, vera della Repubblica Democratica Tedesca di quegli anni.

Già dalle prime pagine ci si accorge come Il Cielo diviso sia altro rispetto a quanto scritto fino allora sulla realtà della vita produttiva. Nel prologo si legge:

 

“La gente, da tempo avvezza a quel cielo velato, lo trovava improvvisamente insolito e difficile da sopportare, sfogando la subitanea irrequietezza anche sulle cose più remote. L’aria la opprimeva e l’acqua- quell’acqua maledetta che puzzava di residui chimici da tempo immemorabile- aveva un sapore amaro. [35]

 

Perché il cielo appariva velato?  Cos’era l’ombra che improvvisamente era caduta sulla Repubblica Democratica Tedesca? Quale era la causa di quell’inquietudine opprimente che indurrà la protagonista femminile del racconto, la giovane Rita Seidel, a tentare di togliersi la vita, perché apparentemente incapace di prendere la giusta decisione, soffocata com’è da un lato dall’amore per Manfred, l’uomo che se ne va ad Ovest e dall’altra dalla passione per il nuovo grande movimento storico del socialismo reale?

E’ da un letto d’ospedale, infatti, che prende vita la storia.

 

In quegli ultimi giorni d’agosto dell’anno 1961, nella cameretta di un ospedale, si ridesta la ragazza Rita Seidel. Non dormiva era svenuta. Quando apre gli occhi è sera, e la parete bianca e linda che scorge subito è rischiarata solo debolmente. E’ la prima volta che si trova là, ma ricorda subito quel che le è accaduto, oggi e prima ancora. Torna come da lontano: indistintamente serba una sensazione di grande distanza, e anche di profondità. MA dalla tenebra infinita si risale con rapidità folle alla luce ben netta.

 

Rita Seidel, ricoverata in ospedale dopo un incidente in fabbrica, si risveglia da un lungo svenimento, non è ferita, ma soffre di un inspiegabile esaurimento nervoso. E così ricorda il momento dell’incidente.

 

Ah già , la città. Più precisamente la fabbrica, il capannone di montaggio. Quel punto sui binari dove sono svenuta. Dunque qualcuno è riuscito ancora a trattenere i due vagoni che mi venivano addosso da destra e da sinistra: puntavano proprio su d me. Questa è l’ultima cosa. [36]

 

 

Rita Seidel, nata nel 1940, appartenente quindi alla generazione cresciuta dopo la seconda guerra mondiale, nel 1960, anno in cui è ambientata la storia, non ha un passato da rielaborare. E’ entrata, quindi, nel socialismo senza aver direttamente conosciuto il Nazionalsocialismo. Nel piccolo paese nel quale trascorre la sua infanzia ed adolescenza, conduce un’esistenza completamente apolitica che è da lei avvertita come noiosa, stancante e monotona. Giorno dopo giorno se ne sta seduta in un angusto ufficio, sola, scrive tutti i giorni file di numeri in infinite liste e sollecita sempre con le stesse parole gli stessi debitori. Spesso pensa che mai dalla finestra di quell’ufficio potrà vedere qualcosa di nuovo.

 

Fra dieci ani, il postale ancora si fermerà sempre qui, alle dodici in punto; allora le mie dita saranno aride come la polvere; mi laverò le mani, prima ancora di sapere che devo andare a mangiare. [37]

 

La sua annoiata esistenza monotona è inaspettatamente interrotta dall’apparizione di Manfred Herrfurth, studente di chimica ventinovenne, che prima della tesi di laurea, “intende riposarsi”. Rita, fino a quel momento in conflitto con se stessa perché incapace di innamorarsi, si innamora. E Manfred, il freddo Manfred, che, sempre, in ogni nuovo incontro portava con se il freddo inevitabile della separazione, sente che “ a questa ragazza lo legava la prima parola che lei gli aveva detto.” [38]

Così brevemente introdotta la storia sembra assomigliare ad innumerevoli altre scritte in quegli anni. Chi amava leggere trame ottimistiche, poteva credere di indovinare il successivo sviluppo della vicenda.. La rigenerazione della fiducia ottimistica nell’essere umano disilluso, nel freddo Manfred ad opera di Rita.

Ed è qui che Christa Wolf smorza lo zelo intuitivo del lettore indottrinato.

Ironicamente è proprio l’ingresso della politica in quella che è una relazione apolitica a sgretolare l’armonia.

Quando il cielo si divide, quando a Berlino viene costruito il muro, quando non è più possibile posticipare die Entscheidung, “la Decisione”, allora Rita rimane ad Est, mentre Manfred, fugge ad ovest. Lucido, competente nel valutare gi errori di pianificazione industriale ed umana- sono gli anni in cui al difficile decollo economico si sovrappone il passaggio massiccio della forza lavoro più qualificata nella Germania Federale- non sopporta la miopia di un sistema che afferma di sostenere la collettività ma in realtà si ingegna a silurare la creatività individuale, il libero movimento dell’individuo all’interno della società. Non può credere che, ora, le cose possano essere davvero altre, che la realtà possa trasformarsi. Rideva, infatti, quando leggeva le scritte “Tutto cambierà” e si chiedeva cosa potesse davvero mutare se le persone rimanevano sempre le stesse, quelle che, qualche anno prima, indossavano uniformi ben diverse. Sa bene che, in una di quelle strani notti del 1945, molti esseri umani, al pari di sua madre, avevano bruciato l’immagine del Führer, appendendo nei salotti, sopra gli scrittoi, ameni paesaggi naturali, grandi esattamente quanto l’Hitler di un tempo. Manfred è scettico, non riesce a credere agli slogan politici, perché il suo sguardo è in qualche modo più affinato dell’udito. Le parole sentite non gli nascondono la realtà. Guarda sua madre, osserva suo padre e in loro, come in molto altri, riconosce solo “Mitläufer”, fiancheggiatori tedeschi. Uomini e donne che non hanno mai avuto reali convinzioni, uomini e donne che non hanno qualcosa di particolarmente gravoso sulla coscienza, uomini e donne che, senza pensare troppo, si fanno appuntare sul petto distintivi diversi. Uomini e donne che si impegnano a correre insieme al tempo mutevole, ma in realtà affannosamente lo rincorrono, nel tentativo di restare aggrappati ad una parvenza di vita.

Non è solo Manfred, però, ad avere affinato lo sguardo. Anche Rita ha imparato a guardare. Durante il suo tirocinio in fabbrica, scopre che anche i famosi dodici uomini volonterosi della sua brigata intenzionalmente producono molto meno di quanto potrebbero, al fine di rendersi semplice, facile l’esistenza. La produttività diminuisce di giorno in giorno. Rita ascolta angosciata il decrescere del fracasso, dei ruggiti, scalpitii, stridori nei capannoni. Guarda ansiosa le facce rassegnate della sua brigata e confronta quei volti con quelli della foto sui giornali, che pendono dal tavolato del casotto dove si fa colazione e si chiede: “Chi è che mente qui?”.[39] Lei nota come la maggior parte degli operai sia apatica, indifferente agli obiettivi politici, che vengono serviti come pietanze prelibate. Riflette, si chiede che cosa possa essere importante per quegli esseri umani. Con la memoria richiama quello che, dopo tre mesi di lavoro insieme, sa di loro. La riposta è evidente.

 

La fidanzata, il piccolo podere ereditato, la motocicletta, il giardinetto, i figli, la vecchia madre cieca e bisognosa di cure, le nuove norme lavorative, le foto delgi attori. Molte cose, che li inceppavano, intrighi d’ogni sorta, esecrati eppure accarezzati. Piaceri modesti, concessi loro un tempo in luogo del piacere maggiore di cui li si defraudava: vivere senza risparmi né economie. Ora s’aggrappavano alle proprie abitudini, ora beccavano amareggiati Meternagel..[40]

 

Fortemente in contrasto con la retorica politica, la realtà della società socialista tracciata qui sembra essere prossima al collasso.[41]

Il governo non è in grado di accettare una critica costruttiva. Invece di esaminarla, dandole ascolto, si cerca di oscurarla, di estirparla.

E per questo che Manfred non ha fiducia alcuna. Non può più credere da quando un amico, giornalista, l’ ha tradito, bollandolo come uno di quegli intellettuali segregati dalla vita, chiusi in erronee opinioni borghesi, che intendono far ripiombare l’università nel pantano ideologico solo perché nel corso di una conferenza universitaria lui aveva cercato di parlare dei difetti del funzionamento scolastico, della pazza zavorra di studi che opprimeva gli studenti dell’ipocrisia che veniva premiata con i buoni voti. [42]

L’ottuso dogmatismo politico trova, comunque, nel testo il suo più significativo rappresentante nella figura di Mangold, collega di Rita all’istituto pedagogico. Mangold appartiene alla generazione di Manfred, ha un passato nazionalsocialista alle spalle, e, nel presente si atteggia ad esemplare comunista. E’ zelante, esagerato, egocentrico. E’ un uomo privo di volto, la sua espressione è sempre la medesima, fissa. Una maschera. E’ Rita a chiedersi il motivo di quella maschera: Onesta preoccupazione per una causa oppure l’abitudine ad esercitare potere col pretesto demagogico della preoccupazione?

Mangold sortisce su Rita lo stesso effetto che quell’amico giornalista aveva avuto su Manfred ed il volto, per solito così familiare della città, diventa per entrambi “una smorfia”.

Dinnanzi alla smorfia beffarda della realtà Manfred e Rita, però, si dividono, rispondendo in modo opposto ad una medesima realtà.[43]

Manfred ha affinato solo lo sguardo e rimane scettico ammutolisce. Si ferma e retrocede. Fugge ad Ovest. Rita, invece, che al pari di Manfred ha imparato, sente crescere in sé il dovere morale di partecipare, di esserci e contribuire ad una trasformazione della realtà. Invece di ritirarsi, si impegna a compiere ciò che è necessario per attualizzare una trasformazione. La sua.

Inizia a dare ascolto ad un desiderio che diventa bellissimo e dirompente nel momento in cui riesce ad uscire dal silenzio, nel quale l’intimidazione lo aveva bloccato. E’, il suo, il desiderio di interrogare le vuote parole di Mangold.

 

Mangold parlò a lungo. Rita sapeva quello che avrebbe detto. Prestò orecchio distrattamente, ma lo guardò con attenzione. Le appariva quasi disincantato. Nessun altro si accorgeva dunque come suonasse vuota dalla bocca sua ogni parola? Come era ridicolo il suo pathos? Le pareva quasi di poter vedere il meccanismo che muoveva quell’individuo. Si vergognava per tutti gli altri che davanti a lui stavano ad occhi bassi.[44]

 

Desiderio inquietante, perché “i Mangold” dovrebbero essere esemplari.

Cosa significa il fatto che le parole esemplari, quelle che, allora, nei primi anni sessanta, nella Repubblica Democratica Tedesca, dovevano dare visibilità simbolica ad una realtà rivoluzionaria, nuova, luminosa, vengono percepite solo come vuote cavità?

Significa interrogarsi sulla non coincidenza delle parole con la reale predisposizione dell’anima. Interrogarsi su questo significa non solo capire che la realtà rimane sempre altrove,muta, se ci si limita ad essere “ripetitori” di codici stabiliti.Significa ancor più percepire che dare voce alla “realtà dell’altrove” è necessario per riuscire a trovare, ritrovare il reale orientamento della propria anima.

Rita lo fa, ponendosi domande semplici e banali sui contenuti che i singoli termini dell’ordine simbolico dominante si impegnano a mediare.

Il porsi domande semplice e banali è la strada scelta da chi sente forte e struggente in sé il bisogno di fare chiarezza, di capire.

E’ una pratica dirompente e coraggiosa quella delle domande semplici e banali. E’ la pratica di chi desidera rivisitare anche ciò che è ovvio, scontato. E’ la pratica di colui/ colei che non teme lo stupore beffardo degli eroi esemplari, perché intuisce che quel beffardo stupore altro non è che incapacità di articolare un pensiero pensante

Le domande semplici e banali smascherano, infatti, l’eroe esemplare, ingenuamente lo denudano, mostrandone la vera natura, quella di vuoto ripetitore.

Christa Wolf mette in luce la forza capace di produrre senso in un passo bellissimo in Il Cielo Diviso.

La scena si svolge in un’aula universitaria. E’ in un corso una conferenza/processo, l’accusata è una giovane studentessa amica di Rita, colpevole di non aver rivelato al partito l’intenzione dei suoi genitori di abbandonare la RDT per fuggire ad Ovest. Chi la accusa, è Mangold, il giovane studente dell’istituto pedagogico, collega di Rita,il funzionario perfetto del partito, quello che sapeva sempre le citazioni a memoria, che intimoriva, che sempre pareva avere la risposta giusta. Ma questa volta non sa replicare, non sa interagire, perché la domanda, che gli è stata rivolta, non è prevista, troppo banale forse, forse troppo ovvia. E’ Erwin Schwarzenbach a formularla. La sua voce taglia l’aria nell’auditorium:

 

“A nome di chi parla lei?” – chiese Erwin Schwarzenbach. Tutti rimasero sorpresi, anche Mangold. Parlava a nome dei compagni, diss’egli poi con aria di sfida. Esisteva una delibera….

Una delibera- disse Schwarzenbach. (….) – Che cosa dice la delibera sui motivi della condotta di Sigrid? Perché Sigrid non ha avuto fiducia nella classe?

 

Ogni quesito semplice banale richiede semplicità, non vuole essere pagato con fumosa retorica. Mangold, quindi, non può rispondere. La delibera del partito non comprende Sigrid. Può solo, con tono di sfida, abbozzare un discorso, accennando alla linea del partito, ma parla “così come i cattolici parlano dell’immacolata concezione”. E Schwarzenbach glielo dice.

Nel testo si legge:

 

Schwarzenbach glielo disse del resto, sorridendo, e rendendo Mangold impotente e furibondo. E’ proprio così. Senza Schwarzenbach tutto avrebbe potuto svolgersi diversamente. Ma perché mai nessuno aveva fiducia in se stesso? Che cosa impediva loro di porre domande semplici e umane, come ora faceva Schwarzenbach, di ascoltare qualcuno senza diffidarne? Che cosa impediva loro di respirare liberamente come facevano adesso? Di guardarsi in faccia così apertamente?

 

Era la prassi politica ad essere ostacolo. Era allora auspicabile, infatti, stringare ogni quesito al fine di arrivare al nocciolo della questione, della contraddizione.[45] Ma “stringare” la domanda significava amputare il legame che questa aveva con la realtà dalla quale era stata partorita, significava renderla “universale”, catapultarla nell’iperuranio delle domande lecite, ben strutturate. L’iperuranio delle domande esemplari.

Ma non ci possono essere “iperurani”, quando è ad un pensiero vivo che si vuole dare parola.

E’ questo che Christa Wolf mostra. La domanda semplice di Schwarzenbach, insieme a quelle che spesso nel testo troviamo formulate da Rita, serve a rinsaldare il rapporto con la realtà. Incitato dal coraggio di Rita, Schwarzenbach continuerà a lottare per riformare l’ambiente accademico. Sebbene tema le possibili conseguenze della sua azione è, infatti, convinto che non è possibile, non è morale formare “ripetitori”. Nel saggio sul dogmatismo nell’insegnamento, che scrive per una rivista pedagogica, si impegna, infatti a descrivere i metodi errati d’insegnamento, presenti anche nel loro istituto. Ed è in questo suo saggio che scrive:

 

Certuni tentano ancora di imporre invece che di convincere. A noi però non occorrono ripetitori ma socialisti[46].

 

Schwarzenbach ha imparato che ha senso dire la verità che conosciamo, sempre ed in ogni caso. E anche se la gente che può metterlo in cattiva luce ha più potere di lui parlando con Rita, riesce a dire.

 

“Facciano pure tranquillamente un altro paio di assemblee, imprecando contro di me. IO penserò alla sua avidità di schiettezza. Per la prima volta siamo maturi per guardare in faccia la verità. Per non dare alle difficoltà un volto facile, né alla tenebra un volto di luce. Per non abusare della fiducia. E’ la cosa più preziosa che ci siamo guadagnati. Tattica, sicuro. Ma soltanto una tattica che conduce alla verità. Socialismo non è una formula magica. Talvolta noi crediamo di trasformare qualcosa dandole un nome nuovo. Lei, oggi, mi ha confermato che la pura e nuda verità, e solo essa, è alla lunga la chiave per arrivare all’essere umano. Perché dovremmo disfarci volontariamente del nostro decisivo vantaggio?[47]

 

Le parole di Schwarzenbach sono la risposta alla domanda : “ wie soll man werden?”

come dobbiamo diventare?, sulla quale sembra strutturasi l’intero racconto e alla quale, per due volte nel testo viene data una risposta in negativo. Vengono mostrati cioè due falsi modelli.

A Manfred, Rita, giovane ragazza diciannovenne, chiedeva all’inizio della loro storia d’amore “E’ difficile diventare come lei?”. E con questo intendeva indifferente verso ogni cosa, freddo, staccato. Perché era così che Manfred, ai suoi occhi di giovane ragazza di provincia, appariva.

Un’altra volta Rita chiede a Manfred in relazione al dogmatico Mangold. “ Bisogna davvero diventare come lui?”. Anche se sembra essere auspicabile emulare le figure politicamente esemplari come Mangold, Rita sa di non poterlo fare, perché non vuole. Anche Mangold era un falso esempio.

Lei, Rita, è, infatti, una “persona sensibile”.[48]

A differenza di Manfred non può affidarsi solo alla vista. Non può limitarsi a guardare e ritrarsi disillusa dentro l’opprimente corazza dello scetticismo e del silenzio, quando la realtà appare confusa, impenetrabile. A differenza di Mangold non riesce ad essere ripetitrice, non vuole indottrinare e creare ripetitori.

Con la sua avidità di schiettezza Rita introduce non tanto un nuovo modello, quanto   una morale altra, nuova che scardina sia quella distruttiva degli “scettici”, sia quella ottusa dei “ripetitori”: è la morale che prende vita dalla pratica delle domande semplici e banali.

Attraverso la figura di Rita Seidel, Christa Wolf invita dunque ad interrogarsi sulla non coincidenza delle parole con la reale predisposizione dell’anima, a rifiutarsi di diventare “ripetitrice” di codici stabiliti, invita ad impegnarsi a dare voce alla “realtà dell’altrove”, perché è solo così che si riesce a dare il vero orientamento alla propria anima.

 

Christa Wolf si stacca, dunque, in questo racconto, dai dettami del realismo socialista, mostra l’altrove non compreso all’interno dell’ordine simbolico dominate.

Può sembrare paradossale affermare che quell’altrove da lei ritratto sia comunque “intriso di socialismo”. Ma non c’è paradosso alcuno.

Affermare che Il cielo Diviso è testo   “intriso di socialismo[49]  significa, a mio avviso, riconoscerne il valore politico, perché il socialismo che emerge da queste pagine non è immagine fedele di un’astratta ideologia politica. E’ espressione di una scelta, di una soggettiva consapevolezza, raggiunta, non senza fatica e sofferenza, in virtù della pratica delle domande semplici e solo apparentemente banali.

Nel momento in cui viene eretto il muro, le domande semplici e banali di Rita Seidel, di Schwarzenbach sono martelli che dapprima scalfiscono poi sgretolano ed infine abbattono una parete altra, diversa; quella che separa l’essere umano dal mondo, il muro simbolico dell’astratta ideologia.

Sono scintille di luce della lingua materna, quella lingua che sa creare un ponte tra la realtà e il reale.

 

2.3 Riflessioni su Christa T.

Riflessioni su Christa T. è stato un libro criticato, rifiutato, censurato, spesso “oltraggiato”: dire frainteso significherebbe usare un eufemismo, troppo riduttivo per esprimere la violenza incomprensibile con la quale si è cercato di imbrigliarlo, imprigionarlo. Per questo, trovare la verità tra i numerosi pensieri già formulati, spesso in opposizione, in lotta gli uni con gli altri, risulta arduo.

E’ stato indubbiamente “il libro della critica”, trasformandosi, nella RDT addirittura in un caso letterario.

Dopo il notevole successo di Il Cielo diviso e della relativa riduzione cinematografica (1964), la scrittrice gode di un notevole prestigio. Tuttavia non si dedica esclusivamente alla letteratura, ma continua ad essere attiva anche sul piano politico: interviene alla seconda conferenza di Bitterfeld e nel dicembre del 1965 partecipa come candidata all’ XI plenum del comitato centrale della SED.

E’ in questa sede che ha luogo un primo clamoroso scontro con l’apparato burocratico. Nella sua relazione la Wolf si batte a favore di Werner Bräunig, un autore paradossalmente accusato dal partito di tradire la causa socialista perché sembra preferire figure ispirate alla gente qualunque, piuttosto che personaggi di spicco della nuova pianificazione economica del paese varata nel 1963.[50] L’irritazione per la coraggiosa difesa della Wolf è tale che il suo nome viene cancellato dalla lista dei candidati al comitato centrale. Angela Drescher, nell’interessante libro documento dedicato a Riflessioni su Christa T., scrive a proposito:

 

Ciò che Christa Wolf visse nel corso di questo plenum, ciò contro cui inutilmente cercò di

protestare, rappresentò per lei un’esperienza traumatica.Ancora sotto l’effetto dell’assemblea

iniziò a scrivere Riflessioni su Christa T.[51]

 

Scrivere quel libro o non scriverlo rappresentava per l’autrice “una questione vitale”.[52]

Nel corso di un’intervista con Anna Chiarloni, Christa Wolf esprime chiaramente come all’epoca lei si trovasse a vivere in una situazione di pesante conflitto, come Riflessioni su Christa T. rappresentasse quindi per lei un modo per liberarsi dell’inquietudine, indagandone l’origine, che non era circoscritta alla sfera privata, ma era anche di natura politica, riguardava cioè il suo impegno individuale. Per poter restare una scrittrice, sentiva di dover interrogare in modo più radicale i fondamenti sociali che inizialmente aveva chiaramente sostenuto.[53]

Il testo definitivo, così come lo leggiamo oggi, è in realtà il risultato di un processo complesso e travagliato.[54] Nel marzo del 1967 il manoscritto viene terminato[55]e consegnato alla casa editrice (Mitteldeutscher Verlag). Christa Wolf è consapevole fin dall’inizio delle difficoltà che il libro è destinato ad incontrare per la pubblicazione.

Nel giugno del 1967 il “Mitteldeutscher Verlag” richiede, infatti, che vengano eseguiti due “Arbeitsgutachten”, una sorta di accertamenti per verificare se il libro può essere pubblicato.[56] Nel primo si vede nel romanzo il pericolo di un disorientamento ideologico del lettore e per questo si propone all’autrice di realizzare dei cambiamenti. Nel secondo la posizione assunta è decisamente più categorica: il manoscritto viene, infatti, rifiutato, perché in esso vengono rappresentate con stupefacente “forza narrativa” “poco desiderabili generalizzazioni”. Nel documento si legge, infatti:

 

Sebbene l’autrice probabilmente dopo il fallimento della sua terza opera difficilmente produrrà ancora, noi non possiamo accettare il manoscritto. [57]

Il capo lettore della casa editrice consegna allora privatamente il manoscritto al direttore del dipartimento di letteratura tedesca contemporanea, pregandolo di esprimere una propria posizione che non tarda a venire: egli non può accettare pubblicamente il manoscritto.

All’autrice si impongono modifiche, in sostanza le viene richiesto di scrivere un altro libro, un libro diverso. In una sua annotazione diaristica di quel tempo l’autrice scrive:

 

Mi propose di scrivere una storia completamente diversa. Un essere umano, proprio Christa T., una figura tragica, che per molto tempo vive sotto la pressione delle sue esperienze durante il fascismo, che con difficoltà trova la sua strada nella nostra nuova società (per lui è “poco socievole”) e che, giunta a questo punto, alla fine muore. LA società deve avere in ogni caso ragione sull’individuo. [58]

Da un altro appunto di quel periodo, si scopre che l’autrice decide di realizzare un nuovo capitolo, quello che, all’interno del testo, diventerà poi il capitolo diciannove. Il 27 settembre 1967 scrive, infatti, sul suo diario:

a Christa T devo „aggiungere“ un altro capitolo, che non mi è ancora completamente chiaro; una impennata come lo chiama Gerd, verso la fine. Da giorni lo posticipo ma in questo istante ogni pretesto viene meno.[59]

Così il libro viene presentato alla fine del 1967 presso la casa editrice Mitteldeutsch.

Una volta accordato il permesso per la pubblicazione (Aprile 1968), si verifica qualcosa che a prima vista non sembra nulla di eccezionale. Nel secondo quaderno della rivista “Sinn und Form” del 1968, vengono pubblicati alcuni passi tratti dal libro.

Ma nell’autunno del 1968, nei protocolli del consiglio direttivo del comitato centrale, si trova la lapidaria indicazione: “Le perizie riguardanti il libro di Christa Wolf, che hanno portato alla concessione della licenza, devono essere esaminate”[60]

L’apparato ha iniziato a funzionare. Che cosa era successo? Dopo l’ingresso delle truppe degli stati del patto di Varsavia in Cecoslovacchia, la situazione era sicuramente diventata più problematica. Era noto, infatti, che in Cecoslovacchia Christa Wolf contava numerosi amici tra gli intellettuali. Inoltre si erano verificati avvenimenti che lasciavano chiaramente intuire come lei simpatizzasse con le idee della primavera di Praga. Christa Wolf, come Anna Seghers, non aveva, infatti, firmato la dichiarazione ufficiale del consiglio direttivo dell’unione degli scrittori riguardante gli avvenimenti di Praga.

La situazione è dunque indubbiamente difficile da affrontare. Si continua a discutere di un libro che pochi hanno letto e paradossalmente appaiono dettagliate recensioni, anche se si continua a dubitare che il volume possa davvero venire pubblicato.

Tutto ciò attira ovviamente l’attenzione dei critici occidentali. Günter Zehm, redattore della rivista “die Zeit”, non tarda a sottolineare la particolarità del caso riguardante Riflessioni su Christa T., che da lui viene addirittura definito “ein Unbuch”, un non libro, nel senso di libro non conosciuto, non letto, assurdamente però recensito puntualmente in “Sinn und Form” da Herrmann Kähler. Perché proprio in “Sinn und Form”? Forse perché la rivista è destinata all’esportazione e si vuole quindi dare un’immagine di liberalità, di apertura in ambito letterario. Libertà ed apertura che sono comunque solo di facciata.

Alla fine di maggio del 1969 ha luogo il congresso degli scrittori. Pochi giorni prima del congresso (23 maggio 1969), sulla rivista “die Zeit”, viene pubblicata la recensione di M. Reich-Ranicki, il quale, commentando il finale del romanzo, sostiene che Christa T.

muore sì di leucemia, ma in realtà soffre di DDR, cioè di socialismo.[61]

Significativamente, nel corso di un’intervista con Anna Chiarloni, Christa Wolf afferma come quella frase, riportata da una rivista occidentale, fosse “fatta apposta per rendere questo libro quasi impossibile da noi. ”[62]

Nel corso del congresso il libro viene però venduto e durante gli intervalli la scrittrice firma le copie. A quel punto il ministro della cultura Gysi decide di permettere all’editore Heinz Sachs di procedere alla pubblicazione.

Riflessioni su Christa T. esce nelle librerie, ma, in un certo senso, sottobanco. In certi distretti, infatti, per poterlo acquistare bisogna essere addirittura provvisti dell’attestazione d’assoluta necessità, perché è stato stabilito che chi non è ideologicamente abbastanza “maturo” non lo può leggere. In altri distretti viene acquistato in gran quantità dall’esercito, per essere, spesso, mandato al macero.

La seconda edizione è del 1972, viene però datata 1968.[63]

Sarà soltanto con il nuovo corso della politica di Honecker (1974) che il romanzo potrà essere pubblicato con un’ampia tiratura, diventando così finalmente accessibile al grande pubblico.

Nella storia della pubblicazione e della critica di Riflessioni su Christa T., qui solo brevemente tracciata, è indicativo notare come le diverse recensioni, partendo da punti di vista differenti, tendano ad approdare alle medesime conclusioni.

Generalmente i critici orientali accusano la scrittrice di abbandonarsi troppo all’interiorità, all’idillio, riducendo così il rapporto individuo – società alla dimensione unicamente privata.[64]

Max Walter Schulz, direttore dell’istituto di letteratura di Lipsia, nel corso del sesto congresso degli scrittori, si esprime così nei confronti del testo della Wolf.

 

Noi conosciamo Christa Wolf come una abile compagna di lotta per la nostra causa. Proprio per questo non possiamo nascondere la nostra delusione di fronte al suo nuovo libro. Per quanto fedele alla linee del partito volesse essere l’intenzione soggettiva e sincera del testo, così come la storia viene raccontata, è tale da mettere in discussione la nostra consapevolezza esistenziale, da smuovere un passato superato, da generare un rapporto distorto con il qui ed ora. – A chi è giova questo? [65]

Non si tollera il dubbio, non si ammette che possa esserci un rapporto „gebrochen“, rotto, spezzato, distorto con il qui ed ora. Ma il qui ed ora al quale Max Walter Schulz fa riferimento è il qui ed ora delle riviste platinate, dei giornali, dei cartelloni. Non è il qui ed ora del reale.

l’impegno politico di Christa Wolf, si sa, è pur sempre quello di trovare una lingua in grado di dire il reale ancora inaudito.

E in Riflessioni su Christa T., realizzato nel 1967, tale impegno diventa ancora più radicale.  

Qui, infatti, Christa Wolf argomenta chiaramente la difficoltà di nominare ciò che non è previsto all’interno dei codici dominati. Ci parla del senso d’inadeguatezza, di estraneità, che emerge quando le parole sembrano non trovare una corrispondenza con la predisposizione dell’anima. Attraverso la narratrice rivela i suoi dubbi, si chiede se ha un senso continuare a scrivere anche quando non ci si sente in grado di farlo. Tuttavia, nonostante i dubbi, le incertezze, non intende più patire in silenzio l’estraneità all’ordine simbolico e sociale dominante. Anzi, inizia a vedere in questo senso d’estraneità lo sforzo di chi sta cercando di affrancarsi da quel magnete realtà che vuole ingabbiare il linguaggio.

E’ per questo che è necessario, per lei, riflettere su Christa T.,[66]quella giovane donna che, cresciuta negli anni di formazione e consolidamene della RDT, in un ambiente dunque, dove la produttività era la norma, dove il senso del dovere nei confronti della collettività era radicato, riusciva a dire che non necessariamente quello che lei stessa pensava e sentiva, dovesse essere sbagliato perché deviante rispetto ad un codice precostituito.

Ora, il fatto che, a distanza d’anni, quando Christa T. giace ormai sepolta sotto un cespuglio di biancospini, l’autrice avverta il bisogno di riflettere su di lei è davvero un fatto importante. Perché riflettere per Christa Wolf significa pensare dopo/ in seguito ad una cosa, senza riattraversare passivamente la propria esperienza. Si può, in sostanza, riflettere su Christa T. perché quel suo modo di guardare alla realtà non era estraneo a chi ora su di lei riflette Anche chi riflette sulla giovane donna aveva avvertito un analogo senso di estraneità, aveva avvertito una corrispondenza con quello che era il modo di Christa T. di tagliare la realtà Allora però quell’intima corrispondenza era stata imbavagliata. (Allora, dalle possibilità che venivano offerte, si pescava, quasi senza guardare, una vita qualsiasi, senza stare molto a chiedersi se era quella giusta, la si viveva, così com’era, illudendosi che da ultimo finisse con il risultare essere quella giusta.)

Ora, nel tempo della riflessione, a distanza di anni si vuole trovare la forza di parlare di quella corrispondenza, avvertita per la prima volta in un freddo e lontano mattino di Novembre, quando Christa T. portandosi un giornale arrotolato alle labbra, aveva iniziato a soffiare, fischiare, gridare.

Anche la narratrice, come le altre ragazze e gli altri ragazzi, quel lontano giorno aveva sorriso, ma aveva anche avvertito che non avrebbe dovuto farlo; quel grido era per lei “grido di richiamo”, le parlava, era espressione di un qualcosa che fino a quel momento non aveva trovato la via per significarsi, ma che in quel suono disarticolato trovava sorprendentemente un senso. Si legge, infatti,:

 

Ci ridevo su, come tutte le altre, ma sapevo però che non avrei dovuto farlo. Perché a differenza di tutte le altre non era la prima volta che assistevo a quella scena. Cercavo dentro di me di ricordare quando l’avevo vista un’altra volta camminare avanti a me, ma non ritrovavo alcuna immagina a cui riallacciare quella scena. Lo avevo semplicemente saputo. [67]

 

E’ necessario quindi tornare a riflettere su Christa, e l’autrice più volte nel testo lo comunica. Siamo noi ad avere bisogno di lei. Ma perché? Perché era lei ad avere mostrato quale fosse la strada da percorrere per riuscire davvero a squartare la realtà. Per riuscire a d aprirla, per mostrare quanto REALE in essa si potesse celare.

Lei, infatti, nonostante le sue difficoltà, nonostante la frammentarietà della propria scrittura, era, infatti, certa di superare le cose solo scrivendo.

Voleva scrivere poesie Christa T., e in tedesco scrivere poesie si dice DICHTEN. Christa Wolf, lavorando con fantasia su questa parola, costruisce un’originale spiegazione. Rivela come DICHTEN per Christa T. significasse DICHT MACHEN, ossia rendere spesso. Lei, quindi, voleva rendere spesso, con le parole della sua lingua materna, il reale, renderlo visibile, per riuscire così a lasciare una traccia. Non ci riesce, però, muore e a stroncare la sua vita è una malattia, leucemia, il cui sintomo più evidente è la stanchezza. Una stanchezza “traditrice”. Nel testo si legge, infatti:

 

Oggi ci si può domandare che cosa tradisse quella stanchezza, allora la domanda veniva respinta dalla sua stessa assurdità. La risposta non avrebbe giovato né a lei né a noi. Una cosa è sicura: mai ciò che facciamo può stancarci tanto come ciò che non facciamo o che non possiamo fare. Questo era il suo caso. Era la sua debolezza e la sua segreta superiorità[68]

 

Christa T. desiderava ma era incapace di dare ordine alla sua capacità di eccedere il reale. Per questo era stanca, per questo soffriva. Tuttavia riusciva a dire che non si sarebbe morte ancora per molto per una simile malattia.

Quasi confermando quanto Christa T. prevedeva, l’autrice, attraverso la narratrice, dà voce a quel sentire eccessivo, meglio eccedente e lo può fare perché il segreto di Christa T. aveva sempre trovato eco in lei. Riflettere su di lei, infatti, come ho detto, significa pensare a partire da sé, dalla propria esperienza.

Ora Christa Wolf può dare parola a quel reale imprevisto che sta al di la dell’importante mondo dei fatti, utilizzando la propria lingua materna, perché ha imparato a guardare la lingua nello stesso modo in cui si osserva la realtà. Ha scoperto cioè che così come, nel momento in cui si prende consapevolezza della propria prospettiva, la realtà si allarga, anche quando si ricorre alle parole, si può rilanciare il senso di inadeguatezza, avvertito di fronte alla non corrispondenza della parola con l’emozione, se si riconosce che anche le parole, come la realtà, possono guardate da più prospettive. Possono quindi racchiudere una straordinaria profondità.

Anche le parole in qualche modo si allargano perché cessano d’essere aderenti alle cose.

Ed è proprio riconoscendo la non definitiva compiutezza della parola che Christa Wolf scopre e rilancia fiducia nella lingua materna.

In Riflessioni su Christa T. ci rivela che è lecito temere tutto ciò che è stabilito, determinato perché “è così difficile mettere una cosa in movimento, una volta che è “lì” – già quell’espressione!-, e che perciò bisogna tentare di tenerla in vita prima, mentre è ancora in divenire, mentre è ancora dentro di noi. Il fatto è che tutto dovrebbe essere in continuo divenire. Non si deve, non di deve assolutamente lasciare che le cose arrivino al punto di essere compiute, finire.”[69]

Anche le parole non devono arrivare al punto d’essere compiute.

Riconoscendo l’incompiutezza della parola Christa Wolf getta luce su quella che è “la riserva d’essere” della parola. Lei ci dice che le parole sono non finite, sono internamente infinite.  Mutano, si trasformano, sono in continuo divenire. Non sono la pelle del significato. Sono piuttosto vestiti del significato, che cambiano, non solo a seconda delle stagioni, ma anche delle persone che li indossano.

E’ proprio riconoscendo questo che diventa libera di giocare con il linguaggio, è riconoscendo questo che comprende come i codici fatti di frasi fatte, di slogan non esauriscano le potenzialità del linguaggio.  Le diventa possibile pensare che non è la lingua in se ad essere sbagliata, ad essere impazzita. Può pensare che attraverso la medesima lingua sia possibile mediare un punto di vista altro, diverso. Quello imprevisto del suo reale.

Non a caso la narratrice ricorda come, in quegli anni, in cui nessuno si interrogava e accettava di diventare ingranaggio di un meccanismo difficile da percepire, Christa T., per niente in chiaro con se stessa sotto tutti quei motti, scriveva, componeva bozzetti riguardanti la sua infanzia, opponendo alla rigidità del sistema il suo “Kind am Abend”. Sicuramente, come afferma la narratrice, lei non avrebbe saputo spiegare per quale motivo, proprio in quel momento, avesse avvertito la necessità di andare alla ricerca della bambina che era stata: quella bambina che, alla fine della guerra, impaurita, appoggiata allo stipite della porta del giardino, osservava la famiglia di zingari andarsene dinnanzi all’avanzare delle truppe sovietiche. Ma anche in quel momento, come in quel lontano giorno di guerra, desiderava “avvertire dolore, nostalgia qualcosa di simile ad una seconda nascita. E alla fine dire “io”: io sono diversa (anders.) ”

E’ la volontà di rinascere nel segno della differenza/alterità che la spinge a tornare all’infanzia, al momento in cui la non coincidenza con la realtà non portava alla subordinazione bensì alla consapevolezza di essere “diversa-anders”.

Le parole come si legge nel testo, hanno, infatti, un doppio significato, “uno di questo mondo, l’altro dall’altro mondo”, “einen aus dieser, den anderen aus jener Welt”.  [70]

E questo mondo altro, al quale nel testo si fa riferimento, è quel mondo oscuro nel quale il pensiero è legato alla sensazione e non oppresso da una norma livellante che imprigiona le parole e con esse l’individuo in piatti stereotipi.

E così che nel testo lei interroga le parole, le sbuccia come cipolle, inventando nuove derivazioni etimologiche, liberandole così da strati di significato depositati e logori.

Sono molteplici gli esempi di parole che “diventano vive” attraverso quella che potrebbe essere una “risemantizzazione”: Sehnsucht, letteralmente, forse nostalgia, diventa die Sucht des Sehens, dipendenza ma anche brama forte desiderio di vedere, scoprire,   wiederholen, letteralmente ripetere, diventa wieder zurückholen, riprendere nuovamente, nachdenken, letteralmente riflettere diventa an sie denken, un pensare a lei, sie nachfolgen im Denken, un seguirla con il pensiero, denken nach, un pensare in seguito ad una cosa..

Le parole nuove, che lei inventa, nascono da quello che è il suo modo di stare nella realtà, un modo diverso, come si è più volte ripetuto, imprevisto.

E’ un amore sconfinato per la lingua che la porta ad agire in questo modo.

Così come nella vita non può accettare che tutto sia già precostituito, stabilito, anche con le parole segue “l’altro mondo”, “die andere Welt”.

E’ la discesa in quel mondo che apre la possibilità di vedere nella lingua la dimora possibile del REALE.

Ma c’è di più.

E’ la discesa in quel mondo che apre la possibilità di affrancarsi completamente dalla seduzione che i codici simbolici dominanti esercitano.

L’incompiutezza della parola getta luce non solo sulla riserva d’essere della parola medesima. Non ci mostra solo la profondità della parola.

Quando Christa Wolf ci parla dell’incompiutezza della parola ci dice che è opportuno avere pazienza di fronte a quella che apparentemente sembra essere una parola mancante.

Laddove non riesce a trovare la giusta corrispondenza tra il pensiero e la parola lei accetta anche di lasciare uno spazio aperto, uno spazio vuoto.  E dice NON ANCORA

Non intende, infatti, cercare aggiustamenti qualsiasi pur di evitare il senso di angoscia dinnanzi ad una parola mancante. E’ capace di sopportare il vuoto, perché questo vuoto non è quello delle sterili parola/cavità dei vari esemplari Mangold, è piuttosto il silenzio che nasce da una fiduciosa pazienza.

Quando lei dice non ancora non sta rinunciando a dire, il non-detto non è cioè condannato all’indicibile. C’è la speranza, che è certezza, di riuscire un giorno a parlare di ciò che risulta difficile dire in un’altra lingua che si ha “nell’orecchio, ma non ancora sulla lingua ” una lingua capace di descrivere finalmente gli oggetti non più partendo dal loro aspetto esteriore ma da ciò che è essenziale, “l’essenziale invisibile”, “das unsichtbare Wesentliche”.[71]

Il suo non ancora è quindi espressione della ricerca continua di un criterio di verità davvero capace di dare visibilità alla nostra comune capacità di infinito, senza ridurla, mutilandola con censure, autocensure e finzioni.

Rubo un’espressione di Luisa Muraro per dire che il suo non ancora è una mezza luna. E la posizione di chi accetta il non detto, sapendo che un giorno verrà illuminato da un sole nuovo.

 

“L’altra mia lingua che aveva cominciato a crescermi dentro, ma certamente non si era ancora sviluppata del tutto, avrebbe sacrificato pacatamente il visibile all’invisibile, avrebbe cessato di descrivere gli oggetti attraverso il loro aspetto –automobili rosso pomodoro, bianche, santo cielo! – e avrebbe fatto apparire, sempre di più, l’invisibile nella sua essenzialità. Aderente sarebbe stata quella lingua, almeno questo mi pareva di saperlo, delicata e amorosa. Non avrebbe fatto del male a nessun altro che a me stessa. Cominciavo a capire perché non andavo al di là di quel foglietto, delle singole frasi. Pretendevo di esserne assorbita. In realtà non pensavo a niente.”[72]

 

CAPITOLO III

Propensione all’autenticità; la passione della lingua materna.

Trama d’infanzia si articola intorno ad un breve viaggio a L. (Landesberg, oggi Polonia) che la narratrice compie in compagnia del marito H., della figlia quindicenne Lenka e del fratello Lutz. Un viaggio di pochi giorni (10- 11 Luglio 1971) dal quale prende vita una profonda riflessione che sembra rispondere ad una domanda formulata altrove, in Riflessioni su Christa T.: Come ci si separa da se stessi? Come allora, anche durante il terzo Reich, a cui in Trama d’infanzia si fa riferimento, si poteva essere presenti senza esserci completamente?

Leggendo le recensioni critiche di quegli anni, inizio anni settanta, si ha l’impressione che il testo della Wolf stia alto, sul crinale di una montagna. Da un lato coloro che lo glorificano, affermando che esso propone quel doloroso lavoro d’elaborazione del lutto, Trauerarbeit, non sufficientemente sviluppato dagli scrittori/ scrittrici della Germania Orientale dall’altro coloro che vedono nel testo solo l’enorme fatica nel realizzare questo “processo soggettivo” al proprio passato, una fatica che non premia, se poi viene mancare la riflessione sul presente, sulla DDR, sul realismo socialista.

In questo continuo dialogo con il libro e con quanti lo hanno letto ed interpretato, qualcosa non tornava. Nella mia lettura non è, infatti, tanto il lavoro di rielaborazione del passato in quanto tale che mi colpisce, quanto piuttosto come tale lavoro mi si apra come il modo scelto dall’autrice per articolare il suo “qui ed ora”. [73]

Ora, anche Trama d’infanzia, così come Riflessioni su Christa T., nasce dal e consiste nel processo del ricordo.[74] L’infanzia viene avvicinata con l’aiuto della memoria che non funziona però solo come istanza ordinatrice a livello temporale, “come passo del gambero, come faticoso movimento a ritroso, come caduta nel pozzo del tempo, in fondo al quale la bambina è seduta con la massima innocenza su un gradino di pietra e per la prima volta in vita sua dice mentalmente IO”.[75]

Ciò che vuole essere mediato è, infatti, il contenuto della memoria di un essere umano, di una donna “in costante trasformazione”.

Scivolando con la memoria nel passato, Christa Wolf non intende quindi ricostruire soltanto la storia Nelly, di se stessa bambina, soddisfacendo così quello che sembra essere il “prosperante turismo nelle infanzie semisommerse”.[76] Scoprire le origini dell’occultamento di quella che Nelly aveva avvertito come un’estraneità deviante rispetto ai codici costituiti, significa ora dar voce a quella memoria che è sopravvissuta alla bambina, che è quindi ancora viva nell’adulta.

Da subito si intuisce come sia impossibile per l’autrice osservare dall’alto l’io diviso della bambina di un tempo perché l’estraneità rispetto ai codici precostituiti non riguarda solo Nelly, ma anche chi si accinge a riflettere su di lei. E’ un’estraneità vissuta su un doppio registro in duplice senso: non è solamente la distanza dell’adulta nei confronti dell’infanzia, ma anche la lontananza che ora, nel presente, separa l’adulta da se stessa, estraneità quest’ultima strettamente connessa a quella avvertita da Nelly.

Ora, questo articolato e complesso modo d’essere estranei a se stessi, immediatamente percepibile dal pensiero, sembra però diventare intraducibile all’interno delle strutture narrative. Sono più voci che si devono mediare e la narratrice stessa, secondo il suo abituale modo di procedere nella scrittura, non tralascia di comunicarcelo. Si legge, infatti:

 

Nel contraddittorio con te stessa emerge il reale motivo dell’afasia: passando dal soliloquio al dialogo si verifica una avvilente mutazione di suoni, un fatale cambiamento delle relazioni grammaticali: Io, tu lei, che nel pensiero ruotano intrecciati, nella frase pronunciata devono farsi estranei l’uno all’altro: La nota convinta di petto cui il linguaggio sembra aspirare, inaridisce sotto la tecnica acquisita delle corde vocali. Disgusto delle parola. [77]

 

Il pericoloso desiderio di stabilire connessioni non soltanto tra sé e la bambina, ma anche tra sé e sé, tra sé ed il mondo, diventa però anche stimolo che la induce a cercare lo stile più adatto a rendere visibile nella scrittura il carattere multiforme dell’estraneità. Il che vuol dire dare voce a tutte le potenzialità e non soltanto ad una di esse, quella che l’autrice definisce “sua maestà l’“io”.[78] Si legge:

 

(Cristallizzazione delle persone; l’atrofia delle loro potenzialità- o delle potenzialità che si sono illuse di avere e che non hanno mai avuto. E dovrebbe restare indenne una sola d queste potenzialità, proprio sua Maestà l’Io? Proditoria sensazione di invulnerabilità; sensazione romanzesca.).[79]

 

Ci si rivolge a Nelly quindi utilizzando la terza persona singolare perché si comprende che solo così si può rendere visibile, nella scrittura, la distanza che separa l’adulta dalla bambina. Già nella prima pagina si legge, infatti:

 

A poco a poco, nel corso dei mesi, il dilemma si è definito: restare senza parole o vivere in terza persona, pare che questa sia la scelta. Impossibile la prima inquietante l’altra.[80]

 

Ma l’impiego della terza persona ancora non basta, perché rende conto solo del rapporto esistente tra la narratrice e la bambina di un tempo e non di quello tra la narratrice e l’autrice. E’ attraverso il ricorso alla seconda persona, “tu”, che si riesce ad evitare il monologo, il discorso dell’io, e ad aprire quindi nuovamente la prospettiva. La ricerca è, infatti, duplice perché non si seguono solo le impronte di Nelly, ma anche le proprie. Nelly è il passato che non è morto, che non è nemmeno passato. E’ stato solo allontanato e considerato estraneo.

Ne deriva quindi una scrittura alquanto articolata. La ricostruzione cronologica, narrata in terza persona, della storia di Nelly fino al 1947 si situa infatti in un sistema duplice di coordinate: a) da una parte quella della narratrice (che si apostrofa con un “tu”) e il cui ricordo si muove dall’osservazione del presente, tracciando così un ritratto dell’intellettuale nelle RDT b) dall’altra una cronaca puntigliosa della stesura del libro, rigorosamente datata (3 Novembre 1972- 2 Maggio 1975), attraverso la quale la narratrice tende a coinvolgere il lettore informandolo del lavoro filologico, letterario e psicologico che precede determinate scelte, delle possibili varianti del titolo, nonché dell’uso di strumenti bibliografici. [81]

Nel saggio Leggere e scrivere Christa Wolf, infatti, pur indicando l’autore come “ il sommesso evocatore dell’imperfetto” – accogliendo così una definizione di Thomas Mann – rifiutava tuttavia l’identità di autore e narratore. L’autore non poteva essere, per lei, portatore neutrale di un messaggio leggibile, colui che raccontava un’esperienza vissuta dopo averne preso distanza. Non reggeva, per la Wolf, il motto della Seghers – “ Ciò che diventa raccontabile è superato”- in quanto il processo, se voleva rispettare “l’autenticità interiore” di chi scriveva, doveva essere necessariamente simultaneo. [82] Scrivere, infatti, vuol dire per lei conoscere, non nel senso però di “überwinden”, superare, quanto in quello di cercare di mettere a nudo i meccanismi associativi che portano verso la conoscenza di se stessi.

E’ un’esserCI “profondo” nella scrittura quello che Christa Wolf aveva proposto nel suo bellissimo saggio Leggere e Scrivere, manifesto della sua poetica dell’autenticità soggettiva, un esserci dell’autrice che, in Trama d’Infanzia, avrebbe dovuto trovare piena attuazione

 

Intramezzo

Ora, Leggere e Scrivere, nato quando Riflessioni su Christa T. era completato da un anno, rappresentava il tentativo di elaborare e di articolare l’esperienza da lei fatta durante la stesura di quel libro. Era il tentativo di delineare teoricamente un nuovo modo di scrivere dal momento che allora, nel 1968, non era più meritevole poter dire cose da tempo arcinote in modo collaudato. Gli antichi strumenti fidati erano, infatti, diventati ormai inservibili.

Non si poteva ammutolire del tutto, rinunciare. Lei, Christa Wolf allora decideva di riscattarsi con la produttività, perché l’inquietudine, da lei avvertita dinnanzi alla visione di un mondo illuminato da una nuova luce, l’aveva condotta in una regione che “un tempo non avrebbe mai desiderato, né pensato vedere”.

Poiché non è possibile desiderare ciò che non si conosce, è chiaro che la visione esperita durante la stesura di Christa T., le aveva aperto qualcosa di nuovo, a cui non intendeva rinunciare. Si trattava dell’esperienza soggettiva, capace di incunearsi tra la realtà e il soggetto autore, ampliando al contempo la realtà stessa, conferendole così profondità. Del resto come scrive Wolf:

 

Chi scrive sembra attendersi che la sua mano riesca scrivendo, a tracciare una curva che risulti più intensa e luminosa, più prossima all’esistenza vera ed effettiva della curva esistenziale stessa, esposta a tante variazioni- E sembra altresì, poiché alla fatica dello scrivere non si è mai rinunciato del tutto durante le epoche peggiori, che la vita nuda e cruda non riesca a cavarsela da sola. Non descritta, non tramandata, non interpretata, non riflessa . [83]

 

La prosa, per riuscire quindi a scottare come scotta la vita, per non risultare distante e falsificatrice del reale, doveva essere incoraggiata a “fondarsi unicamente sull’unicità dell’esperienza” non doveva “lasciarsi trascinare arbitrariamente dagli interventi dell’esperienza altrui”.Solo così essa, la prosa, avrebbe potuto partorire ciò a cui solo a lei è concesso dare vita: affinamento dei sensi, risveglio del piacere dell’osservazione, della capacità di vedere il lato comico e tragico delle situazioni, di trarre serenità dal paragone con il passato, di rispettare il lato eroico come eccezione e di prendere atto del distacco da ciò che è consueto e sempre si ripete, anzi è se è possibile, di amarlo, e

soprattutto far stupire il lettore, la lettrice di se stesso e degli altri. [84]

Una prosa epica, quella da lei proposta, che doveva compiere l’impresa di penetrare nell’interiorità della sua lettrice “nella sua intima profondità laddove si forma e si afferma il nucleo della personalità”, quel territorio che “può essere raggiunto dalla voce di un altro individuo, dalla prosa, può essere sfiorato e dischiuso tramite il linguaggio- non già per impadronirsene, ma per sprigionare forze interiori che siano paragonabile per violenza d’urto alle energie contenute nell’atomo”. [85]

Così come la spettatore del teatro epico di Brecht è in primo luogo un osservatore che viene stimolato all’attività, alla riflessiva e critica partecipazione, diventando consapevole delle proprie sensazioni, allo stesso modo anche la lettrice di prosa epica è attenta osservatrice, stimolata alla riflessione che nel testo prende vita e che l’autrice stessa propone riflettendo lei per prima su ciò viene narrato.

Per Christa Wolf, allora, nel 1968, una prosa simile poteva unirsi solo a correnti di pensiero e movimenti sociali capaci di dare un futuro all’umanità, liberi dalle formule magiche secolari e nuovissime della manipolazione, sostenitori della sperimentazione.

E’ significativo registrare come per lei, esistesse in quegli anni, una “profonda concordanza tra questo modo di scrivere e la società socialista”. Scrive, infatti:

 

E’ dimostrato che le società sfruttatrici non sono capaci di assicurare all’umanità un futuro, che sia degno di quel nome. (…)

A nessuno e meno che mai allo scrittore, è dato aspirare alla libertà al di là delle coordinate di spazio e di tempo, al di là della storia e facendo a meno di essa. Il luogo geografico in cui l’autore vive, e che è al contempo un luogo storico, lo tiene avvinto. Volerlo ignorare oppure negare, sarebbe audacia non solo vana ma inutile. Perché dovrebbe egli privarsi negligentemente del vantaggio offertogli dal fatto che la società cui appartiene si adopera all’autorealizzazione dei suoi membri? Una delle più importanti premesse a favore della letteratura è, infatti, l’anelito alla autorealizzazione. (…).

L’autore dunque che qui abbiamo abbozzato sfrutta i vantaggi della nostra società , di cui il maggiore consiste nel fatto che il suo pensiero non rechi il marchio di essersi formato all’interno di una società classista; il che significa che egli possiede una importante libertà, che dovrebbe quindi farsi un dovere di proiettarsi più innanzi nel futuro che non il suo collega, il quale vive in una società classista. [86]

 

Elencando, però, i vantaggi della società socialista la Wolf sembra indirettamente denunciare promesse non mantenute, ideali non perseguiti se non ideologicamente. [87]

Christa W., infatti, è consapevole del fatto che

 

è arduo, infatti, partire costantemente e con incondizionata veridicità dalle proprie esperienze. Questo in realtà- e sia detto come esame di coscienza per l’autore- è un suo interesse personalissimo: ogni manipolazione delle proprie esperienze distruggerebbe immediatamente il contatto con le fonti vive dell’ispirazione e costringerebbe l’autore a produrre fantasmi, aborti, che parlano con occhi distorti e falsi linguaggi.[88]

 

Non a caso, del resto, come esempio del modo “veramente nuovo di narrare” aveva citato Georg Büchner. Per lui, naturalista e rivoluzionario, morto appena a ventidue anni, era insensato elaborare storie tradizionali. Per lui scrivere significava fondersi con l’epoca nell’attimo in cui entrambi esperiscono il loro più denso, più conflittuale convergere. Nella sua novella Lenz, la Wolf vede impegnato il conflitto insolubile dell’autore Büchner, un conflitto, aggiunge, “in cui si rispecchia mille volte accresciuta, la minaccia che pesa su persone vive, affamate d’evoluzione e avide di verità in tempi di restaurazione”. [89]

Ora, la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta furono indubbiamente vissuti dalla Wolf come un periodo di restaurazione. Ciononostante forte, radicale è ancora la sua fiducia ottimistica nella società socialista.

Ed è solo all’interno di questa società, che lei percepisce come possibile il dispiegarsi di quel nuovo modo di scrivere.

 

Fallimento

La poetica dell’“autenticità soggettiva” sembra dunque essere alla base di Trama d’infanzia. Il testo sembra essere costruito al fine di coronare quanto era stato affermato nel saggio.

Tuttavia si avverte un parziale fallimento dell’impresa.

Parziale perché il fallimento non riguarda il Trauerarbeit, il faticoso lavoro di rielaborazione del lutto, di riflessione sul passato nazionalsocialista. Ho già detto che scrivere per la Wolf non significa “superare” quindi quella che all’inizio del testo sembrava essere la meta finale da raggiungere, ossia l’unione tra la terza persona (Nelly) e la seconda in un’unica persona, non può avvenire: l’io diviso cioè non arriverà a ricomporsi attraverso l’esplorazione dell’infanzia, il “tu” non integrerà la terza persona per realizzare l’“IO”.[90] Ciò comporterebbe il superamento del passato, il suo essere assorbito nel presente fagocitante e risolutivo, caro a molta letteratura della RDT di quegli anni. E questo non poteva essere l’obiettivo dell’autrice.

Ora, il fatto che la Wolf negli anni settanta scriva un romanzo raccontando al pubblico del suo giovanile zelo hitleriano è indubbiamente cosa che rivela coraggio, tanto più che nel libro appaiono dettagli, per esempio le incursioni dei soldati sovietici nelle case dei profughi terrorizzati, che, data la sopravvivenza di certa oleografia- “Soldati sovietici che distribuiscono minestre, salvano bambini, portano in ospedale donne in preda alle doglie ”- potevano essere definiti esplosivi. Il fatto che venga, inoltre, affrontato il tema della fuga, finora ignorato dalla letteratura delle RDT, un tema che mal si accordava con gli slogan di amicizia con l’Unione Sovietica, ebbene anche questo era un dato nuovo.

Tuttavia è focalizzando l’attenzione su quella che è la “ dimensione dell’autrice”, la coordinata del profondo, quella che avrebbe dovuto rendere pienamente visibile il fondersi dell’autrice con la propria epoca, che si avverte il fallimento dell’impresa, le cui cause vengono messe in luce proprio dal radicale lavoro di rielaborazione del passato.

Seguendo le informazioni dettagliate circa il suo modo di procedere nelle stesura del libro, informazioni che l’autrice, attraverso la narratrice, offre alla lettrice, si comprende come lo sforzo costante del dire diventi progressivamente insostenibile.

Ricco è, infatti, il “dialogo” che l’autrice instaura con la lettrice, che si trova ad assistere all’esperienza dell’incapacità di mediare un conflitto in atto.

Inevitabile è quindi interrogarsi sull’origine di questa incapacità, chiedersi perché si assista alla scomparsa di febbrili attese, all’allentamento di quella tensione che nasce dall’eccesso e che dà verità, realtà, pienezza, all’atrofia della curiosità, all’affievolimento della capacità di amare, alla riduzione della vista, allo strozzamento di intensi desideri, al soffocamento di una speranza indomita, alla rinuncia, allo smorzamento delle gioie, all’incapacità di sorprendersi, ed infine – ammesso con esitazione – al calo della voglia di scrivere. [91]

 

Ciò che aiuta a comprendere il “fallimento della poetica dell’autenticità soggettiva” è quel “pericoloso desiderio” di stabilire connessioni, formulato dalla narratrice già nelle primissime pagine del romanzo, desiderio che la induce, negli anni settanta, a ripercorrere l’infanzia, per significare ciò che ancora la lega alla bambina di un tempo, a Nelly, ossia il “procedere con il freno a mano tirato” .

Nelly, così si legge, è un caso di maturazione precoce, con scarsa conoscenza di sé.[92] Ha imparato, infatti, molto presto che obbedire ed essere amati sono la stessa cosa[93]ed obbedisce, anche se obbedire significa annullare se stessa, anzi proprio per questo. Si rende conto, infatti, che in lei c’è più di una bambina: una bambina del mattino, una bambina del pomeriggio.[94]Nelly non conosce però “la bambina della sera”, quella alla quale Christa T. aveva dato voce nel momento in cui la rigidità del sistema le impediva di articolare la sua diversità. La bambina di Christa T. era espressione della volontà di nascere ancora una volta tornando all’infanzia, al momento in cui la non coincidenza con la realtà non portava alla subordinazione, all’abnegazione, ma alla consapevolezza di essere diversa. Nelly, al contrario di Christa T., non riesce a dare voce alla sua alterità, non riesce a dire “Io sono diversa”. Nel tentativo di compensare la paura e il senso di colpa che affiorano quando l’estraneità presente in lei rischia di trascinarla in una zona di non conformità, tradendola, simula.[95]Abituata a tirare il freno d’emergenza, finisce così per tradire se stessa.

Attraverso le dichiarazioni della narratrice, si comprende come anche l’autrice, al pari di Nelly, abbia imparato a “guidare con il freno a mano tirato”, come anche lei conosca la paura che impedisce la parola e che induce a scegliere la strada della conformità, del convenzionalismo.

E’ la paura di “cadere fuori dalla società”, che la rende incapace di esprimere in modo autentico quando di tratta di dare voce al qui ed ora, al suo rapporto con la Repubblica Democratica Tedesca degli anni settanta. Inautenticità la sua, di cui è perfettamente consapevole.

 

Rimuovere i guardiani delle porte della coscienza: Schiller, che meglio di chiunque altro sapeva di che cosa parlava. Il grande e stratificato problema dell’autocensura. Bisogna scrivere in modo diverso. Il prosciugamento, l’inaridimento, tagliati dalle cosiddette fonti. Quando il desiderio, la necessità d’essere conosciuti è da temere più di qualsiasi altra cosa. Come se la sorveglianza e l’autospionaggio fossero una sofferenza esclusiva dello scrittore di professione, e non l’esperienza più comune e più generale dei contemporanei, di cui essi ormai quasi non si accorgono. E che molti negano addirittura, trovando altre motivazioni per l’apatia diffusa che è difficile negare.”[96]

 

I guardiani delle porte della coscienza sono espressione del bisogno di essere conosciute, un bisogno che può obbligare ad uniformarsi a quelle che sono regole già dettate, imposte da altri. Per essere letti si finisce allora con l’aderire a ciò che esclude la propria esperienza, imbavaglia i propri sentimenti.

Attraverso la narratrice, Christa Wolf rivela, del resto, d’essere ben consapevole dei pericoli di colei/ colui che esercita la sua professione, quella di scrivere. In ogni momento potrebbero apparire “gli uomini vestiti in grigio” a ricordarle su cosa e come deve scrivere per avere successo assicurato.[97]

Nel corso del testo si assiste, dunque, ad un continuo tentativo di affrancarsi dai codici simbolici dominanti nella speranza di per poter finalmente dire e scrivere non solo ciò che è stato ma anche ciò che è.

Nell’ottavo capitolo, ad esempio, l’autrice, attraverso la narratrice, si ferma a riflettere sul doppio significato che la parola “mediare” assume. Si legge:

 

(..)La descrizione del passato – qualunque cosa possa essere questo ammasso di ricordi che continua a crescere – in uno stile oggettivo non riuscirà. Il doppio senso della parola “mediare” Mediare scrivendo tra il presente e il passato, porsi nel mezzo. Significa: conciliare? Mitigare? Attutire? Oppure: avvicinare l’uno all’altro? Rendere possibile l’incontro tra la persona di oggi e quella del passato per mezzo della parola scritta?[98]

 

Viene qui ribadito come la descrizione del passato implichi simultaneamente apertura sul presente, poiché il tempo non è esperibile secondo uno schema di naturale linearità; in esso convivono, infatti, diverse dimensioni temporali ed esistenziali. Già nelle prime righe del romanzo si sottolinea come l’epoca attuale sia il prolungamento nell’oggi del passato, il passaggio da un luogo temporale ed esistenziale definito ad uno in cui sembra essere possibile la mediazione se è vero, come afferma Ingeborg Bachmann in Frankfurter Vorlesungen che “solo quando le frasi di un tempo spariscono, troviamo la lingua per quel tempo e la rappresentazione diventa possibile”.[99] Paradossalmente, però, è proprio tale possibilità a porre il problema della mediazione. Gli stereotipi del nazionalsocialismo sono, infatti, scomparsi ma le difficoltà della mediazione sono, per l’autrice, ancora vive, poiché porsi tra passato e presente può significare, per lei, mitigare, conciliare, attutire.

Ora, mediare abbandonando quello che è lo stile oggettivo è considerato una forma di presunzione. E’ questo che, ad esempio, afferma il fratello Lutz, il quale le rimprovera, infatti, di volere ricondurre troppo a se stessa la storia, di farsi passare come personalmente coinvolta.[100] Bisogna essere “lucidi”, afferma Lutz, ma la sua è una lucidità che, come sottolinea la narratrice, nasce dal disimpegno, dal non voler essere partecipe, tipica di coloro che in realtà dormono per non doversi accorgere di se stessi e del mondo, riuscendo così a non lasciarsi mai cogliere dalla sensazione d’essere colpevoli. La narratrice, al contrario, sa perfettamente che “è senz’altro superiore alle forze di un essere umano vivere oggi e non diventare complice”.[101] Anche la scrittura è messa sotto accusa. Significativamente l’autrice scrive:

 

Dove sono i tempi in cui i sommessi evocatori dell’imperfetto potevano far credere a se stessi e agli altri che erano loro a dispensare la giustizia. Oh il tempo in cui colui che scrive deve esibire la ferita della propria ingiustizia, prima di passare a descrivere le ferite degli altri.[102]

 

Tornano le paure, le incertezze riguardanti il ruolo del narratore, meglio dell’autore di prosa che, in qualità di “sommesso evocatore dell’imperfetto”, sembra narrare con distacco un’esperienza superata. Poi però osserva:

 

Ammesso che sia vero che l’ultimo manoscritto di Pablo Neruda sia stato rubato, niente e nessuno al mondo sarebbe stato in grado di compensare tale perdita. Sicchè improvvisamente il diritto di riempire di righe la pagina bianca e vuota diventa un imperativo un dovere, che si lascia dietro ogni altro imperativo..[103]

 

Scrivere diventa un dovere anche quando si tratta di mettere sul tappeto cose sulle quali sembra sia stato detto tutto nel momento in cui si ha la consapevolezza di dover abbandonare ciò che è stato convenuto, nel momento in cui si sente il desiderio di dover lavorare simbolicamente su ciò che continua a provocare “uno sconvolgimento dell’anima”.[104] Come Georg Büchner. Come Pablo Neruda. Si sa con certezza, quindi, che lo stile oggettivo, rivendicato dal fratello Lutz, è inservibile perché negando la dimensione soggettiva, non permette di veicolare ciò che sconvolge l’anima. Per questo è percepito come falso. Si avverte, quindi, la necessità di attingere ad un nuovo tipo di linguaggio, uno stile nuovo.

Ora, era nella prosa e nelle liriche di Ingeborg Bachmann che Christa Wolf aveva trovato l’esempio di quello che diventa un impegno fondamentale anche per lei: divenire vedente, rendere vedente, partendo da sé, dalla propria esperienza, cercando di sostenerla contro l’avvilente predominio delle frasi vuoti, insignificanti, impotenti. [105] Nella Bachmann l’autrice riconosceva lo sforzo di chi ogni volta si impegna a riconquistare una sovranità perduta per sottomissione, sforzandosi di ritrovare il fascino per la parola precisa, capace di mediare la realtà, senza mai comunque cercare di ripeterla o sostituirla.

Nell’ottobre del 1973, nel periodo di stesura dell’ottavo capitolo di Trama d’infanzia, la Wolf vede la fine di “Ondina”, la scrittrice della quale lei da tempo apprezzava la serietà con cui faceva uso delle parole. Ingeborg Bachmann muore tra le fiamme e lei, Christa Wolf, sembra perdere la fiducia di dire, di proseguire. Ma dopo un breve barcollamento, si risolleva con una certezza:

 

Si deve parlare. Si deve raccontare del viso grigio cenere del padre e dei motivi che rendono per tanto tempo il numero cinque qualcosa di minaccioso, come un gancio da macelleria..[106]

 

E’ questa frase una delle tante tracce scritte di un dialogo ininterrotto che l’autrice conduce con l’opera della scrittrice austriaca, su cui di continuo ritorna, ribadendo, puntualizzando, aggiustando il tiro.[107] Sembra, infatti, rispondere all’invito che Bachmann faceva nel saggio Literatur als Utopie contenuto all’interno di Frankfurter Vorlesungen. Qui, infatti, l’autrice austriaca sottolineava come fosse necessario lavorare duramente con “la cattiva lingua” per poter arrivare a quella lingua che non ha mai davvero governato istituzionalmente, ma che comunque orienta l’intuizione e che continuamente ci si sforza di imitare. Una lingua, quella su cui Ingeborg Bachmann rifletteva, che per lei era presente allo stato di “frammento” nella letteratura, dove la vedeva materializzarsi magari solo in una riga, in una scena. Per questo dunque la scrittrice austriaca poteva affermare: “Vale la pena continuare a scrivere”. Era chiaramente uno sforzo, una fatica costante quella di I. Bachmann. Nel 1953 esponeva, infatti, nel saggio radiofonico Il Dicibile e L’indicibile la Filosofia di Ludwig Wittgenstein, la tesi del filosofo, secondo la quale ciò di cui si può parlare non ha valore, e di ciò in cui risiede valore non si può parlare.[108] Attraverso la celebre affermazione di Wittgenstein, che invitava a tacere su ciò di cui non si può parlare, Bachmann intendeva mostrare non tanto una sua convinzione, quanto piuttosto il suo conflitto che nasceva dalla tensione esistente tra l’imperativo della scrittura e il senso di impotenza di fronte ad una lingua incapace di esprimere le connivenze tra realtà esteriore ed interiore. La sua forza stava nel riconoscere comunque in questo senso d’impotenza il sintomo dell’inevitabilità del segno letterario.

Christa Wolf, in conflitto con la scrittura, dialogando ancora idealmente con Bachmann, afferma:

Di ciò di cui non si può parlare, bisogna a poco a poco smettere di tacere.[109]

 

Ora, nell’ottobre del 1973, sembra sia davvero possibile provocare, scrivendo, la ritirata della paura. Ma non è così.

Nel corso dei restanti capitoli si assiste alla crescita dell’incapacità di “toccare simbolicamente” la realtà. Incapacità sulla quale l’autrice, attraverso la narratrice, continuamente riflette, mostrando chiaramente come essa scaturisca anche da una “impossibilità storica”. All’interno del capitolo diciassette, il penultimo, si legge infatti, come “nell’epoca della diffidenza” non esista alcuna parola sincera“perché la persona che parla sinceramene dipende da colui che vuole ascoltarla con sincerità, e perché la persona cui l’eco delle sue parole arriva distorta, passa la voglia di essere sincera.” [110] Non ci si può fare nulla. L’eco con cui l’autrice sa di dover fare i conti, quello dei codici dominati del suo presente, diventa per lei una risonanza che vibra nelle sue parole più sincere. Non può più dire “con esattezza” ciò che vive, ciò che ha vissuto.

Viene meno, dunque, quella che potrebbe essere definita la “base sociale” della concezione della “autenticità soggettiva”, formulata nel saggio Leggere e Scrivere. Là, infatti, l’autrice aveva affermato come il “ nuovo modo di scrivere” potesse trovare una profonda concordanza solo con un movimento sociale che operasse per l’autorealizzazione dell’individuo, movimento che lei vedeva realizzato nella società socialista.

Nel capitolo finale si osserva come “la zona morta” dentro di lei si sia espansa, ingigantita:

 

(Il tempo corre. Quattro, cinque anni che sono entrati a precipizio in questi fogli, alla cieca, ti sembra certe volte. Quattro , cinque anni in cui ti sembra che la zona morta dentro di te si sia espansa, incurante dei tuoi tentativi di frenarne la crescita. Il numero delle abitudini è aumentato senza sosta. La tendenza alla conformità. Lo sforzo di vivere opponendoti a questa tendenza, ti si disegna sul viso. Il viso senile che si sta preparando. Un’espressione che indica come le perdite inevitabili non siano sopportate senza resistenza. Il buon motivo dello sfinimento senza fondo che il sonno sembra non cancellare. Chi sapeva che, guardandosi indietro, non si sarebbe diventati statue di pietra. Che cosa resta: anche se non illesi, anche senza aver salvato la pelle, pur tuttavia si è fuori da questa faccenda. ).[111]

 

Sofferente per la mancanza di libertà di sé scrittrice all’interno della R.D.T. nel 1975, nelle righe conclusive del testo Christa Wolf non esprime alcun giudizio circa l’esito del suo lavoro. Lascia una riposta aperta.

 

E il passato, che poteva ancora disporre di regole grammaticali e scindere la prima persona in una seconda e n una terza – la sua egemonia è spezzata? Si calmeranno le voci?

Non lo so. [112]

 

Il libro, però, nel suo complesso ha dato una risposta negativa.

Il desiderio di scrivere liberare parole “autentiche” non trova spazio in Trama d’infanzia. Non si è ancora raggiunta quella regione dalla quale sarebbe stato possibile parlare in modo nuovo. Quel terreno, che si credeva di avere sotto i piedi, è ancora sconosciuto.

 

Come scriveresti avendo la certezza di morire tra due anni?  La risposta non è fatta per tranquillizzarti. Esiste solo l’alternativa tra tacere e ciò che Ruth e Lenka chiamano “pseudo”. ( Falso, inautentico, insincero, non vero) ? Neghi che sia così, di notte. Ti immagini: la sincerità non come un isolato atto di forza, ma come obiettivo, come processo con possibilità di avvicinamento, a piccoli passi, ad un terreno ancora sconosciuto da cui sarebbe nuovamente possibile parlare in modo nuovo e oggi ancora inconcepibile, con facilità e libertà, apertamente e lucidamente, di ciò che è; quindi anche di ciò che è stato. Dove perderesti l’abitudine devastante di non dire esattamente quello che pensi, di non pensar esattamente quello che senti e realmente intendi. E di non credere a te stessa, nemmeno per le cose che hai visto. Dove le pseudo-azioni, i pseudo-discorsi che ti minano diverrebbero superflui, e al loro posto subentrerebbe lo sforzo di essere esatti.. (“ciò che puoi ancora sperare, rinascerà sempre”.) Come regredisce la paura, se solo si comincia a pensarci, come si dissolve il brutto presentimento che pesto di mancheranno le parole, lasciando il posto al piacere. Il piacere di parlare e, se possibile e se necessario, di tacere. [113]

 

L’immagine che si ha, focalizzando l’attenzione sulla “ dimensione dell’autrice”, è a mio avviso quella espressa dall’autrice stessa nel passo sopraccitato.

Il suo sforzo di dire parole autentiche si delinea, nel corso del testo, come un estenuante tentativo d’avvicinamento ad un nuovo modo di scrivere. Come il tentativo di superare i limiti del dicibile, limiti contro i quali lei, decide, però, alla fine di non ribellarsi più. [114]

Ora, se i limiti del dicibile, a cui l’autrice fa riferimento, fossero i limiti del linguaggio, la rinuncia alla ribellione sarebbe positiva, perché ciò significherebbe guadagnare il “coraggio dell’attesa”, che aiuta a non forzare la nuova realtà esperita all’interno di un linguaggio, che non la comprende.

Qui però i limiti del dicibile non sono i limiti del linguaggio, non sono i limiti della parola, sono i limiti di ciò che è possibile dire nella misura in cui è lecito, permesso farlo.

Non sono i limiti dettati dalla lingua in sé, ma quelli imposti dalla censura e dall’autocensura. Limiti che non liberano, ma imprigionano.

 

CONCLUSIONI

E’ facile talvolta per una lettrice leggere la scrittrice amata, svincolandola dalla sua realtà storica, ed interpretare le sue parole alla luce di un “presente astorico”, quello esclusivamente soggettivo, personale, intimo. E’ così che i libri sembrano diventare i diari di chi non sa scrivere e ama leggere.E’ così però che si finisce per misconoscere la forza politica dirompente del testo del quale ci si appropria, consumandolo.

 

Rileggere Christa Wolf tenendo come coordinata guida quella del presente, considerare prima e a fondo la sua realtà e poi la sua parola, mi ha permesso di scoprire come all’interno dell’opera della Wolf i limiti del dicibile siano presenti sia nel positivo significato di paziente attesa, di fiducia, (limiti del linguaggio) sia in quello propriamente negativo d’incapacità di dire, di articolare un pensiero, (limiti della censura).

Essere arrivata ad affermare questo rappresenta per me, oggi, un guadagno non solo “scientifico” ma anche soggettivo: quello di un distacco che non allontana.

 

Nel corso della mia riflessione sulla produzione letteraria di Christa Wolf, in particolare fino al fino al 1976, ho potuto osservare che, così come il rapporto dell’autrice con la realtà è espressione visibile del passionale gioco che viene a crearsi tra la necessità di conservare e il bisogno di rinnovare di trasformare, tra “aufbewahren” e “ erneuern”, anche il suo rapporto con la lingua con la potenzialità simbolica (linguaggio) e la reale possibilità/impossibilità di dire sia espressione di una simile tensione. Una tensione che presuppone, comunque, fedeltà e fiducia.[115] Christa Wolf non ha mai desiderato, a differenza di molti altri scrittori e scrittrici, abbandonare la Repubblica Democratica Tedesca. Non ha mai pensato ad emigrare né fisicamente, né “simbolicamente”, cercando magari asilo in una lingua straniera.

Credo, quindi, che gran parte dell’opera di Christa Wolf possa essere ricondotta ad una frase di Böll che l’autrice riprende nel corso di una conferenza tenuta il sette dicembre 1997 a Berlino in occasione di una manifestazione organizzata dalla fondazione Heinrich Böll.[116]

“ Alla ricerca di una lingua abitabile in un paese abitabile”. [117]

Ricerca duplice, sofferta, che le è stata, comunque, possibile perché non presupponeva un’opera di “demolizione”né politica né simbolica. Si trattava di un “amorevole” cercare, fatto di ascolto, profonda comprensione dell’esistente, riflessione, elaborazione e graduale trasformazione. Non voleva smantellare la RDT, non voleva nemmeno de-costruire la lingua. Entrambe dovevano essere “conservate”, meglio custodite. Perché non erano loro ad essere sbagliate.

Per questo aveva consapevolmente scelto sia di vivere nella RDT, sia di continuare ad abitare fiduciosa la sua lingua materna, il tedesco.

Per questo, quando, anni dopo, assiste all’emorragia d’anime che abbandonano la RDT, alla perdita di parole non più pronunciabili nel suo tedesco, prova sconforto.

Nel corso degli anni il suo ruolo di “custode rinnovatrice” si è, infatti, progressivamente trasformato, assumendo il volto di quella “bambina della sera”, della quale lei parlava in “Riflessioni su Christa T.”. [118]

Non in grado di articolare appieno l’inquietudine che, nel suo presente, la scuote, scrive ora rivolgendosi al passato (Trama d’infanzia- Recita estiva), ora retrocedendo nella storia tedesca alla ricerca delle origini del proprio disagio (Nessun Luogo. Da nessuna parte),ora calandosi nel mito (Cassandra, Medea).

Contrapporre al silenzio “la voce dell’attesa”.

 

Sapevo già dall’inizio come desideravo concludere le mie riflessioni. Volevo tornare su quella relazione bellissima che per anni ha accompagnato Christa Wolf. Quella con Anna Seghers, sua maestra.

Christa ha scritto molto su Anna. In occasione del centesimo anniversario della sua nascita avrebbe dovuto tenere un discorso all’accademia delle arti. Ma non voleva, non se la sentiva e casualmente, dimentica a casa il testo della sua relazione. Sul podio si alternano diversi scrittori Peter Härtling, Kerstin Hensel, Volker Braun.

Alla fine anche lei decide di parlare. E il suo discorso diventa un autoritratto. Parlando di Anna Seghers riesce a parlare di sé. Riconoscimento e distacco.

Al centro del dibattito c’era la questione riguardante l’estraneità della Seghers, lo sradicamento da lei vissuto nella Germania del dopoguerra, quando nessuno conosceva, leggeva i suoi libri.

Per lei, allora, non c’era il pubblico giusto- dice la Wolf. La sua decisione per la RDT per il partito era incrollabile, irremovibile, perché lei temeva di perdere ancora una volta la patria che lei stessa aveva scelto. Il prezzo, che per questo ha pagato, è stato molto alto: „Sie ist ihrem Lied auf die Kehle getreten”, – ha strozzato il proprio canto, dice Christa Wolf..

Ora, Anna Seghers rappresentava un percorso intellettuale che Christa Wolf non può più percorrere. Nel conflitto tra fedeltà ed autonomia Anna sceglie la rigida, intransigente disciplina del partito.

Christa Wolf, una generazione più tardi, ci ha mostrato una strada diversa.

Non si è fatta zittire, ma ha trovato la forza di dire, comunque, denunciando sempre apertamente i limiti del suo procedere simbolico, le perdite, la mancanza di incisività. Mostrandosi in ricerca.

Ci ha fatto ascoltare e conoscere la “voce che attende la parola autentica”, mostrandocene la fatica, e, talvolta, il fallimento.

La sua produzione letteraria testimonia tutto questo. Questo rimane. E in questo risiede la forza politica della sua scrittura.

 

Bibliografia

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C.Wolf, L’ombra di un sogno- prose poesie lettere di Karoline von Günderrode, (Milano, La Tartaruga, 1984).

  1. Wolf, Guasto – notizie di un giorno, (Roma, edizioni e/o, trad. di A. Raja,1987).
  2. Wolf, Premesse a Cassandra, (Roma, Edizioni e/o, trad. di A. Raja,1993).
  3. Wolf, Sotto i tigli, (Roma, edizioni e/o, trad. di A. Raja,1995).

Il volume è la raccolta e traduzione curata da Anita Raja di sei racconti scritti da Christa Wolf nell’arco di dodici anni, tra il 1960 e il 1972. In ordine cronologico i racconti sono: Dienstag, der 27. September (1960). Juninachmittag (1965), Unter den Linden (1969), Blickwechsel (1970), Neue Lebensansichten des Katers Murr (1972), Selbstversuch (1972)

  1. Wolf, Pini e sabbia del Brandeburgo- saggi e colloqui, (Roma, edizioni e/o, 1990).

Il volume è raccolta e traduzione di dodici testi dell’autrice originariamente apparsi, ad eccezione dell’ultimo, in Christa Wolf, Die Dimension des Autors, 2 voll. (Berlin-Weimar, Aufbau-Verlag, 1986). L’ultimo brano presente Il Discorso di ringraziamento per il premio Fratelli Scholl era stato precedentemente pubblicato in, Christa Wolf, Ansprachen, (Darmstadt, Luchterhand, 1988).

Nell’edizione italiana curata da Maria Teresa Mandalari appaiono i seguenti testi:

Leggere e scrivere, pp. 17-48;-Pretesa di verità (la prosa di Ingeborg Bachmann), pp. 49-60;-Inquietudine e coinvolgimento (Colloquio con Joachim Walther), pp. 61-78;-Autenticità soggettiva (Colloquio con Hans Kaufmann), pp. 79-104;-Pini e sabbia del Brandeburgo (Colloquio con Adam Krzeminski), pp. 105-114;-E va bene! Però la vita futura comincia oggi (Una lettera su Bettina), pp. 115-144;-Parlare di Büchner (Discorso di Darmstadt), pp. 145-156;-La Pentesilea di Kleist, pp. 157-170;-Malattia e rifiuto d’amore (Domande alla medicina psicosomatica), pp. 171-188;-Discorso di Vienna, pp. 189-190;-Discorso di ringraziamento per il premio fratelli Scholl, pp. 191-196.

  1. Wolf, Questo non ce l’hanno insegnato – Fa male sapere, in, AA.VV., Dall’est, (Roma, edizioni e/o, trad. it. di Anita Raja, 1990), pp. 7-85.
  2. Wolf, Nel cuore dell’Europa – conversazione con Anna Chiarloni, (Roma, edizioni e/o, trad. it. di Anita Raja, 1992).
  3. Wolf, Congedo dai fantasmi, (Roma, edizioni e/o, trad. it. di Anita Raja, 1995).

I testi riuniti in Congedo dai fantasmi sono tratti da Auf dem Weg nach Tabou. Texte 1990-1994, una raccolta di una trentina tra saggi, discorsi, racconti, lettere ed appunti di diario scritti dalla Wolf in occasioni diverse nel periodo tra il 1990 e il 1994. Si va dal discorso tenuto a Berlino il 4 Novembre 1984 sull’Alexanderplatz, alla conferenza su “cancro e società” tenuta a Brema nel 1991, dalla corrispondenza con Günter Grass, Jürgen Habermas e Volker Braun ai saggi su Grace Paley, Friederike Mayröcker o Nuria Quevedo.

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  2. Woolf, Le tre ghinee, (Milano, Feltrinelli,1992).
  3. Zamboni, Il linguaggio della poesia, il linguaggio del corpo, in, “Luna e l’altro”, supplemento al n.16 “ Nuova DWF”, (primavera 1981), pp. 73-81.
  4. Zamboni, La filosofia donna – percorsi di pensiero femminile, (Verona, Demetra, 1997).

3  Studi monografici sull’opera omnia di Christa Wolf.

  1. Buehler, The death of socialist realism in the novels of Christa Wolf, (Frankfurt a. M., Peter Lang, 1984).
  2. Chiarloni, Christa Wolf, (Torino, Tirrenia, 1988).
  3. Dröscher, Subjektive Authentizität: zur Poetik Christa Wolfs zwischen 1964 und 1975, (Würzburg, Königshausen u. Neumann, 1993).
  4. Hilzinger, Christa Wolf, (Stuttgart, Metzler, 1986).
  5. Hörnigk, Christa Wolf, (Göttingen, Steidl, 1989).
  6. Love, Christa Wolf: Literature and the conscience of History, (New York, Peter Lang, 1991).
  7. Pak, Probleme der Utopie bei Christa Wolf: Überlegungen zu “Kein Ort. Niergends” und “Kassandra”, (Frankfurt a. M., Peter Lang, 1989), pp.1-130.
  8. Renoldner, Utopie und Geschichtsbewubtsein. Versuche zur Poetik Christa Wolfs, (Stuttgart, akademischer Verlag Hand- Dieter Heinz, 1981).
  9. Schuler, Phantastische Authentizität: Wirklichkeit im Werk Christa Wolfs, (Bern, Peter Lang, 1988).
  10. Von Salisch, Zwischen Selbstaufgabe und Selbstverwirklichung. Zum Problem der Persönlichkeitsstruktur in Christa Wolfs, (Stuttgart, Klett, 1975).
  11. Wilke, Ausgraben und Erinnern: zur Funktion von Geschichte, Subjekt und geschlechtlicher Identität in den Texten Christa Wolfs., (Würzburg, Königshausen u. Neumann, 1993).

4  Studi monografici e volumi collettivi su “Nachdenken über Christa T.”

  1. Behn (ed.), Wirkungsgeschichte von Christa Wolfs “Nachdenken über Christa T.”, (Königstein/ts, Athenäum Verlag, 1978).
  2. Drescher, Dokumentation zu Christa Wolfs “Nachdenken über Christa T.”, (Hamburg-Zürich, Luchterhand, 1991).
  3. und H. Mauser, Christa Wolf: Nachdenken über Christa T., ( München, Fink, 1987).
  4. Thomassen, Der lange Weg zu uns selbst: Christa Wolfs Roman “Nachdenken über Christa T.” als Erfahrungs – und Handlungsmuster, (Kronberg/ts: Scriptor, 1977).

5  Articoli, saggi tratti da riviste, atti accademici, volumi collettivi sulle opere di Christa Wolf .

  1. Adams, Christa Wolf: Marxismus und Patriarchat, in, M. Jurgensen (ed.), Frauenliteratur. Autorinnen, Perspektiven, Konzepte, (Bern; Frankfurt a. M., Lang, 1983), pp. 122-137.
  2. Adams, Christa Wolf und die Vergangenheit, in, M. Jurgensen, Wolf. Darstellung, Deutung, Diskussion, (Bern, Franke, 1984), pp. 77-86.

G.E. Bahr, Blitz aus heiterm Himmel. Ein Versuch zur Emanzipation in der DDR, in, W. Paulsen, Die Frau als Heldin und Autorin. Neue kritische Ansätze zur deutschen Literatur, (Bern, Francke. 1979), pp. 223-236.

  1. Brett, “Tacit knowledge” in “der geteilte Himmel” und “ Nachdenken über Christa T.”, in, “Colloquia Germanica”, 17: 3-4, (1984), pp. 257-264.
  2. Böll, Wo habt ihr blob gelebt?, in, K. Sauer, Christa Wolf. Materialenbuch, (Darmstadt, Luchterhand, 1983), pp. 7-14.
  3. Chiarloni, La prosa nella RDT. Christa Wolfs “Kindheitsmuster”, Aion, “Studi Tedeschi”, XX-3, (1977), pp. 175-183.
  4. Chiarloni, Dall’imitazione alla crisi. La donna nella letteratura della RDT, in, AION, “Studi Tedeschi”, XXII-1, (1979), pp. 47-61
  5. Dahlke, Nicht Glück oder Unglück, sondern Unglück und Glück ist hier die Frage. Eine Polemik für Christa Wolfs “Geteilten Himmel”, in, K. Jarmatz (ed.), Kritik in der Zeit. Der Sozialismus, seine Literatur, ihre Entwicklung, (Halle, Mitteldeutscher Verlag, 1970), pp. 652-671.
  6. D’Angeli, “ Riflessioni su Christa T.”: la difesa della letteratura, in, Gruppo la Luna, Letture di Christa Wolf, (Torino, Rosenberg & Sellier, 1988), pp.15-23.
  7. Drescher, In der blauen Höhle. Mutter- und Tochter-Beziehungen in den Büchern von Christa Wolf, in, M. Vanhelleputte (ed.), Christa Wolf in feministischer Sicht: Referate eines am 7. und 8. Dezember 1989 an der “Vrije Universiteit Brussel” veranstalteten Kolloquiums, (Frankfurt a. M., Peter Lang, 1992), pp. 135-144.
  8. Durzak, Ein exemplarisches Gegenbeispiel. Die Romane von Christa Wolf, in M. Durzak, Der deutsche Roman der Gegenwart, (Stuttgart, Kohlhammer, 1971), pp. 250-273.
  9. Eifler, Materialistische Blickpunkte ihrer Romantikdarstellung, in M. Jurgensen, Wolf. Darstellung – Deutung – Diskussion, (Bern-München, Franke, 1984), pp. 89-106.
  10. Emmerich, Der Kampf um die Erinnerung (Kindheitsmuster), in, K. Sauer, Christa Wolf. Materialenbuch, (Darmstadt, Luchterhand, 1983), pp. 115-120.
  11. Fehervary, Christa Wolf’s prose: A landscape of Masks, in, M. Sibley Fries(ed.), Responses to Christa Wolf: Critical Essays, (Detroit, Wayne State UP, 1989), pp. 162-185.
  12. Gargani, I conti mancati di Christa, in, Gruppo la Luna, Letture di Christa Wolf, (Torino, Rosenberg & Sellier, 1988), pp. 24-31.
  13. Gargano, Il mitologema dell’individualità collettiva nella scrittura di Christa Wolf, in , “Studi Tedeschi”, XXVIII, (1985), pp. 423-443.
  14. Gargano, Ingeborg Bachmann e Christa Wolf: la “menzogna del racconto”, in, “Studi Germanici”, XXI-XXII, (1983-1984), pp. 303-311.
  15. Gidion, Christa Wolfs “Nachdenken über Christa T.”. Wiedergelesen nach fünfundzwanzig Jahren, in, “Text+Kritik”, n. 46 (quarta edizione), (1994), pp. 59-67.
  16. Graves, The Erosion of Hope, or: What remains of Christa Wolf?, in, A. Goodbody, D. Tate (ed.), Geist und Macht. Writers and the state in the Gdr, (Amsterdam, Rodopi, 1992), pp. 129-139.
  17. Greiner, Die Schwierigkeit, “ich” zu sagen: Christa Wolfs psychologische Orientierung des Erzählens, in, “Deutsche-Vierteljahrsschrift-für-Literaturwissenschaft-und-Geistesgeschichte”, 55:2, (luglio 1981), pp. 323-342.
  18. Greiner, “Mit der Erzählung geh ich in den Tod”: Kontinuität und Wandel des Erzählens im Schaffen von Christa Wolf, in , W. Mauser (ed.), Erinnerte Zukunft: 11 Studien zum Werk Christa Wolfs, (Würzburg, Königshausen u. Neumann, 1985), pp. 107-140.
  19. Gutjahr, “Erinnerte Zukunft”: Gedächtnisrekonstruktion und Subjektkonstitution im Werk Christa Wolfs, in, W. Mauser (ed.), Erinnerte Zukunft: 11 Studien zum Werk Christa Wolfs, (Würzburg, Königshausen u. Neumann, 1985), pp. 53-80.
  20. Haase, Nachdenken über ein Buch, in, “Neue deutsche Literateratur”, H.4, (1969), pp. 174-185.
  21. Heidelberger-Leonard, Literatur über Frauen=Frauenliteratur? Zu Christa Wolfs literarischer Praxis und ästetischer Theorie, in, “Text+ Kritik”, n. 46 (quarta edizione), (1994), pp. 129-139.
  22. Herminghouse, “Phantasie oder Fanatismus? Zur feministischen Wissenschaftkritik in der Literatur der DDR, in, U. Brandes (a cura di), Schriftstellerinnen der DDR aus amerikanischer Sicht, (Berlin, Peter Lang, 1992), pp. 69-94.
  23. Herminghouse, “Der Autor nämlich ist ein wichtiger Mensch”. Zur Prosa, in H. Gnüg. R. Möhrmann (a cura di), Frauen Literatur Geschichte. Schreibende Frauen vom Mittelalter bis zur Gegenwart, (Stuttgart, Metzler, 1985), pp. 338-352.
  24. Hilzinger, “Als ganzer Mensch zu leben.” Emanzipatorische Tendenzen in der neuren Frauen-Literatur der DDR, (Frankfurt a. M., Peter Lang, 1985), pp.10-65.
  25. Hilzinger, Weibliches Schreiben als eine Ästhetik des Widerstands. Über Christa Wolfs “Kassandra”-Projekt, in, A. Drescher, Ein Arbeitsbuch. Studien Dokumente Bibliographie, (Frankfurt a. M., Luchterhand, 1990), pp. 216-232.
  26. Huyssen, Auf den Spuren Ernst Blochs. Nachdenken über Christa T., in,. K. Sauer (ed.), Christa Wolf. Materialenbuch, (Darmstadt u. Neuwied, Luchterhand, 1983), pp. 99-115.
  27. Kaufmann, Irmtraud Morgner, Christa Wolf und andere. Feminismus in der DDR-Literatur, in, “Text+Kritik”, Literatur in der DDR. Rückblicke, (München, 1991), pp. 109-116.
  28. Kaufmann, La letteratura femminile degli anni ’70 nella Germania Orientale, in “Nuova DWF”, n. 18, (autunno 1981), pp. 95-101.
  29. Kaufmann, “..schreiben, als ob meine Arbeit noch und immer wieder gebraucht würde.” Überlegungen zur Utopie bei Christa Wolf, M. Vanhelleputte (ed.), Christa Wolf in feministischer Sicht: Referate eines am 7. und 8. Dezember 1989 an der “Vrije Universiteit Brussel” veranstalteten Kolloquiums, (Frankfurt a. M., Peter Lang, 1992), pp. 23-32.
  30. Kähler, Christa Wolfs Elegie, in, “Sinn und Form”, 21, ( 1969), pp. 251-261.
  31. Knipp, Wirklichkeitsaneignung in der Spannung zwischen “Anpassung” und “Sich-Verlieren”. Christa Wolfs “Nachdenken über Christa T.”, in, W. Knipp, Zum Verhältnis von Individuum und Gesellschaft in ausgewählten Romanen der DDR-Literatur. Anmerkungen zum sozialistischen Menschenbild, (Köln, Pahl-Rugenstein, 1980), pp. 358-396.
  32. Jackman, “Wann, wenn nicht jetzt?” Conceptions of time and history in Christa Wolf’s Was bleibt und Nachdenken über Christa T., in, “German Life and Letters”, 45:4, (ottobre 1992), pp. 358-375.
  33. Jäger, Die Grenzen des Sagbaren. Sprachzweifel im Werk von Christa Wolf, in , K. Sauer, Christa Wolf. Materialenbuch, (Darmstadt, Luchterhand, 1983), pp. 143-162.
  34. Jurgensen, Deutsche Frauenautoren der Gegenwart. Bachmann, Reinig, Wolf, Wohnmann, Struck, Leutenegger, Schwaiger, (Bern, Franke, 1993), pp. 81-121.
  35. Lennox, “Der Versuch, man selbst zu sein”. Christa Wolf und der Feminismus in, W. Paulsen, Die Frau als Heldin und Autorin, (Bern, Francke, 1979), pp. 217-222
  36. Lennox, Christa Wolf and Ingeborg Bachmann: Difficulties of Writing the Truth, in, M. Fries Sibley (ed.), Responses to Christa Wolf: Critical Essays, (Detroit, Wayne State UP, 1989), pp. 128-148.
  37. Longo, “Riflessioni su Christa T.” di Christa Wolf, (Foggia, Associazione culturale La merlettaia).
  38. McGauran, “Gebrochene Generationen”: Christa Wolf and Theodor Storm, in, “German Life and Letters”, 31:4, (1977-1978), pp. 328-335.
  39. McPherson, Female Subjectivity as an impulse for Renewal in Literature, in, M. Sibley Fries(ed.), Responses to Christa Wolf: Critical Essays, (Detroit, Wayne State UP, 1989), pp. 149-161.
  40. McPherson “Der Himmel teilt sich zuallererst”- Weltanschauliche Wandlungen bei Christa Wolf von den fünfziger zu den sechziger Jahren, in, A. Goodbody, D. Tate (ed.), Geist und Macht. Writers and the state in the Gdr, (Amsterdam, Rodopi, 1992), pp. 46-57.
  41. Marx, Die Perspektive des Verlieres – ein utopischer Entwurf, in, W. Mauser (ed.), Erinnerte Zukunft: 11 Studien zum Werk Christa Wolfs, (Würzburg, Königshausen u. Neumann, 1985), pp. 161-179.
  42. Mauser, “Gezeichnet zeichnend”. Tod und Verwandlung im Werk Christa Wolfs, in, W. Mauser (ed.), Erinnerte Zukunft: 11 Studien zum Werk Christa Wolfs, (Würzburg, Königshausen u. Neumann, 1985), pp. 181-205.
  43. Mellini, Storia di una giovinezza, in, Gruppo la Luna, Letture di Christa Wolf, (Torino, Rosenberg & Sellier, 1988), pp.49-58.
  44. Meyer-Gosau, Lebensform Prosa. Eine Wegbeschreibung von der “Moskauer Novelle” zu “Was bleibt”, in, “Text+ Kritik”, n. 46 (quarta edizione), (1994), pp. 23-34.
  45. Mitscherlich-Nielsen, Gratwanderung zwischen Anspruch und Verstrickung, in, A. Drescher, Ein Arbeitsbuch. Studien Dokumente Bibliographie, (Frankfurt a. M., Luchterhand, 1990), pp. 114-120.
  46. Mohr, Produktive Sehnsucht, “Basis”, 2, (1971), pp. 191-234.
  47. Nagelschmidt, Frauenliteratur der DDR. Das Nachdenken über uns, in, R. Bernhardt (a cura di), Gibt es weibliches Schreiben?Schriftstellerinnen in Schweden und der DDR. Wissenschaftliche Beiträge der Martin – Luther- Universität Halle-Wittenberg, (Halle, Universität Halle-Wittenberg, 1991), pp. 33-42.
  48. Nagelschmidt, Schreiben wider das Verdrängen. Vom Aufbruch der Frauen in der Literatur nach 1968, in, M. Brückner.B. Meyer, Die sichtbare Frau. Die Aneignung der gesellschaftlichen Räume, (Freiburg, Dresgin, 1994), pp. 149-175.
  49. Nägele, The writing on the wall, or bejond the dialectic of subjectivity, (The Quest for Christa T.), in, M. Fries Sibley (ed.), Responses to Christa Wolf: Critical Essays, (Detroit, Wayne State UP, 1989), pp. 248-256.
  50. Nemeth, Scrittura come ricerca di realtà. Sul concetto di soggetto in Christa Wolf, in, D. Corona (a cura di), Donne e Scrittura, (Palermo, La Luna, 1990), pp.87-96.
  51. Paul, Text and Context – Was bleibt 1979 – 1989, in, A. Goodbody, D. Tate (ed.), Geist und Macht. Writers and the state in the Gdr, (Amsterdam, Rodopi, 1992), pp.117-128.
  52. Peretti, Christa T.: la memoria, l’utopia, in, Gruppo la Luna, Letture di Christa Wolf, (Torino, Rosenberg & Sellier, 1988), pp. 38-48.
  53. Piccoli, Due cespugli di biancospino, in, Gruppo la Luna, Letture di Christa Wolf, (Torino, Rosenberg & Sellier, 1988), pp. 7-14.

W.H. Rey, Von der Friedensmission der Frau.- Die Entfaltung romantischer Emanzipationstendenzen in den theoretischen Schriften Christa Wolfs, in, “Orbis Litterarum”, 44, (1989), pp. 106-127.

  1. Rocchi, Versione Wolf. Intervista ad Anita Raja, in, “Nuova DWF”, n. 23/24, (1985), pp. 176-177.
  2. Sauer, Der lange Weg zu sich selbst. Christa Wolfs Frühwerk, in , K. Sauer, Christa Wolf. Materialenbuch, (Darmstadt, Luchterhand, 1983), pp.82-98.
  3. Secci, La questione femminile nella letteratura della Repubblica Democratica Tedesca, in “Nuova DWF”, n. 18, (autunno 1981), pp. 49-94.
  4. Violett, Nachdenken über Pronomina. Zur Entstehung von Christa Wolfs “Kindheitsmuster”, in, A. Drescher, Ein Arbeitsbuch. Studien Dokumente Bibliographie, (Frankfurt a. M., Luchterhand, 1990), pp. 101-113.
  5. Wallace, The Politics of confrontation: The Biermann Affair and its Consequences, in, A. Goodbody, D. Tate (ed.), Geist und Macht. Writers and the state in the Gdr, (Amsterdam, Rodopi, 1992), pp. 68-80.

H.D Weber., “Phantastische Genauigkeit”: Der historische Sinn der Schreibart Christa Wolfs, in, W. Mauser (ed.), Erinnerte Zukunft: 11 Studien zum Werk Christa Wolfs, (Würzburg, Königshausen u. Neumann, 1985), pp. 81-106..

  1. Wohlfahrt, Der ungestaltete Abgrund. Sprachvertauen und Sprachmibtrauen im Werk von Christa Wolf, in, “Text+ Kritik”, n. 46 (quarta edizione), (1994), pp. 100-113.
  2. Wolter, Maxie Wander e la letteratura documentaria., in “Nuova DWF”, n. 18, (autunno 1981), pp.85-94.
  3. Zahlmann, Kindheitsmuster: Schreiben an der Grenze des Bewubtseins, in, W. Mauser (ed.), Erinnerte Zukunft: 11 Studien zum Werk Christa Wolfs, (Würzburg, Königshausen u. Neumann, 1985), pp. 141-160.
  4. Zanasi, Christa Wolf: la traccia dei fatti e la curva della scrittura, in, “ Studi Tedeschi”, XXV, (1982), pp. 435- 472.

[1]              C. Wolf; Leggere e scrivere, in C. Wolf, Pini e sabbia del Brandeburgo – Saggi e colloqui, Roma, edizioni e/o, 1990, pag. 17

[2]              Il prefisso inseparabile “ver” oltre ad indicare deterioramente ( esempio spielen= giocareà verspielen = perdere al gioco) può accentuare l’intensità dell’azione espressa dal verbo, intensità che porta per lo più ad un cambiamento di stato.

[3]              Un assai dettagliato e sintetico curriculum, riguardante gli anni precedenti il 1955, si trova in, H. Vinke, (ed.), Akteneinsicht Christa Wolf- Zerspiegel und Dialog, (Luchterhand, Hamburg, 1993), pag. 39-41.

[4]              „Der Kandidat ist für operative Zwecke von großen Nutzen, da sie in der Lage ist, uns Informationen über einzelne Schriftsteller zu geben, die durch ihre nicht die Kulturpolitik unserer Partei und Regierung unterstützen oder bürgerlichen Tendenzen unterworfen sind. Hinsichtlich des Kampfes gegen die ideologische Diversion auf dem Gebiet der Literatur ist sie abwehrmassig von großen Nutzen.„.  H. Vinke, op. cit., pag. 75.

[5]              H. Vinke, op. cit., pag. 94

[6]              “Die Kandidatin machte einen ruhigen, gefassten Eindruck. Sie gab klare umfassende Auskünfte, wobei besonders bei den  Fragen um …… sie alles genau und ausführlich berichtete. Diese gegebenen Antworten stimmen genau mit unseren Ermittlungen überein, sodass unser Eindruck hinsichtlich der Ehrlichkeit der Kandidatin bestätigt wurde”.  H. Vinke, op. cit., pag. 90

[7]              C. Wolf, Eine Auskunft, in, H. Vinke, op. cit., pag. 144.

[8]              Denn gerade die Hallenser Jahre waren eine wichtige Etappe in der Entwicklung meiner kritischen Haltung, besonders zu Kulturpolitik der DDR: Ich hatte die ersten Auseinandersetzungenen im Schriftstellerverband, meine Einstellung zum XXI Parteitag der KpdSU wurde in der Parteizeitung “Freiheit” öffentlich kritisiert. Dies alles steht nicht in der mir bekannten Akte, die nur wenige Blätter enthält, aber in dieser Zeit muss die Stasi Behörde eingesehen haben, da¢ sie sich in mir geirrt hatte.„ C. Wolf, ibidem.

[9]              „Das waren die fünfziger Jahre auch: eine Zeit heftiger Diskussionen. Dogmatismus? Ja. Wenn du die Zeitungen jener Jahre nachliest, dir können die Haare zu Berge stehen. Man muss sich ja vorstellen, dass die Verdikte gegen Künstler und Kunstwerke, die in der Zeitung standen, damals ernst genommen wurden, oft auch von den Betroffenen selbst, und für die Beschuldigten Folgen hatten. Anderseits gab es Versammlungen, in denen die Leute sagten, womit sie nicht einverstanden waren. Und wir Jungen waren in alles verwickelt. Wir nahmen Anteil, es war unsere Sache. Wir waren in einer Stimmung übersteigerter Intensität, alles, was ‘hier und heute’ geschah, war entscheidend, das Richtige musste sich bald und vollkommen durchsetzen., wir wurden den Sozialismus, den Marx gemeint hatte, noch erleben. Auf der einen Seite Einübung in nüchternes, kritisches, analytisch-dialektisches Denken, auf der anderen eine Art Heilsgewissheit, wenige Jahre lang.

[10]            “Der Begriff ‘sozialistischer Realismus’ wurde 1934 von Maxim Gorki geprägt, der sich dabei auf Äuberungen der marxistischen Klassiker bezog. Auf dem ersten sovietischen Schriftstellerkongreb 1934 wurde er als Grundprinzip der Kunst in einer sozialistischen Gesellschaft proklamiert. Walter Ulbricht legte dieses Grundprinzip auf der zweiten Parteikonferenz im Juni 1952 einem verpflichteten Programm für das ‘Kulturschaffen’ in der DDR zugrunde. Markierungspunkte bilden die erste und zweite Bitterfelderkonferenz von 1959 und 1964, wo die Prinzipien des sozialistischen Realismus weiterentwickelt und speziell für die Literatur konkretisiert wurden”. C. Thomassen, Der lange Weg zu uns selbst: Christa Wolfs Roman “Nachdenken über Christa T.” als Erfahrungs- Handlungsmuster, (Krongberg/Ts., Scriptor-Verlag, 1977), p. 15, nota n. 2.

[11]                                                                                                                                          Una ripresa della funzione che, secondo Lenin, era propria dell’arte. Lenin scriveva in “Parteiorganisation und Parteiliteratur”:

“….gestaltend mitzuwirken bei der Entfaltung der sozialistischen Menschengemeinschaft, bei der Verwirklichung einer neuen Stufe des Sozialismus. Das bedeutet für die Kunst, teilzunehmen an der Ausprägung des geistigen Antlitzes der sozialistischen Persönlichkeit, an der Entfaltung des sozialistischen Bewusstseins, der weltanschaulich-ethischen Werte und der Schönheitsvorstellungen der neuen Gesellschaft, da gerade die Kunst es mit ihren spezifischen Mitteln vermag, auf jene komplexe weise die Gedanken und Gefühlswelt der Menschen zu beeinflussen, auf die es benahe der allseitigen Formung der sozialistischen Persönlichkeit ankommt. Die Wirkung der sozialistischen Kunst im Gesellschaftsganzen beruht in erster Linie darauf, einen unersetzbaren Beitrag zur Ausbildung der Haupttriebkraft der gesellschaftlichen Entwicklung, zur ständigen Übereinstimmung der gesellschaftlichen und persönlichen Interessen zu leisten”

[12]            G. Buhler scrive a questo proposito: “ While Western literaure perceives its role as the pursuit and depiction of the essence of the human condition, the primary function of literature in the GDR is that of promoting the ideals and policies espoused by the political infrastructure.(…)As a result, literature in the GDR is not perceived as an independent entity by most political leaders, but rather as an ancillary tool of the state.

[13]              T. Hörnigk, Gespräch mit Christa Wolf, loc. cit., pag. 20.

[14]            C. Wolf, Nachdenken über Christa T, pag. 34

[15]            “Diese Zeit ist Ihr Element, selbstverständlicher Lebenshintergrund, ihnen angewachesen wie ihre Haut”.  C. Wolf, Moskauer Novelle, , (Mitteldeutscher Verlag, Halle, 1962), pag. 54.

[16]            C. WolfMoskauer Novelle, op. cit., pag. 54

[17]            C. Wolf, Moskauer Novelle, op. cit., pag. 13

[18]            Con l’espressione “giuste domande” intendo “domande sincere”.

[19]            “Die Grenzen des Sagbaren” è  concetto positivo, perché apre la strada alla possibilità della lingua di mediare e rendere visibile la realtà . Io, qui, ne faccio uso stravolgendolo, mettendolo in negativo, aderendo qui, soltanto qui, quindi a quella critica miope che sempre vedrà in esso il fallimento di ogni tentativo di rielaborazione e di mediazione perché qui il non volersi ribellare contro i limiti del dicibile significa accettare, per spirito di adattamento, che l’“essenziale”. Christa Wolf sta, infatti, contrattando sul reale con l’ ordine simbolico dominate, che esclude la sua esperienza.

[20]            Molteplici sono i riferimenti alla questione della censura e dell’autocensura nell’opera di Christa Wolf, diretti, (in dialoghi e conferenze) indiretti (all’interno dei suoi testi) Scelgo un esempio indiretto a me particolarmente caro: “Die Wahrheit ist: wir hatten anders zu tun. Wir nämlich waren vollauf damit beschäftigt, uns untastbar zu machen, wenn einer noch nachfühlen kann, was dass heißt. Nicht nur nichts fremdes in uns aufnehmen – und was alles erklärten wir für fremd!- , auch im eigenen Innern nichts Fremdes aufkommen lassen, und wenn es schon aufkam – ein Zweifel, ein Verdacht, Beobachtungen, Fragen-, dann doch nichts davon anmerken lassen. Weniger aus Angst, obwohl viele  auch ängstlich waren, als aus Unsicherheit, eine Unsicherheit, die schwerer vergeht als irgend etwas anders, was ich kenne”. C. Wolf, Nachdenken über Christa T., op. cit., pag. 53 (Cfr. Raddatz; Die ängstliche Margherete )  Nel discorso di ringraziamento per il conferimento del premio “Fratelli Scholl” tenuto nel novembre del 1987 Christa Wolf sottolinea espressamente questa condizione:

“A me sembra che a molti appartenenti alla mia generazione – di formazione differenziata, a seconda delle diverse proposte e condizionamenti tra est ed ovest – sia rimasta, dalle precedenti impronte ricevute, la tendenza all’inquadramento e alla subalternità, l’abitudine alla funzionalità , alla credula fede nell’autorità, alla mania del conformismo; ma soprattutto la paura della contraddizione e della resistenza, della conflittualità con la maggioranza e dell’esclusione del gruppo.” E’ stato difficile per noi diventare adulti, conquistare autonomia ed indipendenza, e un comportamento sociale nel senso migliore”. C. Wolf, Discorso di ringraziamento per il premio fratelli Scholl a Monaco, in ,C. Wolf, Pini e sabbia del Brandeburgo, (Roma, edizioni e/o, 1990), p. 192

[21]            „Die Parteilichkeit des Autors erschöpft sich nicht in der ideologisch richtigen Aussage, in der intellektuellen Erkenntnis, sondern verlangt gerade vom Künstler, dass er auch gefühlsmäßig, mit seinem ganzen Wesen, in Sympathie und Abneigung auf der richtigen Linie steht (..) Große realistische Literatur entsteht wenn Gefühl Und Verstand des Schriftstellers fähig sind, tief und richtig seine Zeit zu erfassen und sich aus der Wirklichkeit die Maßstäbe für ein künstlerisches Schaffen zu nehmen.“

Passo citato in K. Sauer, Der lange Weg zu sich selbst. Christa Wolf Frühwerk, loc. cit., p. 85.

[22]            C. Wolf, Die Dimension des Autors, Essays und Aufsätze, Reden und Gespräche 1959-1985, (Darmstadt, Luchterhand, 1987), pag. 463-503; pag. 773-805.

[23]            „Jeder Mensch weiß, dass in der Wirklichkeit sehr viel >passiert<. Unter anderem passieren auch menschliche Tragödien; unsere Literatur ignoriert sie, weil sie >nicht typisch< seien; denn typisch sei nur das Positive! Auf diese Weise lassen unsere Schriftsteller, gerade unsere jüngeren Schriftsteller, die in unserem neuen Leben ihr Stoff finden, um einer falsch verstandenen Definition willen und aus Angst vor genau so falsch orientierten Verlagslektoren, ihre Leser allein, die ja von ihnen auch wissen wollen, wieso denn heute noch Menschen durch eigene oder fremde Schuld zugrunde gehen oder schwere Fehler einzelner Funktionäre großen Schaden anrichten wollen.“ C. Wolf, Komplikationen, aber keine Konflikte. (Zu Werner Reinowkis: Diese Welt muss unser sein), in, Neue Deutsche Literatur, 6/1954, s. 142; passo citato anche in K. Sauer, Der lange Weg zu sich selbst. Christa Wolf Frühwerk, loc. cit., p. 85.

[24]            Sauer ribadisce come simili affermazioni non debbano essere sopravvalutate. Ne evidenzia la non originalità spiegando come,  “vieles von dem, was Christa Wolf damals formuliert hat, berührt sich aufs engste mit den Ausführungen, die Anna Seghers auf den Schriftstellerkongressen jener Jahre zur Entwicklung der DDR-Literatur gemacht hat. Wo sich in der Nuance Unterschiede ergeben, da rühren sie von der größeren Nähe Christa Wolfs zu den Selbstverständigungs- und Arbeitsproblemen der jüngeren Autorengeneration her.” K- Sauer, loc. cit., pag. 86.

Non ha senso per me parlare di non originalità delle affermazioni dei Christa Wolf, adducendo come prova il fatto che simili affermazioni erano state ribadite pubblicamente da Anna Seghers. Non ha senso perché l’originalità non ha come unico termine di riferimento l’essere primo rispetto agli altri, alle altre. Originale ha per me qualcosa a che fare con origine e origine con autenticità . La Wolf poteva ripetere affermazioni della Seghers ma in questo essere originale, nella misura in cui le sue parole erano espressione dell’unione tra Verstand e Gefühl. Erano in altre parole in armonia con l’origine, con il pensiero che non nasce collettivo, ma personale e soggettivo.

[25]            „ „Erstlingswerk”! – Übrigens gibt es das überhaupt nicht. Immer noch frühere Versuche in immer noch jüngeren Jahren fallen einem ein, von halb und dreiviertel ausgeführten Roman- und Dramenplänen über Tagebücher, politische und private Gelegenheitsdichtungen, gefühlgesättigte Briefwechsel mit Freundinnen bis hin zu den Märchenerfindungen und dreisten Lügengeschichten für den praktischen Verbrauch – jene lebenswichtige Vorformen naiver Kunstausübung, deren Entzug für das Kind verheerende Folgen hätte und aus deìnen das Bedürfnis wachsen kann, sich schreibend auszudrücken.“.C. Wolf, Uber Sinn und Unsinn von Naivität, in, C. Wolf, Die Dimension des Autors, (Luchterhand, Berlin, 1990), Band 1, pag. 43.

[26]            C’è una differenza radicale infatti  tra reale e realtà ed è proprio riflettendo sulla differenza che emerge tra  le parole della realtà e quelle del reale che si può riconoscere una dimensione politica ai suoi testi. Sulla differenza bellissima tra reale e realtà scrive anche Chiara Zamboni nel saggio su Francoise Dolto, presente in “Le parole non consumate” . A pagina 53 ci regala una citazione tratta da un testo di Dolto. Fracoise Dolto diceva che “In effetti noi siamo presi in trappola dalla realtà e dalle sue ripetizioni, sulle quali si articola la nostra ragione logica, che ci nasconde il Reale, che sorge in un momento imprevisto.

 

[27]            C. Wolf-H. Böll, Fraternità difficile, Roma, edizioni e/o, 1999, p. 22

[28]            C. Wolf, Leggere e Scrivere, in, C. Wolf, Pini e Sabbia del Brandeburgo, op. cit. pag. 42

[29]            „Goethes Faust und Schillers Dramen zeigen in ihren Inhalt die engen Beziehungen des Dichters zu seiner Gegenwart und zeugen von den tiefen historischen Kenntnissen, über die die beiden größten unserer klassischen Literatur verfügten. Ist es nicht heute erst recht notwendig, dass die Schriftsteller in den vordersten reihen derjenigen sind, die das Neue der Gesellschaft verkünden und den Kampf gegen das Alte, überlebte, Verfaulte, Dekadente führen? In unserer Republik haben sich neue Gesellschaftliche Beziehungen der Menschen entwickelt. Aber wo gibt es einer solchen Darstellung dieser Entwicklung in künstlerischer Form, wie sie die Klassiker des Bürgertums über die Entwicklung ihrer Klasse im Kampf gegen die feudale Gesellschaft gestaltet haben?“.

Walter Ulbricht, citato in, Georg Bühler, The death of Socialist Realism in the Novels of Christa Wolf, Peter Lang, Frankfurt am Main 1984, pag. 98

[30]            Cfr. Ingebor Gerlach: Bitterfeld. Arbeiterliteratur und Literatur der Arbeitswelt in der DDR. Scriptor, Kronberg/TS. 1974

[31]            Georg Bühler, The death of Socialist Realism in the Novels of Christa Wolf, Peter Lang, Frankfurt am Main 1984, pag. 96

 

[32]            C. Wolf, martedì 27 Settembre, in , C. Wolf, Pini e Sabbia del Brandeburgo, pag. 32

[33]            C. Wolf, martedì 27 Settembre, in , C. Wolf, Pini e Sabbia del Brandeburgo, pag. 32

[34]            C. Wolf, Autenticità soggettiva, Colloquio con Hans Kaufmann, in C. Wolf, Pini e sabbia del Brandeburgo, pag. 102

[35]            C. Wolf, Il cielo diviso, Edizioni E/O, Roma, 1992, pag. 7

[36]            C. Wolf, Il cielo Diviso, op. cit. , pag. 8

[37]            C. Wolf, Il Cielo diviso, op. cit., pag. 16.

[38]            C. Wolf, Il cielo diviso, op.cit., pag. 20.

[39]            C. Wolf, Il cielo diviso, op.cit., pag. 63

[40]            C. Wolf, Il Cielo diviso, op. cit. pag. 90

[41]            Che è successo?- chiedeva lei a Meternagel. “ Ch’è successo? Cose normali. Quel che doveva succedere. Quando nessuno si sente responsabile e ciascuno fa soltanto i propri affari nel proprio angolino, e questo avviene fin su alla dirigenza, allora da molte piccole porcate deve nascere un giorno la porcata grossa. Succede allora che l’amministrazione del materiale non ne sappia un acca della produzione avviata, quindi il materiale non è stato programmato, e quindi anche il settore tecnologico non è pronto e nessuno sa quello che deve fare. FA in modo allora che un paio di aziende fornitrici si inceppino, come accade adesso, ed ecco che il pranzo è servito.”. C. Wolf, Il Cielo diviso, op. cit. pag. 63

Solo Rolf Meternagel , un membro della brigata Ermisch, combatte instancabile per incrementare la produttività del suo gruppo e per questo viene odiato. Incurante di questo insegue il suo obiettivo, il suo sogno, spinto da un senso del dovere, un senso morale e di reale convinzione politica. E’ consapevole dello spreco di tempo lavorativo degli operai Sa molto bene che la sospensione del lavoro per carenze nell’organizzazione lavorativa è solo la metà delle ore vuote. A lui interessa l’altra metà. Per questo, un giorno, porta con sé un foglio bianco

                Impegno, lessero tutti. Invece che otto telai di finestrini, ciascuno di loro doveva installarne dieci al giorno. “E non mi raccontate che questo non è possibile.”

“Tante cose sono possibili”,- disse Franz Melcher. “Soltanto smerlare la propria casa, questo è impossibile per un individuo normale.” “Che cosa intendi per normale” chiese Herbert Kuhl rapidamente. Rita cedette di scorgere nei suoi occhi una favilla di autentico interesse, che però subito si spense. “Che cosa è normale?” – chiese Rolf Meternagel(…). “Te lo dirò io. Normale è quello che giova a noi, quello che fa di noi degli esseri umani. Anormale è quello che ci rende leccaculi, impostori e gregari, quali siamo stati per un tempo abbastanza lungo. Ma tu non lo capirai mai, tu sottotenente.”.

Ma il foglio, l’invito e la sfida lanciata da Meternagel non vengono colti perché gli uomini della brigata non hanno alcun interesse a lavorare per qualche astratta causa politica.

[42]            Era stato quel suo amico “ a costringerlo a diventare più simile all’immagine che, in mala fede, aveva disegnato di lui”. C. Wolf, Il Cielo Diviso, op. cit,pag. 153.

[43]            Ad un party organizzato Manfred compie la sua scelta. Viene qui informato che il suo progetto, la Spinn –Jenny, la macchina con il congegno per risucchiare il gas discarico perfezionato è stato respinto. Ne viene, infatti, preferito un altro, che proviene dall’azienda e porta evidenti segni d’immaturità. E Manfred capisce: “Non avevano più bisogno di lui. C’erano evidentemente delle persone capaci di annientare con un solo colpo di penna le grandi speranza di un uomo. Tutte quelle chiacchiere sulla giustizia non erano che chiacchiere”. C. Wolf, Il Cielo Diviso, op. cit., pag. 134.

Era stato sul punto di lasciarsi catturare dal vortice del “grande movimento storico”.  MA non gli sarebbe capitato mai più. Rita è partecipe alla muta decisione di Manfred. DA un angolo della sala lo osserva e crede di vederlo per la prima volta.

“Era dunque la prima volta che lei lo vedeva? No, certo. Eppure chi non sa quanto sia difficile vedere colui che veramente si ama? In quei pochi secondi, Manfred fu per lei fu sospinto dalla indefinita vicinanza a una distanza che consente di scrutare, di misurare, di giudicare. Si dice che tale istante inevitabile sia la fine dell’amore. Ma non è che la fine dell’incantesimo. Uno dei molti istanti per cui l’amore deve tener testa. (….) Negli occhi di lui, elle lesse la decisione di non fare più affidamento su nulla. E lui lesse nello sguardo di lei la risposta: mai e poi mai ammetterò una cosa simile”. C. Wolf, Il Cielo Diviso, op. cit., pag. 137.

[44]            C. Wolf, Il Cielo Diviso, op. cit., pag. 158

[45]            “- Stringare!- gridò Mangold. Occorreva stringare ogni domanda per arrivare al nocciolo delle contraddizioni! Questa era la prassi politica, disse”. C. Wolf, Il Cielo Diviso, op. cit., pag. 159.

“-Zuspitzen!- rief Mangold. Man müsse doch jede frage zuspitzen, um an den Kern der Widersprüche zu kommen! Das sei parteimäßig. „  C. Wolf, Der geteilte Himmel, op. cit , pag. 157.

[46]            C. Wolf, Il Cielo Diviso, op. cit., pag. .227.

[47]            C. Wolf, Il Cielo Diviso, op. cit., pag. 228.

[48]            Per Manfred la sensibilità è un vizio che necessita d’essere estirpato. A Rita dice, infatti;

“Alle parsone sensibili io posso consigliare soltanto di togliersi il vizio della sensibilità. Del resto non bisogna drammatizzare la cosa. Ascolta un po’, non si tratta certo di una nuova scoperta: i giovani si tuffano a capofitto nella vita con ideali un pochino stravaganti, vengono a contatto con la ruvidezza del mondo, in modo brusco naturalmente, portano confusione in vecchie e forse anche consolidate situazioni, ricevono botte in testa, due-tre – quattro volte. Non è mica un divertimento. Bisogna tirar dentro la testa. Ecco tutto. Che c’è di nuovo in tutto questo?”- C. Wolf, Il  cielo Diviso, op. cit. pag. 117.

[49]            Nella critica dei primi anni dopo la pubblicazione, il racconto ha avuto giudizi positivi e negativi. Da parte della SED è stato riconosciuto come adempimento del programma del VI congresso del partito della SED anche se venivano indicate la mancanza della totalità della vita e della lacune nella rappresentazione della Repubblica Democratica Tedesca. Varie volte è stato rivelato che Christa Wolf avrebbe dovuto scegliere la forma del romanzo invece che del racconto perché proprio le figure positive come i comunisti Schwarzenbach Wendland non avevano trovato lo spazio necessario per una loro raffigurazione appropriata ( Ma gli attacchi più rigorosi riguardano l’evolversi della storia: la fine dell’amore tra Rita e Manfed, spiegabile per le opposte posizioni ideologiche dei due, dimostrerebbe che non si tratta di amore vero perché  “perché la forza della nostra società che trasforma tutto” avrebbe dovuto agire in modo diverso. Il fatto inoltre che l’autrice si soffermi su aspetti negativi sarebbe per taluni conferma della sua visione decadentistica del mondo.

Anche il trattamento decisamente negativo del partito viene contestato all’autrice

Gli operai del “Circolo operai scriventi di Halle” invece approvano il racconto, hanno però obiezioni contro il “Krankenbettprisma”, l’atmosfera malinconica dell’ospedale che caratterizza il libro. Alla fine della lunga discussione , condotta ne 1963 sul settimanale  “Freiheit” di Halle, interviene lo Schriftsteller verband” nella persona di Hans Koch per difendere l’autrice dai rimproveri di decadentismo

[50]            “La nuova fase introdotta nella Repubblica Democratica Tedesca dalla collettivizzazione dell’agricoltura, dallo sviluppo dell’economia socialista, dai progressi della produzione e del tenore di vita, è stata definita, nel nuovo programma della Sed approvato dal VI congresso del 15-21 gennaio 1963, la fase della ‘costruzione generale del socialismo’, ‘umfassender Aufbau des Sozialismus’. Doveva essere la fase in cui, superate le difficoltà che si imponevano nella costruzione del socialismo in presenza della lotta di classe, si sarebbe attuato il passaggio al comunismo. Il nuovo sistema comportava una decentralizzazione nei compiti di direzione economica e al tempo stesso una responsabilizzazione delle singole unità produttive. Esso sostituiva in pratica una pianificazione burocratica, diretta unicamente dall’alto ad una pianificazione articolata, che affidava l’esecuzione degli obiettivi generali del piano alle responsabilità delle singole aziende o dei singoli gruppi di aziende. Ciò significava stabilire un minimo di concorrenza tra le aziende, stimolandone l’emulazione in funzione del rendimento, del guadagno. In tal modo le aziende erano stimolate a tenere come punto di riferimento i costi di produzione e quindi di utilizzare le più ragionate e regionali tecniche di produzione.”. E. Collotti, Storia delle due Germanie 1945- 1968, (Torino, Einaudi, 1968), p. 836.

[51]            „Was Christa Wolf auf diesem Plenum erlebte und wogegen sie vergeblich Einspruch zu erheben suchte, wurde zur traumatischen Erfahrung für sie. Unmittelbar unter dem Eindruck des Plenums begann sie Nachdenken über Christa T. zu schreiben.“ A. Drescher, Dokumentation zu Christa Wolf “Nachdenken über Christa T.”, (Hamburg, Luchterhand, 1991), p. 9.

[52]            C. Wolf, Nel cuore dell’ Europa – conversazione con Anna Chiarloni, (Roma, edizioni e/o, 1992), p. 12.

[53]            C. Wolf, ivi, p. 12.

[54]            Angela Drescher ha pubblicato presso la casa editrice Luchterhand un’interessante documentazione che illustra il complicato iter cui fu sottoposto il manoscritto. Significativo è registrare l’opinione che Christa Wolf ha espresso a riguardo: “Du kennst meine Skrupel angesichts dieser Publikation, die im ungünstigen Fall, mit dem zu rechnen ist, (wieder nur) einer feulleitonistisch- moralisierenden Betrachtungsweise Vorschub leisten wird und der Bestätigung der vorgefabten Erwartungen. Bewubt ist mir auch die Begrenzheit manchen Dokuments als Beweisstück – besonders dann, wenn es (auch) zur Verschleierung von Tatbeständen angefertigt wurde, wenn es notwendig punktuell bleibt und eine Deutung der Motive der Handelnden nicht erlaubt.(…) Jüngere werden nicht mehr begreifen, dab die Auseinandersetzung um ein Buch in einer bestimmten Situation zum Exempel und Testfall werden konnte – Testfall auch für die Standhaftigkeit von Menschen, die, ohne dab sie hätten verhindern können, mit den für sie gefährlichen Vorgängen in Berührung kamen. Wie absurd die Konvulsionen des Apparats waren, der ein für ihn unverdauliches Objekt zu verarbeiten hatte, wurde ihnen meist nicht bewubt. Für einen heutigen Leser mub diese Dokumentation, wenn er sie zusammen mit dem Buch liest, auf das sie sich bezieht, zu einem makabren Kommentar werden. Die beiden Texten scheinen aus verschiedenen Welten zu kommen.”

  1. Wolf, Ein Brief (August 1991), in, A. Drescher, Dokumentation zu Christa Wolf “Nachdenken über Christa T.”, op. cit. , pp. 189-190.

[55]            “1.3.1967 Christa T. beendet. Warum schreibt man? Heftiger Wunsch alles noch einmal umzustürzen. >>Christa T<< wird nicht veröffentlicht werden, und das wird mich wieder treffen”. C. Wolf, Tagebuchauszüge zu “ Nachdenken über Christa T.”, in, A. Drescher, Dokumentation ..., op. cit., p. 193.

 

 

[56]            Angela Drescher non tralascia di sottolineare come un simile provvedimento veniva solitamente preso in caso di “äuberst problematiche Manuskripten”. A. Drescher, ivi, p. 10.

[57]            „ Die berechtigten Einwände würden sehr leicht zu wenig wünschswerten Verallgemeinerungen führen, ohne dass man ihnen von gefestigten Positionen aus begegnen könnte. Obwohl die Autorin wahrscheinlich nach dem Scheitern ihres dritten Werkes kaum wieder produktiv sein wird, können wir das Manuskript nicht akzeptieren.“ A. Drescher, ivi, p. 37.

[58]            „Er schlug mir vor, eine ganz andere Geschichte zu schreiben: Ein Mensch, eben Christa T., eine tragische Figur, die lange Zeit unter dem Druck ihrer Erlebnisse während der Zeit des Faschismus steht, schwer den Weg in unsere neue Gesellschaft findet (er sieht sie “kontaktarm”) und die, als sie sich so weit durchgedrungen hat, schließlich stirbt. Die Gesellschaft soll gegenüber dem Individuum auf jeden Fall recht behalten“. A. Drescher, ivi, p. 195.

[59]            „Muss noch ein Kapitel in Christa T. “machen”, über das ich mir noch nicht ganz klar bin:,“ Ein Hochreißer”, wie Gerd es nennt, gegen das Ende zu. Das schiebe ich seit Tagen weg, bis zu diesem Augenblick, da jeder Vorwand entfällt“. A. Drescher, ivi, p. 196.

[60]            „Die Gutachten über Christa Wolfs Buch, die zur Erteilung der Lizenz führen, sind zu überprüfen.”. A. Drescher, ivi, p. 57.

[61]            “Sagen wir klar: Christa T. stirbt an Leukämie aber sie leidet an der DDR. Was bleibt ist Kapitulation: Rückzug in einen windstillen Winkel des Arbeiter- und Bauernstaates, Flucht in den Alltag der Ehefrau und Mutter.” M. Reich-Ranicki, Christa Wolfs unruhige Elegie, in, M. Behn, Wirkungsgeschichte von Christa Wolfs “‘Nachdenken ueber Christa T”, op. cit., p. 62.

[62]            C. Wolf, Nel cuore dell’ Europa, op. cit., p. 20.

[63]            La data dell’edizione non coincide sempre con quella della distribuzione, almeno nella RDT. Talora i motivi sono di ordine politico e qualche volta si verificano dei veri e propri gialli editoriali: un certo numero di copie del romanzo di “scomodo” di Christopher Hein è stato distribuito con l’innocente copertina di un libro di avventure di Karl May, mentre l’edizione autorizzata è seguita a sei mesi di distanza. Talaltra i motivi sono di ordine tecnico: si dà la precedenza alla distribuzione nelle altre repubbliche socialiste o – per motivi di valuta – nei paesi occidentali. Tutto ciò crea una attesa da parte del pubblico impensabile in occidente.

[64]            Gli autori del volume  Sozialistischer Realismus – Positionen, Probleme, Perpektive scrivono infatti:

“Selbstverwirklichung des Menschen im Sozialismus wird als ein Zu-sich-selbst-Finden gestaltet, in dem die Verbindung von Individuellem und Gesellschaftlichem zu zerbrechen droht.”. M. Behn, Wirkungsgeschichte von Christa Wolfs “Nachdenken über Christa T.”,  op. cit., p. 96

[65]            „Wir kennen Christa Wolf als eine talentierte Mitstreiterin unserer Sache. Gerade deshalb dürfen wir unsere Enttäuschung über ihr neues Buch nicht verbergen. Wie auch immer parteilich die subjektiv ehrliche Absicht des Buches auch gemeint sein mag: So wie die Geschichte nun einmal erzählt ist, ist sie angetan, unsere Lebensbewubtheit zu bezweifeln, bewältigte Vergangenheit zu erschüttern, ein gebrochenes Verhältnis zum Hier und Heute zu erzeugen.- Wem nützt das?“. M.W. Schulz, Das neue und das Bleibende in unserer Literatur, in, M. Behn, ivi., p. 71.

[66]            La storia è molto semplice, esile. La morte di Christa T. – la diagnosi è di leucemia – induce la narratrice a ripercorrere con la memoria gli anni che vanno dal dopoguerra al 1963, ricostruendo così quella che Anna Chiarloni definisce “la scarna biografia dell’amica scomparsa”. La narratrice è non solo testimone oculare, ma anche compagna di classe, di studio, soprattutto amica. La loro è un’amicizia che continua anche dopo il matrimonio, quando, occasionalmente, tra le mille cose da sbrigare, si trova il tempo per incontrarsi. Volendo apparentemente conferire maggiore credibilità alla costruzione documentaria, la narratrice sottolinea come i suoi ricordi siano sostenuti non solo da testimonianze scritte di vario tipo, ma anche da colloqui avuti con Justus, il marito di Christa T., e una loro comune compagna di studi. Diciannove anni della vita di Christa ritornano.

[67]            C. Wolf, Riflessioni su Christa T., pag.

[68]            C. Wolf, Riflessioni su Christa T., pag. 167

[69]            C. Wolf, Riflessioni su Christa T., pag. 167

[70]            C. Wolf, Riflessioni su Christa T., pag. 178

[71]            C. Wolf, Che cosa resta, edizioni e/o, Roma, 1991, pag. 35

[72]            C. Wolf, Che cosa resta, edizioni e/o, Roma, 1991. pag. 35

[73]            Christa Wolf stessa, nel corso di una discussione sul libro,afferma che Trama d’infanzia riguarda anche il presente e non solo il passato nazionalsocialista perché , come lei afferma “Gegenwart ist ja nicht nur was heute passiert. Das wäre ein enger Begriff der Gegenwart. Gegenwart ist alles was uns treibt, zum Beispiel heute so zu handeln oder nicht zu handeln, wie wir es tun oder lassen.„. C. Wolf, Erfahrungsmuster, in, C. Wolf, Die Dimension des Autors, p. 808.

[74]            Dal punto di vista strutturale le due opere sono infatti simili. Il lavoro della memoria, come base del processo narrativo, implica in entrambi i testi, come afferma B. Greiner, “zur Sprache zu bringen , was unter den Forderungen des Bewubtseins als des Anwalts der Aubenwelt dem Vergessen anheim zu fallen droht”. B. Greiner, Die Schwierigkeit, “ich” zu sagen: Christa Wolfs psychologische Orientierung des Erzählens, in, “Deutsche-Vierteljahrsschrift-.für-Literaturwissenschaft-und-Geistesgeschichte”, 55:2, luglio 1981),p. 336

[75]            C. Wolf, Trama d’infanzia, (Roma, Edizioni e/o, 1997), p. 11.

[76]            C. Wolf, Trama d’infanzia, op. cit., p. 13.

[77]            C. Wolf, op. cit, p. 9.

 

 

 

[78]            Nonostante si tratti infatti di un romanzo “per così dire autobiografico”,[78]non è possibile narrare utilizzando la prima persona singolare. Si rischierebbe così di rimanere senza parole, bloccati nelle maglie di un linguaggio che non sa mediare quelle che, in Nachdenken über Christa T., l’autrice aveva definito “le molteplici possibilità dentro di noi”, le quali miravano a decostruire il concetto di identità concepito come “io”. Così come in Nachdenken über Christa T. la difficoltà di dire io non era segno di debolezza ma al contrario di forza, era “la grande speranza”, anche qui la polifonia alla quale si assiste è espressione del tentativo di essere se stessi, di conoscere se stessi senza amputare la memoria che di sé si ha.

[79]            C. Wolf, Trama d’infanzia, op. cit., p. 109.

[80]            C. Wolf, Trama d’infanzia, op. cit., p. 9.

Non potendo accettare il silenzio, sceglie infine di scrivere in terza persona. “Infine” non è avverbio scelto a caso. Dall’estate del 1971 al novembre del 1972 nascono infatti ben 33 progetti, “Entwürfe”, ai quali la narratrice non tralascia di fare riferimento in quella che risulta essere la versione finale.

Catherine Viollet, nel suo saggio Nachdenken über Pronomina. Zur Entstehung von Christa Wolfs <<Trama d’infanzia>>, realizza una approfondita analisi delle precedenti stesure, cercando di mostrare come effettivamente sia possibile scrivere un romanzo “autobiografico” “ohne das Pronomen ich zu gebrauchen”.

Nel corso del colloquio su Trama d’infanzia, al quale ho fatto riferimento nella nota precedente, si chiede alla scrittrice se abbia considerato la possibilità di scrivere il libro assumendo Nelly come narratrice. La risposta dell’autrice è illuminante: “Ja natürlich habe ich das überlegt. Ich habe vorhin gesagt, dab ich mehrere Anfänge habe, und davon sind die meisten in der Ich- Form. Und gerade das hat sich aus Gründen, die mir damals nicht einleuchten wollten, die ich auch gar nicht richtig verstand, immer wieder als Hindernis erwiesen, wirklich an die Sache heranzugehen. Natürlich verstehe ich jetzt ganz gut warum(…). Seit einem nicht auf den Tag genau, aber doch auf eine Zeitspanne genau anzugebenden Moment, ist man nicht mehr diese Person, habe ich nicht mehr das Gefühl, dab ich das war, die das gedacht, gesagt oder getan hat. Und das wollte ich mit der dritten Person ausdrücken, das heibt, ich mubte es, weil sich anders das Material mir nicht öffnete, wie ich durch Versuche erfuhr.” C. Wolf, Erfahrungsmuster, loc. cit., p. 814.

 

[81]            Nell’ottobre del 1972, in un colloquio con Joachim Walther Christa Wolf affermava: “A me sembra che, nella prosa moderna, l’autore sia tenuto a far partecipare il lettore al nascere della finzione e non a frapporre la finzione, come seconda realtà, davanti alla realtà. E’ d’altronde cosa di cui si discute con grande difficoltà perché assai poco di tutto questo accade consapevolmente. Un tale atteggiamento nei confronti dell’argomento de del lettore è ciò che da forma allo stile.” C. Wolf, Inquietudine e coinvolgimento- Colloquio con Joachim Walther., in C. Wolf, Pini e Sabbia del Brandeburgo, op. cit.,  p. 74

[82]            “Avevo sperimentato (….) che cosa significa dover narrare per superare; avevo vissuto la circostanza che il narratore (Ma questa parola è ancora adeguata? L’autore di prosa diciamo) può essere costretto a rinunciare alla rigorosa sequenza di vita, “ superamento”, scrittura e per amore dell’autenticità interiore a cui tende, a mettere in parole quasi senza attenuazione (ma la forma attenua sempre, è una delle sua funzioni) nel processo lavorativo il processo mentale e vitale in cui egli si trova, a fa cadere categorie artistiche, forme vuote nelle quali il materiale ancora grezzo, guidato ormai quasi inconsapevolmente dall’autore si riversa con terribile e inevitabile invadenza .”.  C. Wolf, Colloquio con Hans Kaufmann, in C. Wolf, Pini e sabbia del Brandeburgo, op. cit., pag. 83.

[83]            C. Wolf, Leggere e scrivere, in C. Wolf, Pini e Sabbia del Brandeburgo, op. cit., p. 20

[84]            C. Wolf, ivi, p. 28

[85]            C. Wolf, ivi, p.38

[86]            C. Wolf, ivi, p.44

[87]            E’ necessario ricordare che l’anno di stesura di Leggere e Scrivere è il 1968. Alle spalle l’esperienza dolorosa e dura della pubblicazione di Christa T. Dai passi del diario scritti in concomitanza alle vicende della pubblicazione del testo e che riguardano proprio il 1968 si desume che Christa Wolf non vedesse nella Repubblica Democratica tedesca la società che davvero si impegnasse per l’autorealizzazione del singolo, come al contrario affermava la propaganda di quegli anni.

[88]            C. Wolf, ivi, pag. 45.

[89]            C. Wolf, ivi, pag. 35.

[90]            “ (Evidente: questa ragazza, che continua a chiamarsi Nelly, si allontana invece di avvicinarsi a poco a poco. Ti chiedi che cosa deve accadere- che cosa è accaduto-, per spingerla a tornare indietro. ) C. Wolf,Trama d’infanzia, op. cit., p. 500.

[91]            C. Wolf, Trama d’infanzia, op. cit., p. 370.

[92]            “Nelly dunque: Un caso di maturazione precoce, con scarsa conoscenza di sé. Educata ed abituata a tirare sempre il freno di emergenza: rigore, coerenza, coscienza delle responsabilità, scrupolo. Si ignora che sogni possa vere fatto a quell’epoca. Non teneva in conto i sogni. In compenso si prendeva tragicamente su l serio, imparò a smetterla solo molto più tardi. ” C. Wolf, ivi, p. 429-430.

[93]            “Ha imparato, non si sa quando, che obbedire ed essere amati, sono la stessa cosa. ”. C. Wolf, ivi., p. 24.

[94]            “Nelly si rende conto che in lei c’è più di una bambina, una bambina la mattina, per esempio, e una bambina il pomeriggio. E la madre, la quale in uno dei suoi rari pomeriggi liberi prende per mano la bambina del pomeriggio tutta ben lavata per andare con lei in pasticceria, no ha la più pallida idea della bambina della mattina.”.  C. Wolf, ivi., p. 100.

[95]            E’ un episodio che si verifica nei primi anni di scuola che è importante ricordare perché fa luce su quel senso di estraneità che Nelly prova nei confronti della se stessa che gli altri vedevano. Si tratta di una scena scolastica. Un’aula come tante, alunni/e come tanti, intenti ad indovinare la risposta più opportuna per soddisfare la richiesta dell’insegnante, il signor Warsinski, che desidera “udire parole indicanti sentimenti”. Nelly propone la sua parola: “simulazione” quando invece avrebbe dovuto dire coraggio, valore, fedeltà. Simulazione è una parola deviante, una parola che esce dal codice delle parole preselezionate, parola però che corrisponde pienamente a ciò che lei sentiva. Era una parola della sfera dei sentimenti. Dei suoi. Il concetto di simulazione diventa determinate nei capitoli centrali del romanzo, quelli che vanno dal sette al dodici. Sono gli anni del ginnasio, il periodo in cui Nelly aderisce allo BDM. Si dice chiaramente infatti come Nelly abbia dovuto darsi da fare per prestare servizio presso la gioventù  hitleriana.. Il giorno in cui ha luogo la procedura per l’iscrizione, anche lei partecipa alla riunione serale e canta insieme agli altri ma prova imbarazzo, si sente a disagio e allora soffoca il disagio ridendo forte, troppo forte, quando anche la caposquadra scoppia a ridere. Si ride quando è la caposquadra a farlo. Ma non si ride soltanto, si ride forte, troppo forte. Cosa significa? E’ un ridere quello di Nelly che vuole cancellare un’inquietudine di fondo non solo davanti agli altri, ma anche davanti a se stessa. E’ un modo per soffocare quella parte di sé che non aderisce alla linea, quella parte che disturba perché “non essere in linea” significa essere sbagliati., quindi non essere amati. L’imbarazzo deve essere, perciò, annientato non solo attraverso una “Anpassung”, un processo di adattamento, ma attraverso una “Überanpassung”, una eccessiva sottomissione, indispensabile per assaporare, per assicurarsi quella che era una parola nuova: cameratismo.

[96]            C. Wolf, ivi, p. 280.

[97]            C. Wolf, ivi., p. 282.

[98]            C. Wolf, ivi, p. 204.

[99]            I. Bachmann, Frankfurter Vorlesungen: Probleme zeitgenössischer Literatur, in, I. Bachmann, Werke, vol. 4 : Essays, Reden, vermischte Schriften, Anhang, (München, R. Piper & Co., 1982), p. 185.

[100]           “ Lutz disse anche- durante la conversazione davanti allo stadio- che non aveva senso ricondurre troppo a se stessi la stoira. Era addirittura na forma di presunzione, farsi passare per coinvolto personalmente e cercare la forma adatta ad esprimere tutto ciò. Tu per contro – in preda alla ben nota tentazione di riepiegare sulle sue posizioni – gli obietti, anche se sempre più raramente che lui non è modesto, ma disimpegnato.” C. Wolf, ivi, p.230.

[101]           C. Wolf, ivi, p. 212.

[102]           C. Wolf, ivi, p. 213.

[103]           C. Wolf, ivi, p. 213.

[104]           C. Wolf, ivi, p. 160.

[105]           C. Wolf, Pretesa di verità- La  prosa di I. Bachmann, in C. Wolf, Pini e Sabbia del Brandeburgo, op. cit. , pag. 51.

[106]           C. Wolf, Trama d’infanzia, op. cit, p. 221.

[107]           Basta pensare all’utilizzazione “nel tempo” di uno stesso materiale bachmanniano, la poesia Erklär mir, Liebe, scomposta in frammenti in questo capitolo di Trama d’infanzia, ricordata nel saggio Der Schatten eines Traumes del 1978 quasi in parentesi accanto a Überall Liebe della Günderrode come uno dei due poli cronologici entro cui si tende l’analoga esperienza della propria infelicità, rimessa in gioco più tardi nelle Voraussetzungen einer Erzählung: Kassandra, dove è evidente come il progressivo stratificarsi delle esperienze e il sensibile modificarsi del “quadro ottico” abbia accelerato il processo di interrogazione e di problematizzazione, tanto che questo esempio di “precisissima indeterminatezza” e “chiarissima ambiguità”, “questa grammatica delle relazioni multiple” innesca un più generale, complesso meccanismo di riflessione su “univocità” e “ambiguità”, “determinatezza” e “indeterminatezza”.

[108]           I. Bachmann, Il Dicibile e L’indicibile la Filosofia di Ludwig Wittgenstein, in I Bachmann, Il Dicibile e l’indicibile, – Saggi radiofonici, (Adelphi, Milano, 1998) p. 61.

[109]           C. Wolf, Trama d’infanzia, op. cit., p. 22.

[110]           C. Wolf, ivi, p. 443.

[111]           C. Wolf, ivi, p. 474-475.

[112]           C. Wolf, ivi, p.503.

[113]           C. Wolf, ivi, p. 462.

[114]           “La notte vedrò- da sveglia o in sogno che sia – la sagoma di una persona che si trasforma incessantemente per ininterrotte mutazioni, e attraverso cui passano con naturalezza altre persone, adulti, bambini. Non mi sorprenderò affatto che questa sagoma possa essere un animale, un albero, addirittura una casa, dove chiunque lo volgia poss entrare e uscire. Semicosciente, assisterò a come la bella immagine da sveglia sprofonderà bnel sogno sempre di più in forme sempre nuove, non più catturabili con le parole che io credo di riconoscere. Sicura di trovare a l mio risveglio il mondo dei corsi solidi, mi abbandonerò all’esperineza del sogno, non mi ribellerò più contro i limiti del dicibile.”

  1. Wolf, ivi, p. 503

[115]           Christa Wolf non ha mai desiderato, a differenza di molti altri scrittori e scrittrici, abbandonare la Repubblica Democratica Tedesca. LA RDF non è stata mai una valida alternativa, non ha mai cessato di essere una “socialista”. Può risultare difficile capire, perché nonostante le costanti disillusioni, lei comunque, continuasse a sperare, perché nutrisse ancora fiducia nello stato nel quale viveva. Difficile se, non si considera, la forza della famiglia, delle relazioni amicali, la quotidianità. Era nel privato, infatti, che si condividevano le speranze. Leggendo ad esempio lo scambio epistolare tra Christa Wolf e Brigitte Reimann, che copre il periodo storico da me analizzato (1964.1973), si ha la possibilità di entrare in quella che era una quotidianità nella quale, forte, incredibilmente chiara era l’aria del rinnovamento, della trasformazione, ispirata dalla ricerca di una giusta vita. Era proprio su queste amicizie e relazioni che riposava la fiducia nella possibilità di h mondo migliore.Senza questa base sociale Christa Wolf non sarebbe stato in grado di sopportare i costanti confronti con quello stato che “non voleva ciò che lei desiderava”, non avrebbe mai nutrito fiducia paziente in una trasformazione, in un cambiamento. Per questo è superficiale il pensiero di chi ha voluto vedere in lei la “ Staatdichterin”. La scrittrice fedele alla linea del partito. Fedele lo è stata sempre. Ma la sua non era l’ottusa cieca e muta fedeltà che si rivolge ad una burocratica istituzione. Era più viva perché si nutriva di relazioni. Era la fiducia che nasceva da una riflessione sul reale, che nel privato veniva condivisa. Anche nell’ottobre 1989, dinnanzi alle migliaia di persone che abbandonavano la RDT, prima del crollo del muro di Berlino, anche allora in una lettera pubblica e nell’appello “Per il nostro paese” invitava i suoi concittadini a non andarsene, li invitava a restare per costruire un’alternativa davvero socialista alla Repubblica Federale Tedesca. Chiedeva la conservazione della RDT.

“Helfen Sie uns, eine wahrhafte demokratische Gesellschaft zu gestaltet, die auch die Vision eines demokratischen Sozialismus bewahrt– kein Traum, wenn Sie mit uns verhindern, dass er wieder im Keim erstickt wird. Wir brauchen Sie. Fassen Sie zu sich und uns, die wir hier bleiben wollen, Vertrauen“.

  1. Wolf, Im Dialog, (München, Luchterhand, 1994), pag. 170.

Allora in quel brevissimo momento storico sembrava davvero avverarsi l un sogno nutrito per anni; quello di un paese diverso, davvero nuovo,nel quale fosse finalmente possibile dire e agire liberamente.

[116]           C. Wolf, Heinrich Böll Fraternità difficile, (Roma, Edizioni e/o, 1999), pag. 25.

[117]           Un paese è abitato ed abitabile se in esso l’essere umano è in grado di dire apertamente, pubblicamente,ciascuno per quel che lo riguarda, la propria opinione, quella vera, senza lasciarsi intimidire e agendo sempre secondo coscienza. Questo nella RDT non era stato “insegnato”. Non era concesso. Christa Wolf ne era consapevole. Ha sempre sentito la necessità di “spremere da sé a goccia a goccia lo schiavo”. E lo ha fatto attraverso la scrittura, attraverso la lingua.

[118]           Cfr. pag. 37

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