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Cose dell'altro mondo

La Parrucchiera, la Sciamana e la Filosofa

Diario di viaggio in Africa attraverso donne, religioni e integralismi.

 

 

Affronterò il tema della religiosità femminile prendendo come spunto narrativo un viaggio in Africa (Kenja) fatto da tre amiche italiane, che chiamerò la Parrucchiera, la Sciamana e la Filosofa. Innanzitutto un breve ritratto delle tre compagne di viaggio, tutte e tre singles, di età compresa fra i quarantacinque e i cinquantacinque anni.

La Parrucchiera: questo è il suo lavoro, che la mette quotidianamente a contatto con donne; l’abitudine a prendersi cura del corpo, suo e di altre, la tiene lontana dalla divisione mente/corpo, che è stata imposta nella cultura occidentale, come è noto, da Descartes. Quanto a sé, cura il corpo, ma anche lo spirito: ha fatto un percorso di psicanalisi, si cura con la medicina omeopatica, legge testi della spiritualità orientale (fra le sue letture, c’è ad esempio quella dell’opera di Mère, compagna di Aurobindo).

La Sciamana è una psicanalista, che usa anche dei metodi di origine sciamanica appresi dagli indiani Seattle; induce per esempio i suoi pazienti ad identificarsi con un animale, per esprimere in questo modo una parte di sé. E’ una vegetariana convinta, che ha fatto del vegetarianesimo e dell’animalismo una specie di culto, secondo il quale la natura è buona, ma l’uomo, che ne è il cancro, l’ha corrotta. Cerca il divino nella natura, nella comunione con il tutto. La sua religiosità animalista passa attraverso il corpo e gli alimenti: anche nel suo caso, c’è sicuramente un corpo che non viene separato dalla mente, dall’anima.[1] Ma il suo fanatismo si rivela nell’insistenza con cui cerca di convertire chiunque al vegetarianesimo, tenendo continue prediche che, anziché convertire, fanno nascere feroci resistenze in chi la ascolta; inoltre, il suo credo la porta a odiare tutti coloro che non lo condividono.

La Filosofa, di “Diotima”, è abituata alle relazioni fra donne, in quanto è impegnata da quindici anni nel femminismo e nella pratica delle relazioni femminili: si trova quindi a suo agio in questa compagnia di sole donne, anche se è spesso insofferente verso il vegetarianesimo fanatico della Sciamana; si trova meglio con la Parrucchiera, che le appare più equilibrata. Anche la Filosofa ha alle spalle un percorso di analisi e ha una sua religiosità, recentemente riscoperta grazie all’assidua frequentazione dei testi di Simone Weil e di Etty Hillesum. Prima di partire per il Kenja, ha preso contatto con un suo amico prete, che ha vissuto per molti anni nel Nordest del Brasile e che conosce bene la realtà del terzo mondo.

Il viaggio inizia con una permanenza di quattro giorni a Nairobi: qui ci sono solo la Parrucchiera e la Filosofa; la Sciamana le raggiungerà solo l’ultima sera a Nairobi, per andare con loro direttamente a Watamu, al mare.

A Nairobi, sono tre gli aspetti su cui vale la pena di soffermarsi.

1) Colpisce, in primo luogo, la presenza di recinti ovunque, in città. Il divario tra ricchezza e povertà è tale che tutti gli alberghi, tutte le case, tutte le chiese sono circondate da recinti e sorvegliate da guardiani. I poveri stanno nei loro recinti, i ricchi in altri. Questa specie di apartheid colpisce molto chi proviene dalla realtà europea: in Europa, i recinti sono soprattutto interiori, mentre qui le differenze sono visibilmente marcate. In Europa, le disparità tra le diverse condizioni sociali sono più sfumate, e la generale tendenza all’omologazione ha fatto collassare le differenze, ad esempio quelle fra città e campagna e anche fra uomo e donna. L’impatto con l’immigrazione dal terzo mondo sta però ricreando barriere e confini anche in Europa, anche se non così nettamente visibili come in Africa: si tratta piuttosto di frontiere nei cuori e nelle menti della gente, di barriere invisibili difficili da superare.

2) La cosa più impressionante, a proposito dei recinti di Nairobi, è una messa in stile “coloniale”, a cui assistono Parrucchiera e Filosofa: la chiesa è recintata, la messa è in inglese, retaggio della dominazione britannica; la celebra un sacerdote bianco, gerarchicamente superiore a uno nero, che lo assiste nella funzione. Dio è assente da questa messa gerarchica e coloniale: è una faccenda di uomini – benché siano presenti anche donne -, di gerarchie maschili, di recinti, di esclusioni.

3) Interessante, per un senso del divino femminile, è invece l’incontro con alcune donne mussulmane alla moschea Jamia di Nairobi. Qui, si deve alla testardaggine della Filosofa se le due donne occidentali riescono ad entrare. In prima battuta, infatti, gli uomini mussulmani non vogliono lasciar entrare le due occidentali: la Parrucchiera si scoraggia e vorrebbe andar via. E’ grazie alla mediazione di una giovane donna islamica che è finalmente consentito loro di entrare. Mentre Parrucchiera e Filosofa apettano davanti all’ingresso riservato alle donne, arriva una signora mussulmana, di una certa età e di notevole cultura ed esperienza, che ha forte il senso dell’autorità femminile: parla un ottimo inglese, ha studiato in Gran Bretagna, e dice che le giovani non avrebbero le qualità che hanno se le anziane non avessero fatto loro da maestre. La Filosofa, sostenitrice, con “Diotima”, dell’autorità femminile,[2] la trova effettivamente incarnata in questa donna autorevole. L’abitudine mussulmana di trovarsi fra sole donne, secondo il tradizionale separatismo islamico,[3] facilita l’incontro: dopo che le due occidentali sono entrate nella moschea, arrivano alla spicciolata diverse giovani donne mussulmane, chi vestita all’occidentale e sommariamente coperta con un foulard, chi con il tradizionale chador; insieme, occidentali e africane, islamiche e non, guardano il Corano e pregano, ognuna a modo suo. Alla fine dell’incontro, è l’anziana donna mussulmana a suggellare la preghiera comune con un canto, che risuona forte dal luogo riservato al Muezin.

L’episodio è interessante, perché mostra come la religiosità femminile sia capace di scavalcare i confini tra religioni e culture diverse, di metterle in comunicazione fra loro, mentre la differenza maschile si mostra più rigida nel tenere i confini, gli sbarramenti, i divieti.[4]

La preghiera con le donne mussulmane è un momento di autentica spiritualità e comunione: nel confronto con la messa “coloniale” di cui si parlava prima, appare chiaro che Dio, qualunque sia il suo nome, è più presente lì che nella chiesa circondata da recinti. Forse, mentre il Dio degli uomini è morto, come ci dice la riflessione teologica contemporanea, il Dio delle donne[5] è ancora vivo in questa religiosità informale, fluida, di donne di diverso colore avvolte da scialli, foulard, veli.

Questo episodio mostra infine che l’integralismo e il fanatismo non sempre sono là dove ci si aspetterebe di trovarli: le donne mussulmane incontrare a Nairobi sono apparse alla Filosofa assai meno fanatiche, nella loro religiosità aperta e desiderosa di scambi con altre culture, di quanto non sia il credo vegetariano e animalista della Sciamana.

 

Un ultimo episodio vale la pena di ricordare, a proposito di Nairobi: Parrucchiera e Filosofa trascorrono una giornata da sole, nel centro di Nairobi, visitando l’Università e la zona circostante. Ai turisti è sconsigliato di girare da soli la città, perché, subito dietro ai grand hotels e alle zone tranquille, si trovano sacche di miseria. Per potersela cavare in questo giro in città, la Filosofa, la sola delle due amiche a conoscere l’inglese, chiede continuamente informazioni, preferibilmente a donne: il risultato è eccellente; per lo più le donne interpellate danno informazioni dettagliate e talvolta addirittura accompagnano le due europee fino a destinazione. La Parrucchiera, che conosce già il Kenja perché ci viene in vacanza da diversi anni, rimprovera alla Filosofa di fidarsi troppo; ma il metodo funziona, ed è una grossa soddisfazione per entrambe passare un’intera giornata da sole, senza essere scortate da autisti, accompagnatori, guide, e senza essere guardate a vista. La pratica della fiducia si rivela migliore della scuola del sospetto:[6] questo è tanto più vero in Africa, dove la povertà diffusa ha un compenso nella qualità delle relazioni umane. Quasi tutti hanno tempo, o se lo prendono, e hanno voglia di scambiare notizie, informazioni, esperienze.

In Africa non si è mai soli, non esiste la solitudine, se non quella cercata per un raccoglimento interiore. Questo si rivela, più ancora che nella grande città, Nairobi, nel villaggio di Watamu, vicino a Malindi, luogo dove le due donne, nel frattempo raggiunte dalla Sciamana, si recano per trascorrere tutto il resto del loro soggiorno in Kenja.

 

Come sempre nel terzo mondo, lo spettacolo della povertà è meno impressionante nel piccolo villaggio che nella grande città: a Watamu c’è una povertà dignitosa, un po’ attenuata dal turismo, che porta un po’ di lavoro e di denaro. In compenso, sono visibili i guasti della nuova “colonizzazione” turistica italiana, che, soprattutto nella vicina Malindi, ha emarginato i neri e preso possesso della città.

A Watamu, il soggiorno delle tre donne è in una casa, che la Parrucchiera possiede in comproprietà con altri amici: la casa è bella nella sua semplicità, il giardino è una specie di paradiso terrestre, con fiori e frutta di ogni tipo. La giornata trascorre fra lunghe passeggiate sulla spiaggia, letture, chiacchierate: la Sciamana sta iniziando a scrivere un libro sulla medicina naturale, la Filosofa si diletta di pittura, la Parrucchiera sovrintende all’organizzazione della casa. Di quest’ultima si occupa però, materialmente, un boy nero, che cucina, lava, stira, ecc. La differenza razziale e di condizione economica capovolge, in questo caso, la gerarchia sessuale tradizionale: qui le tre donne bianche, occidentali, benestanti, sono servite da un uomo nero e povero. La disparità sociale è in parte temperata da una relazione amichevole: le tre donne collaborano con il boy nella gestione della casa e nella preparazione dei cibi. Ma è piuttosto sconvolgente vedere la diversa sistemazione dei quattro abitanti della casa: mentre le tre donne sono alloggiate in stanze semplici, dignitose e belle, il boy dorme sotto il tetto di paglia della casa, in una soffitta squallida con il pavimento di cemento grezzo, in una branda addossata alla parete, in uno spazio senza suppellettili. Kathana, il boy, che ha una moglie e due bambini, riesce con questo lavoro (che gli rende 1.200.000 lire all’anno, una paga media per il Kenja) a mantenere la famiglia, ma aspira, comprensibilmente, a mettersi in proprio, a fare l’autista di “matatu” (minibus): le mance delle tre donne gli permetteranno di pagarsi la scuola guida e di tentare il nuovo lavoro, forse più faticoso ma più dignitoso e che gli permetterà di lavorare a contatto con la sua gente.

Watamu è un piccolo villaggio di pescatori, in parte trasformato dal turismo; vi è una forte presenza di europei, soprattutto italiani, proprietari di ville, che qui mantengono un tenore di vita impensabile in Europa, potendo disporre di numerosa servitù a basso prezzo. I ritmi di vita degli abitanti del villaggio non sono stati però del tutto stravolti dalla presenza dei turisti: molti lavorano nel turismo, ma il villaggio mantiene ancora la sua caratteristica di paese di pescatori. Colpiscono la calma delle persone, il loro aver sempre tempo e voglia di chiacchierare, di scambiare qualcosa. In questo senso, la politica delle relazioni femminili ha tutto da imparare dalla gente africana: la qualità delle relazioni qui è un bene primario; ci sono un calore nella gente e un desiderio di scambi che impediscono l’isolamento; molti vogliono vendere qualcosa, ma il piacere di parlare è il movente principale di ogni relazione.

In spiaggia, una giovane venditrice di collanine, Gigia, si affeziona alle tre europee e le segue dappertutto: Gigia ha tre figli piccoli, che deve allevare da sola, con l’aiuto dei genitori, perché ha mandato via il marito, che non aveva voglia di lavorare. La storia di Gigia permette di portare l’attenzione su un dato, segnalato da Sujata Madhok in occasione della conferenza di Pechino del 1995: in Africa le donne sono capofamiglia nel 35% dei casi.[7]

Fra gli amici di lunga data della Parucchiera e della Sciamana, c’è Pastore, un giovane che fa la guida turistica, ma che attualmente è quasi disoccupato; la Filosofa decide di aiutare la nipote di Pastore, Mwaka, di undici anni, a completare il ciclo della scuola dell’obbligo; è una specie di adozione a distanza, ma fatta direttamente, senza intermediari e senza formalità; Mwaka è una ragazzina seria, un po’ triste, più adulta della sua età; è la maggiore di cinque figli, che potranno usare i libri dopo di lei, quando avrà finito la scuola. Già in passato la Parrucchiera e la Sciamana si sono fatte carico, nel corso degli anni, di altre analoghe adozioni a distanza.

I turisti europei si dividono fra coloro che cercano di aiutare un po’ i locali, pur da una posizione che è comunque di privilegio, e quelli che hanno invece un atteggiamento solo di sfruttamento. In quest’ultimo senso, è interessante un episodio che, in anni passati, ha visto protagoniste le donne del villaggio, impegnate ad arginare il turismo sessuale degli europei che approfittavano della loro ricchezza e della povertà della popolazione per indurre le giovani alla prostituzione. Le donne del villaggio hanno osteggiato i turisti in cerca di giovani prostitute, sono riuscite a isolarli, ad emarginarli, cosicché a Watamu il turismo sessuale, benché continui ad esserci, soprattutto nei grandi alberghi, è però contenuto.

L’episodio fa riflettere sull’efficacia del comportamento di donne che scelgono di esercitare la loro autorità direttamente, senza la mediazione della legge: usando un termine impiegato nella conferenza di Pechino, potremmo parlare di empowerment, cioè di esercizio di autorità femminile.[8] Si può confrontare questo concreto esercizio di autorità con le ben diverse politiche occidentali contro le molestie sessuali: in queste ultime, la necessità del ricorso alla legge, anche in casi che potrebbero essere risolti direttamente dalle donne coinvolte, segnala, a mio avviso, un difetto di autorità femminile nella concretezza delle situazioni.

 

A Watamu, la Filosofa assiste a una messa cattolica, celebrata senza prete, perché nella zona non ce ne sono abbastanza, e quindi senza comunione; sull’altare ci sono solo due giovani seminaristi neri; la messa è una festa di villaggio, una vera “comunione” fra gli abitanti del paese; la cerimonia dura due ore e mezzo, fra canti, musiche con strumenti tradizionali, e celebrazione, in swahili. Ben diversa dalla messa “coloniale” di Nairobi, questa cerimonia, celebrata direttamente dai fedeli, con i loro canti, la loro lingua, le loro offerte di frutti della terra è molto toccante. La Filosofa non si pente di aver fatto dodici chilometri a piedi, fra andata e ritorno, per assistervi: c’è una religiosità gioiosa, un felice incontro fra le tradizioni locali, con i loro suoni e colori, la lingua materna e la religione cattolica.

In Kenja, la religione tradizionale, un tempo la più diffusa, è oggi praticata da circa il 20% della popolazione: essa si basa sul culto degli antenati e sottolinea la dipendenza del singolo dalla comunità e dall’ambiente; il cristianesimo (cattolici, protestanti e varie sette) è praticato da circa il 70% della popolazione; gli islamici sono circa l’8 %. Nel villaggio – non nella grande città, dove forti sono i confini e le divisioni – si ha l’impessione di una tolleranza religiosa, di una coesistenza di diversi culti senza che si producano contrasti; la giornata è scandita dal canto del Muezin; i missionari cristiani sono ben visti per l’opera di educazione e per l’aiuto alla popolazione che offrono. I recinti, che a Nairobi separano una religione dall’altra, i ricchi dai poveri, i bianchi dai neri, sono quasi  del tutto assenti a Watamu, nel piccolo villaggio, dove le relazioni sono personali e dirette. Confini visibili ricompaioni invece già a Malindi, che ha le dimensioni di una città: qui, nei caffé italiani, è proibito ai neri di sedersi.

 

L’integralismo non converte nessuno, mentre, con l’esempio e con la pratica, è possibile che qualcuno si lasci contaminare: l’unico vero integralismo che la Filosofa ha visto in Kenja è quello della Sciamana, convertita mente e corpo alla causa dell’animalismo e del vegetarianesimo; la Sciamana ha un intenso desiderio di fare adepti, di realizzare conversioni; a questo scopo, predica continuamente, è intollerante verso chi non è vegetariano, osteggia le altre due compagne di viaggio nella loro intenzione di mangiarsi un pesce, cerca di convincere anche i pescatori del villaggio che i pesci vanno rispettati e non uccisi. Il risultato di questa predicazione, sicuramente insensata almeno nei confronti dei pescatori del villaggio, che di pesca vivono, è pressoché nulla; nella Filosofa, addirittura, questo fanatismo provoca la reazione contraria, cioè un aggrapparsi ai valori della civiltà occidentale che lei stessa, in Occidente, critica.

Sono semmai l’esempio e la pratica a contaminare un po’, a produrre dei mutamenti: al ritorno la Filosofa, un po’ contagiata dallo stile di vita del Kenja e dall’abitudine alla cucina vegetariana, si scopre più attenta a fare la raccolta differenziata, e diventa una consumatrice di carne meno convinta. A loro volta, le altre due, Parrucchiera e Sciamana, a cui la Filosofa ha regalato, rispettivamente, un libro suo e uno di Diotima, e a cui ha un po’ parlato della ricerca femminista, ma senza volerle “convertire”, si dichiarano incuriosite da questa linea di pensiero. In particolare la Parrucchiera, buona conoscitrice di donne per lavoro, si ripromette di leggere, una volta tornata a casa, altri libri di Diotima.

[1]             Sull’importanza del corpo nella religiosità femminile, cfr. Caroline Wilson, Lontanovicino. Un’inchiesta, “via Dogana”, n. 48, febbraio 2000, p. 5.

[2]             Cfr. Diotima, Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità, Liguori, Napoli 1995.

[3]             Sulla qualità delle relazioni femminili rese possibili dal separatismo islamico, cfr. Fatima Mernissi, La terrazza proibita. Vita nell’harem, tr. it. di R. R. D’Acquarica, Giunti, Firenze 1999.

[4]             Sulla maggiore capacità della differenza femminile di andare oltre i recinti delle diverse confessioni religiose, cfr. il mio Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, Liguori, Napoli 1997, p. 37.

[5]             Sul “Dio delle donne”, cfr. “via Dogana”, n. 48, febbraio 2000: Lontanovicino. Il Dio delle donne.

[6]             Di una scuola del sospetto, i cui maestri sono Marx, Nietzsche e Freud, ci parla Ricoeur: cfr. Paul Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, tr. it. di R. Balzarotti, F. Botturi, G. Colombo, Jaca Book, Milano 1986. La fiducia è invece al centro della politica delle relazioni e del rapporto di affidamento, una parola che ha la sua radice terminologica nel verbo fidarsi: su questo, cfr. Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, Torino 1987.

[7]             Cfr. Sujata Madhok, Reti al lavoro, “D. W. F.”, 1995, n. 1, p. 37.

[8]             Sul concetto di empowerment, cfr. Bianca M. Pomeranzi, Prospettiva Pechino, “D. W. F.”, 1995, n. 1, pp. 46-47. Sul tema dell’autorità femminile, rimando ancora a Diotima, Oltre l’uguaglianza, cit.