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per amore del mondo edizione 18 - 2022

Fuorigioco

La parola del corpo. Danzare la filosofia

Lo scambio tra danza e filosofia ci può aiutare a comprendere in modo più profondo e vero le relazioni di amicizia o di amore?

Foto di Sebastien Hildebrandt

Sono queste le domande che abbiamo messo al cuore del progetto Dancing philosophy, che si sviluppa nell’ambito di un più ampio progetto europeo sulle scienze collaborative (COESO). Intrecciamo danza e coreografia (Cosetta Graffione) e filosofia (Stefania Ferrando), per lavorare su questi interrogativi, insieme alla notatrice di danza e coreografa Irénée Blin (Cadmium Compagnie) e a un team di ricercatori specializzati in arte e tecnologia digitale (Clarisse Bardiot e Sébastien Hildebrand, dell’Université Polytechnique des Hauts-de-France, e Daniele Marranca, di Cadmium Compagnie).

Questo articolo è il racconto di uno scambio, tra Cosetta e Stefania, la traccia di alcuni pensieri ed esperienze che il progetto ha reso possibili o ha nutrito. Troverete due testi disposti uno dopo l’altro: in realtà, però, la nostra è stata una scrittura a strati, in cui lo scambio e poi la lettura reciproca delle parti già scritte hanno rilanciato e trasformato le parole di ciascuna, fino alla forma attuale dei testi che vi proponiamo.

«Che tu sia il mio corpo» di Cosetta Graffione

Ho cominciato tutto da qui:

«L’amour, c’est donner ce qu’on n’a pas à quelqu’un qui n’en veut pas», l’amore è dare ciò che non si ha a qualcuno che non lo vuole (Lacan, Seminario XII).

Ho cominciato il mio viaggio nella mancanza da queste parole così enigmatiche, inspiegabili e accessibili solo attraverso l’intuito personale che mostra come nelle questioni amorose c’è sempre qualcosa che manca e qualcuno che non vuole.

Essendo danzatrice, mi sono rivolta verso quei coreografi che potevano avvicinarsi meglio a questo terreno e ho avuto la fortuna di studiare e lavorare con un coreografo genovese, Giovanni Di Cicco, che portava la relazione umana al centro delle sue opere.

Poi arrivò Pina Bausch.

Iniziai a vedere i suoi spettacoli e praticare il suo stile definito “teatrodanza”, termine che voleva indicare uno specifico approccio alla danza che nasce dall’autocoscienza del corpo e che, in una visione non occidentale, riporta il movimento strettamente connesso al teatro e alla sua esperienza.

Ebbi la fortuna di studiare con il suo più importante collaboratore, Dominique Mercy e con lui capii che, nella danza di Pina Bausch, non era affrontato solo il tema della relazione e della mancanza, ma anche veniva rappresentato una sorta di enigma, di “segreto” da svelare ogni volta che accedevo al gesto.

Le immagini della scena sembravano emergere dall’inconscio dei danzatori, senza alcuna mediazione intellettualistica, una danza che nasce direttamente dagli esseri umani.

Ho dedicato molto tempo a capire cosa nascondessero gli spettacoli di Pina e, nel frattempo, sono arrivata a Lacan e Hegel. Entrambi parlavano di individui che guardano all’Altro per esistere.

Hegel e Lacan, attraverso le loro opere maggiori, ci parlano di qualcosa di grande, grandissimo, ci dicono che l’essere umano è sempre spinto fuori da sé, all’incontro con l’Altro. Esattamente quello che leggevo in tante opere di Bausch, nel suo trasformare il modo di fare danza in tutto il mondo.

Pina è donna, e come tutte le donne della danza è stata rivoluzionaria. Non c’è una regola fissa, ma possiamo dire che nella danza contemporanea le donne hanno innovato e gli uomini hanno riordinato. Forse perché spesso considerate agitate, frastagliate, “meno ordinate”, potevano permettersi la responsabilità di un’incomprensione sul piano professionale? In ogni caso, Pina Bausch stava mettendo in discussione qualcosa dell’ordine generale che separa maschile e femminile, e io e Stefania avevamo bisogno proprio di questa sensibilità nel parlare della complessità dell’essere umano senza offrire certezze, parlare di leggi o peggio dare consigli o soluzioni.

L’uso del materiale filosofico “maschile” di Hegel e Lacan restava comunque un punto fermo nel mio percorso creativo, ma era evidente che non potevo accedere da sola all’interpretazione profonda e all’uso dei testi dei due filosofi, per ordinare e migliorare il mio lavoro.

Nelle mie coreografie cercavo di parlare di questa uscita, di questo viaggio fuori da sé, ma non ne capivo le sfumature, né la filosofia né la psicoanalisi erano il mio campo d’azione.

Nel mio itinerario di interrogativi rivolti alle intuizioni hegeliane e lacaniane, sono giunta alla conclusione che dovevo avere un compagno di viaggio che apportasse competenza e armonia, ma anche che incarnasse e convalidasse con il suo stesso corpo la verità di quel “segreto” così scomodo, cioè che la relazione umana si fonda sulla difficoltà di incontrare veramente l’Altro, sul conflitto e la solitudine che ne derivano.

La nostra avventura vorrebbe essere una prova di cosa significa analizzare la relazione umana con il corpo e la parola, parlando e agendo direttamente sulla nostra aspirazione all’amore e al riconoscimento.

Siamo qui per chiederci come ridurre la distanza tra gli esseri umani analizzandola da più punti vista, per capire se è possibile sviluppare un nuovo linguaggio filosofico-corporeo in grado di guidarci là dove i linguaggi preesistenti non sono stati in grado di condurci.

Siamo qui per capire se oggi la danza può offrire un nuovo punto di vista sulla questione del genere.

Nella danza che pratico e nella danza di Pina Bausch, maschile e femminile utilizzano gesti, stereotipi cari ad entrambi per creare il giusto punto di tensione scenico-drammaturgica. Non c’è nessuna ricerca o gusto nel parlare di ciò che si definisce a priori femminile, maschile, omo, etero, trans.

La danza di cui ci serviamo nel progetto con Stefania è un racconto di corpi, maschili e femminili, in tutte le possibili sfumature di preferenze sessuali e identitarie, una danza che si focalizza sul profilo universale della persona, parlando della singolarità come possibile chiave di evoluzione del collettivo.

Prendiamo, ad esempio, un uomo che danza in gonna: non vuole essere un’evocazione dell’omosessualità ma piuttosto un mezzo teatrale per sviluppare un certo tipo di personaggio. Chi danza sa che un tessuto leggero e ampio come la gonna porta il danzatore a usufruire di un certo vocabolario tecnico rispetto ai pantaloni. Una gonna, un cappello, un rossetto possono essere espedienti teatrali per scavare e vedere cosa c’è al di là della patina esteriore delle convenzioni sociali e cercare la «sincerità dell’attore», come la definisce Copeau, in una battaglia senza limiti per la verità.

Così anche una donna che si spoglia non vuole per forza citare la seduzione ma semplicemente offrire al pubblico un momento che ha scelto per mostrare qualcosa di sé. 

Si tratta quindi di provare a liberarsi dell’abitudine a categorizzare gli altri, a spogliarli della loro ricchezza per ridurli a un ruolo o un’immagine standardizzata e conoscibile. Senza teorizzare, la danza vuole farsi esperienza, rompendo le regole comportamentali che stabiliscono per ogni sesso un codice di atteggiamenti naturali o provocatori.

Pina Bausch. Punto di partenza.

Cosa posso dire di Pina e del suo linguaggio coreografico? Cosa mi sfugge e cosa capisco? Forse è in quello che non si può dire verbalmente che va cercato il significato ultimo? Cosa ci dice Pina e cosa non ci vuole dire?

Penso a Café Müller e alla bellissima sequenza che la stessa coreografa definisce «molto triste» in cui una donna e un uomo si abbracciano e un terzo uomo entra e li separa e mette la donna nelle braccia dell’uomo[1].

Questa donna non resta ma scivola, scivola pesantemente a terra per poi rialzarsi e ritrovare le braccia dell’uomo.

La sequenza si ripete, ancora e ancora.

C’è un linguaggio completamente interiorizzato che arriva dal corpo e ci svela, senza artifici, come ognuno cerchi qualcosa, l’altro, forse la propria strada, o la felicità.

Cosa succede veramente? Chi è questo terzo uomo che separa la coppia? E perché si instaura una coazione a ripetere?

C’è qualcosa di misterioso che Pina Bausch stessa dice di voler coprire:

«Io qualche volta copro molto (…). Capita che vuoi parlare di qualcosa e che arrivi molto vicino a quello che vuoi dire. Ma capisci che è così importante che ti sembra stupido persino mostrarlo. Allora è come se lo vestissi di qualcos’altro perché scoprirlo ti sembra delicato, hai paura».  (Pina Bausch si racconta a L. Bentivoglio nel Il teatro di Pina Bausch, 1991, p19). 

Per me è stato essenziale partire da qui nel lavoro con Stefania: che cosa il linguaggio della danza è capace di dire sulla relazione e l’incontro? Come è gestita l’indicibilità di certe zone interpersonali, che, per complessità o perché troppo ineffabili, sfuggono alla parola? In che modo il riconoscimento di questa indicibilità trasforma il nostro sguardo sulla vita politica e sociale?

Diventa possibile per un ricercatore, che si pone le stesse domande, analizzare questo tema e rispondere, passando magari attraverso un processo di creazione coreografica, simile a quello che vi ho presentato prima in Café Müller?

Quello che ho visto, dopo la prima residenza artistica con Stefania, e dopo un mese di lavoro sulla trasposizione delle teorie di Hegel e di Lacan nel nostro lavoro corporeo, mi fa pensare che dentro alla danza, al corpo che parla questo linguaggio senza voce, ci sia uno slancio vitale nel capire le vicende sociali e politiche della nostra esistenza. È un impulso che fa bene a chi vi si trova e a chi le vede perché crea immedesimazione, accessibilità e porta le faccende del corpo al di là dei ruoli distinti assegnati a uomini e donne di oggi.

Forse ci stiamo avvicinando ad un limite del linguaggio filosofico quando esso vuole farsi strumento di coesione ma resta distante, quando questo vuole spiegare tutto ma non si confronta con l’esperienza vissuta.

Partendo da un’esperienza personale forte e viva, la propria, e utilizzando un linguaggio teatrale debordante e indisciplinato ma mai terapeutico, è possibile che un filosofo-ricercatore che danza scopra pezzi di esperienze, assolutamente inspiegabili a parole, che funzionano catarticamente sul pubblico attraverso l’immedesimazione con quello che si vede.

In scena, Stefania ha presentato al pubblico la materia corpo della sua visione filosofica della relazione umana. Abbiamo accettato, scartato e utilizzato il materiale proveniente dalle sue improvvisazioni e ho provato a organizzarlo come se fossero i suoi sogni, la sua memoria inconscia a parlare.

L’idea era quella di utilizzare la metafora come metodo di sviluppo della narrazione: scrivere sullo specchio con l’acqua, vedere con gli occhi appoggiati sulle spalle, urlare al pubblico, mostrare il corpo, piangere e ridere istericamente. Ci siamo servite di tutto ciò che poteva condurci e condurre il pubblico verso il tema del reale e immaginario, spesso impossibile ma sempre inseguito, dell’incontro con l’Altro.

Uno degli elementi che ha ispirato il modo di comporre e coreografare i movimenti di Stefania è stata la mia convinzione che noi siamo già il corpo dell’Altro, che ne dica la psicoanalisi o la filosofia. Questa appartenenza deriva dalla capacità che tutti abbiamo, salvo ovviamente nelle malattie mentali, di definire il corpo dell’altro, possiamo rappresentarlo con un disegno, calcolare approssimativamente la sua misura, dargli una temperatura, un colore, situarlo nello spazio.

Quando dico ciò, penso ad una ricerca su un gruppo di indiani d’America che avevano vissuto solo all’interno della loro comunità. Portati in una grande città come New York per la prima volta, al ritorno fu loro chiesto di disegnare su un foglio cosa avessero visto nella metropoli. Questi Indiani disegnarono perfettamente i cittadini ma gli edifici avevano due piani al massimo, non essendo in grado di memorizzare e fare proprie le altezze vertiginose dei grattacieli, visti per la prima volta.

In un intercalare tra forza e fragilità, abbiamo parlato e agito con il corpo per vedere se potessimo diventare più coscienti della vita che ci circonda, osservando, sentendo. Partendo dal fatto che io esisto come corpo, ricevo il mondo e ne parlo, tocco e sono toccato, sento che esiste qualcosa di vero e tangibile. 

La grande forza creativa di Stefania ha mostrato ai miei occhi di coreografa che si può parlare-danzando della relazione e della lotta senza fine per affermarsi e per affermare il proprio potere (o non) nelle relazioni interpersonali senza un percorso artistico antecedente, senza una base tecnica e senza cadere nel dilettantismo. 

Senza mai dimenticare un altro elemento portante della nostra esperienza, la musica, capace di entrare nel gesto come una domanda, una sollecitazione alla verità o persino una risposta.

Semplificare il complesso, la parola e la danza.

Sono contenta che Stefania sia salita sul palco. Chi l’ha vista o chi la vedrà, entrerà in contatto con la sua parola facendo un’altra esperienza.

Mi chiedo che tipo di trasformazioni subirebbe la sua pedagogia se potesse condurre seminari o classi di studenti attraverso questo binomio della danza-parola, dove i ricercatori e gli studenti sono invitati ad assistere ad una performance, oltre alla normale lezione parlata. I greci lo facevano per redimere i loro prigionieri, noi oggi rivisitiamo la pratica per vedere e capire il mondo da diverse prospettive.

In questa prima esperienza teatrale, la parola di Stefania era presente come strumento pieno dell’azione danzata. Ma che tipo di parola era?

Io la definisco parola-diario, una parola urlata e sussurrata, dichiarata o pensata, una parola che definisco “non detta”, metafora delle sue esperienze personali.

La bellezza di questa parola è che è rara, arriva in certi momenti chiave della sua improvvisazione, non è sprecata, non è mai autoreferenziale e parla di questa nostra umanità che vuole essere riconosciuta, che cerca il semplice nel complesso.

Che cos’è questo complesso? Noi pensiamo che la relazione con l’Altro sia complessità e proviamo a spiegarlo passando dalla filosofia e dalla corporeità che, come dice Jacques Lecoq, è vedere l’essere umano «nel profondo del suo corpo, ascoltandolo nel non detto, là dove nasce il movimento».

Cosa potrebbe essere allora il semplice a cui tendiamo, che tanto desideriamo? 

La nostra perenne aspirazione al contatto, all’amore.

Essere amati, semplicemente.

Cominciavano ad accadere piccole cose di Stefania Ferrando

1. Un passo indietro

La frase mi interrogava e al contempo mi respingeva. Per un certo tempo, ho avvertito la seduzione di queste parole: sapevo che parlavano di un amore fatto di invenzioni e non di oggetti. La frase restava, però, sbilanciata: la prima parte («l’amore è dare quello che non si ha») scorreva chiara e mi ricordava la bellezza di quei compleanni in cui il regalo era la caccia al tesoro inventata da chi mi voleva bene e non il contenuto del pacchetto. Ma qualcosa resisteva nella seconda parte della frase: quel non volere, che ha messo in moto la curiosità di Cosetta, era invece per me un inciampo nella comprensione, riuscivo a decifrarlo solo con un ragionamento intellettuale, mentre una domanda continuava a presentarsi. È una domanda semplice, di quelle che di solito non formulo perché mi dico che forse non ho capito bene o non ho ragionato abbastanza. Questa volta, però, c’era Cosetta e potevo chiederlo a lei: ma perché, se non lo voglio, è amore? 

Foto di Sebastien Hildebrandt

Quando mi hanno raccontato di San Giovanni della Croce, che non voleva niente ed è arrivato in cima alla montagna[3], ho capito lo spostamento di quel suo non volere, la libertà nel far cadere le pretese dell’io e la grande occasione che si presentava a lui. Ma nella frase sull’amore i conti non mi tornavano: e se ci fosse lì qualcosa di pericoloso, ed è proprio per questo che non lo voglio? L’allontanarsi dalla trappola di un desiderio saturato dagli oggetti mi pare oggi un avvertimento meno urgente rispetto al prestare attenzione a quello che non si vuole, quel che una donna non vuole, tanto più in amore.

Sono andata poi a vedere meglio: quelle parole sono inizialmente scelte da Lacan per descrivere un amore tra due uomini, tra Alcibiade e Socrate, nel Simposio di Platone. E così, nel voler parlare della sorpresa e della trasformazione personale che accompagnano l’amore, quella frase non allontana in realtà una donna da sé e da quel che sa di sé, da quel che sa di volere e di non volere? Non la porta su una scena che non è la sua e che è invece segnata dalla storia della cancellazione degli insegnamenti di Diotima da parte dei filosofi? «Occorre stare in guardia rispetto alle pratiche culturali che ci obbligano a dubitare di tutto, delle verità del sentire e dell’anima», scrive nel suo ultimo libro Milagros Rivera Garretas[4]

Ho sentito, però, oltre questa frase di Lacan, una domanda di Cosetta sull’amore che restava aperta, si dischiudeva nel pensare a partire ciascuna da sé e insieme all’altra, nello sperimentarsi per ore e ore e giornate intere sul palco, (ri)scoprendo poi il movimento della spirale grazie alla guida delle sue coreografie.

Come ritrovare un pensiero sull’amore, su questa qualità così preziosa delle relazioni? E come ritrovare l’amore nel pensiero, un amore senza mezzi termini, che quasi mai nell’università riesce a trovare orecchie, sguardi, posto? Dovevo spostarmi altrove rispetto alle parole di Lacan e ritrovare qualcosa che viene prima. Un passo indietro. E così c’è stato un nuovo incontro con Cosetta, su un piano nuovo e altro rispetto a quello in cui commentavamo le figure della relazione e del riconoscimento a partire da Hegel o da Lacan. 

Cosetta ha messo al centro una domanda, forse qualcosa di più per lei, un’intuizione: l’esistenza e l’amore sono un viaggio fuori da sé… E così lavoro e lavoriamo, tra corpo e parole, su questo viaggio e questo fuori: fuori da che cosa? Fuori da un immaginario che intrappola? Da relazioni che impoveriscono?  Dall’incapacità di dire e dirsi il vero? Fuori dalle mediazioni ricevute, da forme e parole che allontanano dalla propria esperienza e dai misteri che racchiude? Fuori da forme e parole che confondono su di sé e sul proprio piacere?

Questo viaggio fuori da sé è quello, difficile e mai concluso, che porta a stare nelle relazioni cercando di incontrare l’altra persona per quello che è, nella sua differenza e singolarità irriducibile, dischiudendo uno spazio di sorprese, senza cancellare se stesse.

2. Parlare-danzando

La ricerca che abbiamo condiviso andava verso questa invenzione e riscoperta: Cosetta lo ha chiamato un «linguaggio filosofico-corporeo», che si radica nell’esperienza reale di un lavoro quotidiano guidato da un certo linguaggio coreografico e dall’intreccio fra le parole che partono da sé e il movimento, senza disgiungere quelle da questo. È un lavoro simbolico, in cui il simbolico fluisce dal linguaggio del movimento a quello verbale, a volte salta dall’uno all’altro, con dei resti che non si cancellano, ma rilanciano la comprensione. 

È una pratica che abbiamo cominciato a sperimentare, in cui si cerca il centro del corpo e insieme di un pensiero incarnato, con una scommessa grande, perché «una donna spostata dal suo centro, dal suo piacere, è come tale eternamente sottomessa nel corpo e nello spirito»[5].

Per me, in questa ricerca, si riorganizza il movimento in una forma inaspettata, gli occhi si aprono in modo inatteso, per guardarsi attorno senza perdersi. Comincio a scoprire (o ritrovare?) il movimento della spirale con cui veniamo al mondo, quello che ci tiene in piedi, oltre l’apparenza della staticità, nel gioco di forze che ci attraversano in ogni momento…La spirale è un movimento che sente sé e l’altra, l’altro, e lo spazio, non chiude gli occhi su chi è accanto, girando si apre senza perdere il proprio centro né la propria direzione.

Cambiando i movimenti, il peso stesso, si sentono così parti del corpo che prima erano bloccate, anestetizzate, trascinate da un centro surrogato. Ricentrarsi è una pratica, una pratica di scrittura, di parola, di pensiero e di movimento. È sicuramente una pratica di relazione.

La scommessa del nostro lavoro è trovare un «parlare-danzando», in cui il trattino è in realtà una pelle porosa (Barbara Verzini mi ha fatto riflettere su questo contatto di pelle, in cui c’è un fluire, ma non si abolisce la differenza dell’altra persona). È un linguaggio che aggira le secche di una filosofia segnata dall’obliterazione del pensiero incarnato di tante, dalla cancellazione di una lunga storia in cui altre verità sono dicibili.

Forse per questo, nel nostro lavoro, abbiamo rimesso al centro la questione della verità: per quali ragioni accettiamo di non dirla e di non vederla? Come accade di nasconderla? E come si ritrova il rapporto con quella verità che ti riguarda e ti interpella in prima persona?

Ma se la posta in gioco è saper dire e sapersi dire la verità, questo significa allora che dobbiamo (e possiamo) dire tutto e trasformare tutto in parole?

3. Scombinare i piani

Nel lavoro sul corpo, in teatro, ho ritrovato un pensiero che avevo smarrito nei libri… Forte dei miei ragionamenti e letture, avevo cominciato il nostro progetto col proposito di mostrare che tutto è dicibile tramite le parole. Il sorriso di Irénée, l’altra danzatrice che collabora con noi, quando avevo rivelato la mia sfida, aveva però cominciato a mettermi in guardia…

Non è facile fare ora un passo in più, per tornare sulla questione della verità e della parola, a partire dal lavoro coreografico fatto con Cosetta. Le parole restano la materia prima del mio pensare, ma nel corpo, nei muscoli, ho il ricordo delle esperienze fatte sul palco e negli occhi ho i movimenti di Café Müller di Pina Bausch, movimenti e immagini che ci hanno accompagnate in questo lavoro tra danza e filosofia.

Il rapporto tra parola ed esperienza corporea, il rapporto tra i due linguaggi, filosofico e coreografico, non è quindi un semplice oggetto di riflessione, ma una delle questioni centrali del nostro lavoro, una sfida rispetto alla tessitura delle parole.

Ho trovato un punto di partenza in alcune parole di Pina Bausch, intervistata da Leonetta Bentivoglio:

 Cominciavano ad accadere piccole cose, che magari non avevano nulla a che vedere coi miei piani, ma che avevano a che vedere con la mia idea. E io dovevo decidere se seguire queste cose nuove o se seguire i miei piani. Allora ho deciso di non seguire più i miei piani. È una decisione che richiede molto coraggio.[6]

Nel suo processo creativo, Pina Bausch faceva un lavoro tra corpo e parole. Elaborava molte domande e spunti, come ad esempio: come immaginavate l’amore da bambini? /Cosa si può fare con una mano? /Giochi per scacciare la paura / Come reagite se qualcuno fa progetti su di voi? / Vergine che si libra in aria/ Fazzoletto bianco/ Formule magiche/ Come ci si può divertire da soli… Le danzatrici e i danzatori potevano rispondere, se volevano, o a parole o con un’improvvisazione.

La creazione artistica insieme a Cosetta non ha seguito questo «procedimento scoperchiante»[7], ma anche noi abbiamo intrecciato parole e movimenti, lavorando sulle nostre esperienze di relazioni di amicizia e di amore, o di lavoro, cercando di partire ciascuna da sé. Le parole di Pina Bausch riescono, però, a descrivere bene quello che ho visto capitare: piccole cose accadono e scompaginano i piani iniziali, portandoti in realtà più vicina a quello che cerchi, secondo un’intuizione pensante, che può accadere nello scambio di parole, ma che accade anche nei movimenti.

Che queste piccole cose accadano anche nei movimenti e attraverso di essi è per me un insegnamento prezioso per la scrittura e forse ancora di più per l’insegnamento: si tratta, certo, di cercare di esserci tutta, meno scissa tra anima e corpo, nella scrittura; ma significa anche imparare a sentire ciò che accade oltre i ragionamenti, nell’intreccio di parole e movimenti che avvengono in una classe e che possono portare altrove – altrove rispetto ai piani, ma magari più vicine a quello che è importante pensare insieme.

Nel suo libro Insegnare a trasgredire[8], scritto a partire dalla sua lunga esperienza di insegnante, bell hooks lo spiega molto bene: la possibilità di riconoscere e rendere significative le differenze di ciascuna e ciascuno – come la sua, di lei che è stata una delle prime donne nere ad insegnare all’università – richiede di parlare portandosi oltre la scissione tra testa e corpo, imparare a vedere qualcosa delle storie incarnate di quelle e quelli che stanno in una classe, dei conflitti che si intrecciano ai vissuti. È questa per lei l’unica via che rende possibile partecipare veramente all’elaborazione comune di un pensiero o di una ricerca, e di poterlo fare con la propria voce, e non con significati indotti o costruzioni ideologiche (costruzioni quali la neutralità disincarnata del docente: una neutralità irreale per lei, perché l’aula – le persone, perfino i muri – si trasformavano quando lei entrava… ma irreale anche per un suo professore, alcolizzato, di cui gli studenti cercavano di ascoltare solo gli insegnamenti, fingendo di non vedere quanto male stesse).

Certo, come dice Pina Bausch, ci vuole coraggio per avere fiducia nelle piccole cose che accadono e non hanno nulla a che vedere coi propri piani. È il momento della creazione, che in filosofia non conoscevo più e che stavo dimenticando anche nella scrittura: il coraggio di quel muoversi in un terreno ignoto, inebriante o angosciante, senza le tutele dei piani prestabiliti né i parapetti delle forme istituzionalizzate e codificate. Quel che si riesce a dire o fare può essere tutto o niente, può essere vero, imbarazzante, oppure senza capo né coda: non ci sono garanzie preliminari. Concedersi questa possibilità, che è quella di creare e anche di sbagliare, è difficile nella scrittura, ma ancora di più forse nell’insegnamento: il lavoro del pensiero, realizzato in comune, può funzionare oppure no, possono esserci resistenze o aperture inaspettate. Anche in questo caso non ci sono certezze, il che è ancora più difficile perché, nella responsabilità comune di quello che accade in classe, c’è comunque una differenza che interpella in modo più esigente e profondo chi insegna.

4. La verità e la forma che protegge

Sempre riflettendo sul proprio lavoro, Pina Bausch racconta che, se le piccole cose che accadono al di là dei piani iniziali riescono a imprimere alla creazione una nuova direzione, è perché si cominciano a stabilire delle relazioni tra le cose che accadono. Non si tratta di mettere ordine, ma di un problema di composizione:

All’inizio non c’è niente, ci sono soltanto risposte, frasi, piccole scene. E resta tutto separato, frammentario. Poi a un certo punto arriva il momento in cui comincio a collegare una cosa che mi è sembrata giusta con un’altra cosa […] molte piccole cose a poco a poco diventano qualcosa di più grande e la direzione cambia da sola. In ogni caso, a tutto quello che è stato trovato, viene data una forma diversa, niente resta informe.[9]

È la relazione che dà la forma, una forma diversa da quella iniziale. A partire dalle relazioni tra le piccole cose si lavora simbolicamente sulle parole o i movimenti iniziali, si dischiude uno spazio in cui i significati di un gesto o di un’immagine si arricchiscono e si approfondiscono. Appare un enigma che mette al lavoro, nella comprensione e nella creazione. I movimenti di un corpo scomposto prendono un senso diverso quando si trasformano nella camminata di un ragno….  O ancora, come scriveva Cosetta a proposito di Café Müller: che cosa accade quando vediamo la sequenza dell’abbraccio tra un uomo e una donna, che poi viene districato da un altro uomo che mette lei tra le braccia di lui, come se stessero per superare la soglia di una casa dopo essersi sposati, lei si svuota di ogni forza vitale, le braccia di lui cedono, lei precipita a terra e il tutto ricomincia sempre più veloce fino a che la dinamica si scrive nella loro carne, senza che ci sia più l’intervento del terzo[10]? Che cosa sentiamo nel vedere questa scena? vicino a quali esperienze o ricordi ci porta? quali percezioni si riattivano, quali parole ci attraversano, dove ci trasporta il suono ritmato dei loro corpi?

Nella danza che ho incontrato, ci sono immagini e movimenti che portano nei pressi di una violenza o di un dolore, altre che viceversa aprono a un piacere, ma ci sono comunque, in un caso e nell’altro, dei misteri che non si danno per conclusi e che rinnovano e rilanciano il lavoro del linguaggio, filosofico o coreografico, ciascuno con la sua capacità di dire e di non dire troppo. Questo accade in modo diverso se si è implicate direttamente nel movimento, se si è chiamate all’opera di composizione, come la coreografa, oppure se si partecipa come pubblico.

In questo progetto sono stata chiamata a salire sul palco e a lavorare sul mio movimento. Ed è a partire da questa esperienza che ho cominciato a comprendere qualcosa di più di quel che sfugge alle spiegazioni e che sfida la filosofia a trovare una misura nuova del comprendere la verità, senza interrompere il movimento tra il corpo e la parola, tra la parola e il corpo.

È emerso così un punto di luce, che illumina qualcosa di quel rapporto. Si condensa attorno alle parole di una delle danzatrici che hanno lavorato con Pina Bausch, Anne Marie Benati:

Quando ero una ballerina classica mi nascondevo dietro a una forma. Ora, con Pina, la forma è solo una conseguenza: io riesco ad acchiappare la mia verità e poi in un secondo tempo quella mia verità viene armonicamente sistemata dentro una forma. È così che posso espormi in teatro di fronte al pubblico con tutta me stessa, senza più nascondermi come prima dietro alla forma della danza, ma sempre comunque protetta dentro quella forma che la mia verità, inserita nel contesto formale dello spettacolo, ha ormai acquisito.[11]

Sono parole importanti: la verità che ti tocca e che porti nel pubblico – dicendola, scrivendola incarnandola in un movimento sul palco – chiede una forma in movimento, che si dispiega nella ricerca di parole, immagini e gesti e si espande nei suoi significati. Non è una forma irrigidita dietro a cui nascondersi, perché avvolge una tua verità e nasce dal tessere armonicamente delle relazioni con altre esperienze di verità, dal tenere il filo di quello che si è scoperto, intrecciandolo con altri e altre.

C’è qualcosa di più: ci vuole una forma, perché bisogna essere protette quando sei presente con tutta te stessa e con la verità che ti riguarda. La forma vivente è una difesa, per non esporre la carne viva e per non dare troppo o a chiunque. Ed è necessaria affinché, in ogni scambio, a ciascuna resti la propria parte di mistero e di sorpresa. È un velo che non maschera, ma ripara, un velo «che si imparenta all’aria in cui ogni vivente riposa: nasce, vive e cresce»[12], nell’intrecciarsi di parole e silenzio da cui può affiorare il dono di una parola nuova.


[1] qui potete trovare il video: https://www.youtube.com/watch?v=x4kpb7g95ds

[2] Cfr. Jacques Lacan, Séminaire XII. Problèmes cruciaux pour la psychanalyse, lezione del 17 marzo 1965. Si veda anche Alain Lemosof, L’objet du don n’est pas tout, «Revue du MAUSS», 2012/1, n. 39, pp. 273-292.

[3] Sono le parole di Erminia Macola, Il castello interiore. Il percorso soggettivo nell’esperienza mistica di Giovanni della Croce E Teresa d’Avila, Edizioni Biblioteca dell’immagine, Pordenone 1987.

[4] Maria Milagros Rivera-Garretas, Il piacere femminile è clitorideo, trad. it. di Barbara Verzini, Edizione indipendente, Collana a mano, Madrid e Verona 2021, p. 15.

[5] Maria Milagros Rivera-Garretas, Il piacere femminile è clitorideo, cit., p. 37.

[6] Leonetta Bentivoglio, Il teatro di Pina Bausch, Ubulibri, Milano 1991, p. 13.

[7] Leonetta Bentivoglio, Il teatro di Pina Bausch, cit., p. 25.

[8] Bell hooks, Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, trad. it. di feminoska, Meltemi, Milano 2020.

[9] Leonetta Bentivoglio, Il teatro di Pina Bausch, cit., p. 14.

[10] per il video di questa sequenza: https://www.youtube.com/watch?v=x4kpb7g95ds

[11] Leonetta Bentivoglio, Il teatro di Pina Bausch, cit., p. 28.

[12] Luce Irigaray, La via dell’amore, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 29.