diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo numero 17 – 2020

Grande Seminario 2020 Contagi e contaminazioni. La politica delle donne a confronto con il reale

La lontananza è come il vento. Dialogo sugli spazi dell’imparare

 

 

Maria Livia: Questo intervento, nato su invito di Chiara Zamboni, raccoglie le discussioni inquiete sulle trasformazioni che l’insegnare e l’imparare stanno vivendo. Eravamo sulle soglie dell’estate e avevamo ripreso ad incontrarci in presenza con le amiche di Diotima ed altre, in particolare con Giannina Longobardi, Houda Boukal ed Elena Migliavacca. Circolava grande preoccupazione per i figli adolescenti felici di non essere andati a scuola per tanti mesi, per il disagio delle insegnanti che non hanno amato la didattica a distanza, per un sistema formativo obsoleto che sta vivendo un salto verso il mondo virtuale. Per marcire meglio? Per evolversi?

Letizia Bianchi scrive, rivolgendosi a chi lavora nel settore sociale ed educativo o si forma per farlo frequentando corsi di studio, che la cura non è una materia di cui non si sa nulla e che altri ci insegnano. Si tratta di disporci ad avere consapevolezza e ad aggiungere conoscenza ad una dimensione fondamentale dell’esistenza nostra e di tutti. E questa conoscenza nasce da un movimento soggettivo responsabile che porta nel gioco dei saperi quanto ci viene dall’esperienza stessa di cura, prestata e ricevuta che ognuna e ognuno di noi ha. Ciò che sappiamo in quanto persone che hanno ricevuto cura, ciò che sappiamo di chi ce l’ha data e della sua efficacia, dell’importanza che ha avuto per noi o di come ci è mancata sono preziosi elementi e così pure il modo in cui ripensiamo le persone per noi significative per le cure ricevute da loro o a loro prestate. (Bianchi 2004: 72)

Cito questo passaggio perché credo che valga lo stesso per l’imparare tout court. Se ripensiamo alle situazioni in cui ci capita di imparare, non solo impariamo ciò che impariamo o ci viene insegnato, ma entriamo in contatto con metodi e stili didattici, comprendiamo o ci viene trasmesso anche un come. Credo che questo come sia uno degli elementi pulsanti che mi ha fatto spesso innamorare di alcune maestre, più donne che uomini, che ho incontrato o che ho cercato lungo la via. Perché il come non coincide appieno con il contenuto, ma crea un contesto, un tra, direi un’aria, una fragranza, a volte un gruppo, un ecosistema nutriente. Quella sensazione di respirare che si ha quando si esce da una stanza in cui ha circolato lo stupore di sentirsi sulla via della conoscenza. È su questo ‘come che crea ambiente e occasione di apprendimento’, ovvero sulle mediazioni che lo rendono possibile, che proporremo delle questioni aperte e brucianti.

Riflettendo su quello che sta capitando nel quadro della didattica universitaria è stato inevitabile, in prima battuta, pensare alla relazione tra me e Rosanna, all’esempio vivente che siamo delle questioni che affronteremo oggi. La prossimità tra noi due è quindi il primo spazio di apprendimento che evocheremo. Questo gomito a gomito ne è la misura. La nostra relazione è nata in un’aula grande e anonima che il suo modo di insegnare ha saputo trasformare in un luogo vivente, come fosse una piazza. Ricordo come, ormai una decina di anni fa, l’ordine della lezione frontale ad un certo punto si frantumasse in crocicchi di studentesse che si mettevano a discutere in cerchio con i libri aperti sulle ginocchia o poggiati per terra.

In seguito ho avuto la fortuna di accompagnarla nei diversi spazi del suo lavoro di formatrice, centri diurni, uffici di assistenti sociali, centri di accoglienza, aule scolastiche, stanze piene di giochi di asili nido. Diventare sua compagna di lavoro ha significato affiancarla, stare in compresenza. Questo è uno degli esempi più chiari di cosa voglia dire per me imparare, e imparare un mestiere. Affiancare, stare al fianco di, stare sedute di fronte o accanto, ascoltare, osservare, partecipare ad un’architettura corporea fatta da architravi di risonanze e pavimenti di conversazioni. Poi, stare sotto lo sguardo dell’altra, essere ascoltata, osservata, guardarsi per intendersi senza parole sul corso da dare agli incontri formativi. Insomma, affinare i sensi per mantenere l’orientamento, ampliare la cassa toracica per accogliere gli sguardi e i gesti degli altri, per potenziare la sensibilità e avvicinarsi ad una comprensione di ciò che sta accadendo tra le persone presenti.

Evochiamo queste pratiche perché fondano il luogo da cui ora vi parliamo, che certo ad oggi è un luogo minacciato, sotto assedio. Quanto rischiamo di perderlo? Di esserne spossessate? Le parole e i gesti dello ‘stare e pensare in presenza’ troveranno rifugio e ospitalità, dove? La domanda nasce dai cambiamenti che sta vivendo il sistema formativo, in particolare quello universitario e professionale, in un esodo, più o meno forzato per alcuni, desiderabile per altri, verso il virtuale, il webinar, la lezione online, lo streaming, le videoregistrazioni.

È importante distinguere tra il momento dell’emergenza e gli effetti strutturali che l’emergenza sta avendo sul sistema formativo. Ci chiederemo se ‘tutto era stato già previsto’, non il covid, non in un’ottica complottista, ma certo la didattica blended, e i tentativi della sua implementazione nel sistema italiano che non sono un’invenzione recente dovuta alla pandemia. Di sicuro la pandemia ha contribuito, però, ad accelerare alcuni processi, a portarli alla ribalta, ad escludere altre possibilità e forse alcuni dibattiti. Li chiamiamo quindi effetti strutturali perché assistiamo ad una modifica delle architetture didattiche e delle mediazioni nelle situazioni di apprendimento (installazioni di videocamere all’interno delle aule, software sofisticati che organizzano i tempi e gli spazi della didattica, dei veri e propri ambienti di apprendimento, non a caso ognuno di noi ora ha una stanza su zoom che non può però arredare in nessun modo). Quindi se ora brevemente ripercorreremo quanto di complesso è accaduto da marzo in poi, sarà piuttosto per aprire uno spazio di confronto sul labirinto di contraddizioni e possibilità, per non perdere ciò che può ancora orientarci e una visione desiderabile del mondo, delle città che vorremmo abitare.

Quando il governo ha dichiarato il lockdown e gli strumenti tecnologici hanno supplito nell’insegnamento agli strumenti noti non ho avvertito nessun disagio specifico connesso al loro uso; la mia generazione si serve da molto tempo e abitualmente di zoom, google drive e piattaforme varie per condividere materiali e momenti di incontro. Siamo abituate a dare continuità ad ogni sorta di relazioni online, a lavorare online insieme a persone distanti, in reti europee e globali. Certo insegnare in modalità online prevede una serie di tecniche e di strumenti di cui eravamo all’inizio per lo più sprovviste ma la varietà di stili di insegnamento si è, secondo me, più o meno mantenuta uguale a prima della pandemia: chi proponeva lezioni frontali ha proposto per lo più lezioni registrate, chi insegnando sperimentava pratiche di partecipazione ha inventato, non senza una certa dose di difficoltà e ricerca, didattiche virtuali relazionali.

La paura, il dubbio e la rabbia sono subentrati dopo i primi mesi quando la situazione sembrava non chiarirsi e la didattica a distanza oltre ad essere apprezzata da molti, studenti e insegnanti, si profilava come una integrazione stabile e ben pianificata. Soprattutto, quando l’università continuava ad essere off limits e le ore davanti agli schermi si moltiplicavano a dismisura mentre in città ristoranti, bar e discoteche avevano già riaperto. Quando da didattica d’emergenza si è iniziato a parlare di didattica integrata è stato molto chiaro che stavamo assistendo e contribuendo, nostro malgrado, ad una radicale trasformazione del significato stesso di fare l’insegnante, di tenere un corso. Cosa stava davvero capitando? Per me che insegno da sette anni si è profilata anche la domanda, e mi pare ancora la più rilevante: se continuassi a fare questo mestiere di quali strumenti e saper fare dovrei impratichirmi? Quali delle mie facoltà umane e sensibilità intellettuali e corporee svilupperei proponendo efficaci lezioni online o webinar?

 

Rosanna: A inizio aprile 2020 iniziavo un laboratorio di narrazione, una delle pochissime occasioni formative per le future educatrici in cui è possibile sperimentare processi di apprendimento dall’esperienza. Quest’anno è stato ‘on-line’. Scrivo nel diario:

 

Trasformo il laboratorio dedicato alle emozioni in lezioni streaming, sul rettangolo dello schermo ci stiamo tutte. Ma non c’è contatto di sguardi, di lacrime e sorrisi. Se qualcuna si emozionerà sarà probabilmente in un dopo, in un altrove, da sola. La scrittura condivisa di un diario, come un filo, terrà insieme i vissuti ma i ricami che intrecciano le esperienze agli apprendimenti delle giovani donne e di me non ci saranno. Così trovo conforto in una frase del dialogo tra l’Infanta Imperatrice e il Vecchio della Montagna Vagante ne ‘La storia infinità di Michael Ende. Sul libro “L’Infanta Imperatrice” lesse quello che vi era scritto. Era esattamente ciò che accadeva in quello stesso istante e cioè: «tutto ciò che accade, tu lo scrivi», disse. «Tutto ciò che io scrivo, accade», fu la risposta. (Ende 1984:196).

 

Potevamo invertire la sequenza delle frasi: “Ciò che io scrivo accade; ciò che accade tu lo scrivi”. L’illusione benefica che la lettura di testi e la scrittura di sé potesse far accadere anche nella lontananza mi ha accompagnato tra un appuntamento e l’altro. Nel diario condiviso Arianna scrive:

 

“sto svolgendo il laboratorio narrazioni’’ dalla mia cucina. Abbiamo affrontato il tema della scrittura in una chiave che non avevo mai considerato. Più che altro penso sia stato affascinante scoprire questa tematica in questo momento storico della nostra vita perché abbiamo molto più tempo da trascorrere con noi stesse, per potersi capire più a fondo di quanto non si sia mai fatto prima.

 

I corpi e gli spazi hanno avuto un’assenza sempre presente nelle riflessioni di tutte. Scrive Chiara:

 

Ciò che mi ha fatto riflettere maggiormente è stato il momento del saluto perché nell’istante in cui la webcam si è spenta e mi sono alzata dalla sedia ero già a casa; non dovevo andare in stazione e non potevo parlare con le mie amiche su come era sembrata loro la lezione, ancora una volta è avvenuto tutto online. Ecco, la fisicità mi manca molto come mi manca Verona, le mie compagne.

 

Il desiderio di ritrovarci non si era perso. Era rimasta un’acquolina in bocca, pregustavamo tutte l’imparare in presenza.

In questo inizio del nuovo anno accademico si è reso invece stabile in molte università italiane la didattica blended e duale, un modello ibrido che comprende insieme e simultaneamente insegnamento in presenza e a distanza. Nella didattica a distanza, il docente può scegliere se registrare la lezione con il programma panopto e lo studente, in differita, vi accede quando preferisce. Oppure in streaming, tutti si collegano all’orario stabilito per la lezione attraverso un link. La lezione viene registrata. La modalità doppia prevede la presenza in aula degli studenti, altri in streaming a casa. L’ateneo di Verona obbliga i docenti alla registrazione di queste lezioni, mentre altre università non hanno imposto la registrazione. La videocamera è puntata sulla postazione della cattedra. Se nell’aula non si dispone di un microfono ‘volante’ gli interventi degli studenti durante la lezione non sono udibili, si perdono. In questo modo un docente parla ai presenti, a quelli a casa e sa che altri vedranno il video in differita. Una delle motivazioni a sostegno dell’obbligatorietà delle registrazioni è la fruizione per i ‘non frequentanti’. Ma i non frequentanti sono sempre esistiti nei nostri corsi di studio!, in quanto non c’è l’obbligo della frequenza. A chi si rivolge dunque la docente? ai presenti? ai distanti? a quelli che lo ascolteranno domani? Questo crea una certa confusione, un offuscamento. In alcune università sono state fornite delle linee guida alla didattica a distanza che consigliano ai professori di limitare il tempo di parola in quanto la durata dell’attenzione si restringe, di semplificare il linguaggio, di eliminare dalle registrazioni ogni riferimento al contesto, luogo e tempo… (prima lezione, seconda, come ho detto prima, la prossima volta).

Permette la registrazione il sistema panopto che memorizza una quantità infinita di immagini nella sua ‘nube’ (cloud), senza alcun limite di spazio. Le nubi illimitate di panopto mi pare oscurino il cielo, mentre l’illusione dell’illimitato s’infrange contro il nome dello strumento: il panopticon è per eccellenza l’architettura carceraria.

L’insegnamento è forse destinato a diventare come una televisione on demand? Già facebook o instagram ci danno una idea del mercato della formazione e dei convegni con una enorme proposta di live, webinar, come se fosse appunto un canale televisivo. Molti fattori porterebbero a pensare che il modello blended (misto) non abbia carattere emergenziale, tuttavia la sua implementazione ha richiesto solidi investimenti di capitali. Come si sta rispondendo al bisogno di istruzione confrontato con un diffuso impoverimento economico causato dalla pandemia? Quali polarizzazioni sociali e quali povertà si stanno manifestando all’interno delle scelte istituzionali delle Università? Il decreto di rilancio comprende un ‘pacchetto’ di aiuti economici alle università e una parte ingente è dedicata alla spesa di tecnologie blended. Per incrementare le entrate degli Atenei sono stati tolti i test d’ingresso ad alcuni corsi di studio e aumentati i numeri delle iscrizioni. Se questo potrebbe essere un aspetto ragionevole che apre possibilità a più persone di accedere all’università non lo è per il basso numero di docenti in relazione all’aumento degli studenti. Non sarebbe auspicabile, per far fronte alle difficoltà economiche di molte famiglie e di tanti studenti, ridurre le tasse?, dare un aiuto per gli affitti?, rendere l’università accessibile alle disabilità? E ancora rendere in ruolo i tantissimi ‘docenti a contratto’? Senza la loro precarietà molti corsi di studio degli atenei italiani sarebbero costretti a chiudere.

Le tecnologie non sono neutrali: il medium è il messaggio. Nel 1967 McLuhan affermava che il contenuto della trasmissione ha un effetto minimo, ad esempio, se la televisione trasmettesse programmi per bambini o spettacoli violenti, l’influenza di questo medium sarebbe la stessa. Il vero messaggio che ogni medium trasmette è costituito dalla natura del medium stesso. Alcuni medium, secondo McLuhan, assolvono soprattutto alla funzione di rassicurare. Le immagini trasmesse sullo schermo non creano e non suscitano delle novità, la tv è un mezzo che massaggia, conforta, consola e conferma. Le tecnologie digitali sono tecniche del corpo e della relazione: riduzione del corpo vissuto a terminale visivo-uditivo potenziato tecnologicamente; da relazione vivente a simulazione di presenze in cui la comunicazione è sempre in differita. I medium che usiamo quale forma mentis costruiscono nelle situazioni di insegnamento e apprendimento? È come se studenti e studentesse diventassero voyeurs del processo di apprendimento. Spiare la lezione dal dietro dello schermo oscurato, come si guarda dal buco della serratura. O ancora un altro esempio potrebbe essere: tra insegnare in presenza e online c’è la stessa differenza che possiamo facilmente sperimentare tra imparare a nuotare in piscina o al mare, si imparano forse meglio tutti gli stili in un ambiente sanificato, ma si perde la relazione con il paesaggio, i pericoli e la bellezza.

Le insidie del modello misto di digitalizzazione integrale dell’università sono velate di una retorica dell’uguaglianza, delle opportunità e della fruibilità, dell’apertura. Le retoriche della Didattica a Distanza si nutrono di categorie equivoche come ad esempio “inclusione”: studenti-lavoratori, pendolari, studentesse-madri, persone con disabilità, che, grazie alla tecnologia, verrebbero facilmente “inclusi”. Per essere inclusi ci si deve smaterializzare!? Un’altra categoria le “expanding education” che prende anche il nome di MOOC (Massive Open Online Courses), è una tecnologia dell’istruzione usata per costruire corsi a distanza dove l’accesso è consentito a chiunque possa permetterselo, come un prodotto industriale, non c’è una classe fisicamente presente e coinvolge un numero elevato di utenti. Non sarebbe meglio concepire luoghi per imparare diffusi sul territorio, aule a porte aperte, materiali sui siti a libero accesso senza password, riviste scaricabili senza carta di credito, facoltà senza numero chiuso, luoghi dove i saperi situati della vita possano dirsi in forme collettive e conviviali?

Una terza seduzione è legata alla “partecipazione”, sorretta dai social network che promettono un “protagonismo dal basso”. Oggi entrano all’università i nati nel 2001 e 2002, – definiti ‘nativi digitali’ che vivono le dinamiche della “cultura partecipativa”. Dinamiche particolarmente coerenti con lo stile di progettazione e di fruizione di molti MOOC. Sono seduzioni a cui i docenti sono sensibili: risparmi tempo, registri e rimane qualcosa della tua lezione. Programmiamo le attività a distanza così non siamo più condizionati dal contesto e dal suo variare”, si risparmia tempo e denaro: niente treno, stanza in affitto. Su chi e cosa stiamo risparmiando? Uno studente che può ascoltare all’infinito la lezione e quindi ripetere ancora meglio? Illich direbbe che si tratta di “un’interiorizzazione duplicativa” (Illich 2013:188). Quali abitudini inducono il permanere di una didattica a distanza? dell’interfaccia? quale ambiente scompare? quale condizionamento alla percezione di sé e della relazione con il mondo?

 

Maria Livia: Per quanto riguarda le docenti precarie la didattica a distanza facilita enormemente dal punto di vista logistico il loro compito di barcamenarsi tra incarichi presso diversi atenei nel mercato accademico nazionale e globale.

Aumentano le possibilità, aumenta la competizione. Si può lavorare da ovunque e dispensare un servizio verso ovunque. L’insegnamento si veicola in uno spazio decontestualizzato.

In ogni caso “Eravamo già distanti”. Facendo eco al titolo di un incontro alla Libreria delle donne di Padova prendo a prestito questa espressione perché aiuta a fare un passo in più, ovvero a riflettere sugli effetti del periodo covid senza assolutizzarlo, illuminandone continuità e discontinuità. Vi leggo a questo proposito un passaggio di un diario scritto il primo giorno di un corso. Era gennaio 2020, non si parlava di pandemia, io iniziavo un corso per la prima volta e la vita accademica scorreva regolarmente. Ecco come era la regola.

 

Un’aula ad anfiteatro, 250 posti. I ragazzi iniziano ad entrare, circa 80-90, lasciano le prime otto-nove file vuote, si crea un baratro tra di noi. Non vedo i loro visi, vedo i computer aperti, samsung, apple, asus…neri, bianchi, grigi. È previsto che io mi metta al pc alla cattedra, microfono talk-show, un enorme schermo dietro di me come fosse un cinema. Ho chiesto se fosse possibile avere un microfono senza fili per spostarmi agilmente tra i banchi ma il filo del microfono riusciva ad arrivare appena alla soglia dell’anfiteatro, continuavo a vedere solo i pc e in più dal basso. Quanto conta come disponiamo gli spazi di apprendimento a partire dai nostri corpi che sono i primi mobili? Quindi mi sono mossa lateralmente alla cattedra, ho trovato un punto di vista obliquo che mi permetteva di scartare il panorama dei pc e ritrovare i loro visi, gli ho detto che avrei mandato le slide il giorno stesso, che potevano registrare. <Ragazzi, come si fa a fare lezione? Si vede solo il vostro computer>, <ma loro vogliono così> mi hanno risposto. Molti hanno poi chiuso i computer. Che fossero stanchi anche loro di questa modalità?

 

Era questa la normalità? Che differenza fa guardare novanta pc in aula o novanta icone nere sullo schermo del pc su zoom, se il video è spento, o novanta icone-visi, se il video è acceso? Il passaggio verso l’online è comodo e direi vantaggioso per tutti. Ma se il ragionamento finisse qui, sarebbe una strada senza uscita, e comporterebbe una certa pigra, collettiva sconfitta. Se diamo per dati gli spazi, le strutture, le aule, le sedie inchiodate, gli schermi, se diamo per dato il sistema, cosa ci resta?

 

Rosanna: Insieme a Chiara Sità, Federica de Cordova, Paola Dusi, Antonia De Vita, abbiamo steso e condiviso una lettera firmata anche da altri colleghi e dagli studenti della commissione paritetica del Dipartimento di Scienze Umane, intitolata “Il tempo propizio”, indirizzata all’attenzione del prof. Federico Schena, Delegato alla Didattica dell’Ateneo e per conoscenza: al Rettore e alla dirigente dott.ssa Maja Feldt, così iniziava: “Nel periodo di post-emergenza nel mondo dell’Università è emerso un bisogno diffuso di ricominciare a stare in presenza, di non eliminare i corpi dalla formazione, di affinare le sensibilità e le competenze cosiddette “trasversali” nella relazione interpersonale, di proporre momenti di scambio e di produzione di pensiero tra studenti e docenti. Questi elementi differenziano l’Università pubblica da tutti quegli istituti che si limitano a una astratta erogazione di servizi di formazione.”

Era il 18 giugno 2020. Ci sembrò un tempo propizio per rinnovare il nostro lavoro di insegnanti, per non tornare più come prima, per ripensarci in dialogo, nel reciproco nutrimento con le e gli studenti. Abbiamo provato a contrattare un tempo in presenza e a proporre modalità di lezione diverse dalle registrazioni, ma non siamo ancora riuscite a trovare uno spazio concreto. Per usare una postura cara a Luisa Muraro, stiamo imparando “come non cedere sui desideri [anche] quando il confronto con la realtà sembra perdente” (Muraro 2009:7). La contrattazione instancabile può esistere se ci unisce una dimensione politica delle cose che desideriamo. Stare in prossimità di alcune donne, e tra queste Maria Livia, mi aiuta a mantenere vivo il respiro del desiderio e a non dimenticarmi che il reale non è indifferente al desiderio e non assiste indifferente alla passione del desiderare” (Muraro 2009:8).

 

Maria Livia: Da docente e ricercatrice precaria sono tornata all’università i primi giorni di settembre, dopo otto mesi. La sensazione era quella di un luogo abbandonato, come un castello nel quale un incantesimo aveva sospeso tutto: le piante appassite, i corridoi molto più silenziosi del solito, le luci spente, le porte chiuse. Cosa sarà di questi spazi? Chi otterrà il privilegio di usare le aule? Veniva quasi voglia di occupare quello spazio immenso, finalmente libero, e così pieno di cose utili e costose.

È bastato guardare fuori dalla finestra per ricordarmi che nei mesi passati il nostro desiderio di apprendere non aveva subito un arresto né un indebolimento, non aveva cioè subito lo stesso incantesimo. Il desiderio di conoscenza ha cercato altri luoghi, altre vie. La tensione verso la conoscenza non corrisponde a nessuno spazio istituzionale, ha una vita sua che trova sempre dove andare, con chi stare. Pensare le mediazioni significa anche non pensare il processo di apprendimento nei limiti di ciò che accade dentro le aule. Le aule sono solo il punto di arrivo più visibile e privilegiato da tutti di questo processo. L’attenzione di tutti, ora pure le telecamere, sono puntate dentro l’aula. Che riduzione è di come si apprende? Molti luoghi sono venuti alla ribalta, come quando la luce della città si spegne, ecco apparire un’infinità di stelle. Su zoom, e poi non appena possibile abbiamo iniziato ad abitare il giardino dell’università, le biblioteche di quartiere, gli spazi delle circoscrizioni, le stanze di alcune associazioni, del centro interculturale. La pratica è quella dei piccoli gruppi, come è sempre stato ma ora ben di più, per questo direi che il nostro lavoro invece di arrestarsi si è moltiplicato. Accentuare il nomadismo è una pratica che spezza le abitudini ma preserva l’orientamento. Una costellazione di spazi in città in cui teniamo i convegni, gli incontri, i seminari, le formazioni. Mettere a frutto gli spazi sociali della comunità rendendoli luoghi di apprendimento è una intuizione di lunga data. Gramsci lo proponeva per le fabbriche e per me che sono cresciuta nel femminismo i luoghi delle donne sono sempre stati luoghi di formazione a partire da sé.

“Una grande illusione sulla quale si fonda il sistema scolastico è che molto dell’apprendimento derivi dall’insegnamento. Quest’ultimo, è vero, può in determinate circostanze facilitare certi tipi di apprendimento. Ma i più acquistano la maggior parte della loro cultura fuori della scuola, oppure a scuola, ma solo perché in alcuni paesi ricchi la scuola è diventata un luogo di confinamento per una parte sempre più lunga della vita”. (Illich 2019:33).

L’ultimo convegno ad ottobre, complice il bel tempo, ci siamo ritrovate rocambolescamente, -per una serie di imprevisti e di nuove regole per il contenimento del virus- nel cortile alberato di un centro culturale di quartiere mentre le foglie dorate dell’autunno volavano nell’aria ad ascoltare un magistrale intervento di Chiara Zamboni e a tenere diversi cerchi narrativi. Mi ha fatto molto riflettere che il momento più bello e intenso del convegno sia stato frutto di una serie di imprevisti e di regole nuove che erano arrivate a scombussolare la nostra organizzazione, generando per di più tra le organizzatrici dissapori e insofferenza. Come mai la nostra immaginazione e le relazioni non si erano autonomamente orientate a quel momento di bellezza? Forse ci è sembrato così bello perché imprevisto? O forse la bellezza non si organizza, non si prevede, forse nasce solo da quel contatto immediato e profondo con le situazioni che accadono? Forse sì, ma credo anche che ciò che non è prevedibile, per quanto amaro, ci risvegli rispetto a quella sorta di automoderazione, di abitudine, di routine cognitiva nelle quali conduciamo le nostre esistenze. Abitare con presenza gli eventi che accadono è un’occasione per le invenzioni simboliche che servono appunto ad aprire la strada della libertà attraverso gli impedimenti, usando questi ultimi come vere e proprie leve.

O come direbbe Lorenzoni, a ritrovare la forza per rivedere le categorie dell’impossibile.

Prima dicevo come quando la luce della città si spegne, ecco apparire una infinità di stelle. Ma evocare il cielo e le stelle non è solo una metafora. Durante il lockdown ho iniziato a guardare il cielo. È stato un moto interiore spontaneo, forse una ricerca istintiva di qualcosa di sconfinato. Mi sono resa conto che nella vita scandita dai ritmi affrettati e organizzati (del tempo non di vacanza), non mi ero mai soffermata a guardarlo. Sul profilo Facebook Rompere le distanze aperto da insegnanti ed educatori durante il periodo di confinamento mi è sembrato geniale che venissero proposte una serie di attività di organizzazione di osservazione dalle finestre di casa del cielo, delle stelle, dei pianeti per accrescere e mettere in primo piano l’osservazione e la percezione. “Sotto lo stesso cielo”, una esperienza di relazione con la dimensione del lontano che invece di creare distanza dà una percezione di comunione. È necessario che la mediazione alla conoscenza sia a portata della sensibilità, che non ci alieni. Il cielo è sempre lì. Anche una scuola che non ha un giardino ha il cielo, ha una terrazza sul tetto, dice Lorenzoni. Mentre la didattica mainstream proponeva una strutturazione della distanza attraverso il virtuale che, a lungo andare, non fa che accrescere le distanze (da sé, dalle proprie percezioni, dalla relazione consapevole tra sé e gli altri), lavorare sull’idea di lontananza manteneva degli aspetti umanizzanti dell’assenza. La distanza è costruita ad hoc, la lontananza è una esperienza umana. Da sempre gli esseri umani sono nell’apprendimento di come vivere la lontananza. La lontananza è cosa viva, sempre soggetta al desiderio di raggiungersi o stare lontani o alle possibilità di chi è coinvolto; la distanza invece è una struttura rigida che procede per protocollo, per decreto.

La lontananza è come il vento è una immagine che evoca la natura primariamente sensibile di questa esperienza umana. La lontananza ci sfiora, ci tocca. A volta ci sferza con le spade del ricordo. Per questo, nonostante il popolare detto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, specialmente chi ha esperienza di vissuti diasporici e ora anche pandemici – si direbbe – sa che in verità la lontananza è come il vento, “fa dimenticare chi non s’ama. Spegne i fuochi piccoli, accende quelli grandi.” D’altra parte, Modugno era un migrante. La lontananza non si può programmare né organizzare. La diaspora ci insegna infinite modalità per rendere viva questa lontananza, anche grazie alla tecnologia, per addolcire i suoi morsi, ma non per colmarla o strutturarla. Se non fosse così non ci sarebbero state odissee, esodi, né movimenti infiniti e sacri di ritorno. Se non fosse così’, cioè, non ci sarebbe né apprendimento né conoscenza. Il lontano è sensibile come si avverte subito sfogliando un dizionario di greco antico, la lingua dalla quale la lingua italiana mutua il prefisso tele. Telebòas che fa sentire lontano il suo grido, telebòlos che colpisce da lontano, teleplànos che va errando lontano, telefanès che è percepibile da lontano, telèfilon che è innamorato da lontano foglia di papavero che si faceva sulla mano per congetturare la corrispondenza in amore da parte di persona lontana, telebatès molto profondo. Sono parole che ci riportano alla logica di una lontananza sensitiva, che dicono di percezioni reali. In questa visione è possibile vivere l’assenza umanizzandola, per esercitarci a vivere in contatto con il non tangibile, e con l’infinito che schiude.

In un testo stupendo sul conoscere intitolato “L’occhio del vento”, Tim Ingold incoraggia ad abbandonare la presunzione di assistere sempre a una scena che ci viene offerta tutta in una volta, come in uno spettacolo. Non è forse così che si sente chi sta su zoom? Ingold prende l’esempio di un bosco. Come guardare il bosco? “Sii come il vento che scuote questi alberi. Va’ più in profondità. Ciò significa guadagnare il punto di vista del vento: gli occhi del vento non guardano gli alberi ma vagano tra essi facendoli muovere in maniera impercettibile, osservandoli mentre si ravvivano al tocco della vista. Sono gli stessi occhi che Pallasmaa chiama gli occhi della pelle, occhi che accarezzano le superfici, i contorni e i bordi delle cose. Non sono occhi allenati a distinguere e individuare oggetti individuali […]. Normalmente tendiamo a guardare il mondo già fissato nelle sue forme finali. Abitare il mondo invece è unirsi, sentirsi parte dei processi di formazione delle forme. Significa far parte di un mondo dinamico di energie, forze, flussi.” La lontananza è, in sintesi, una dimensione in cui chi vive l’assenza è sempre coinvolto, a cui non si può assistere; perché è una dimensione interiore prima di essere esteriore, è una forma di conoscenza che parte dal di dentro.

D’altra parte, la lontananza non è una cifra costitutiva delle situazioni in cui si apprende? È la misura della trasformazione, che solo dall’interno si può fino in fondo prendere, tra il non sapere, la coscienza di non sapere, la coscienza di sapere. Non a caso si parla di ‘percorsi’ formativi. Imparare è come essere un personaggio di una fiaba o di una odissea o di un lungo volo. Quando si parla di apprendere si evoca sempre un altrove, un punto di approdo, tristemente scaduto ad obiettivi formativi. Lungo il percorso ci sono insidie, incontri straordinari, coincidenze miracolose, oggetti magici, labirinti, pozzi che sboccano su mondi altri, formule che schiudono ricchezze.

Mi sembra siano delle costanti nella vita di un gruppo che impara. Anche quando non se ne prende coscienza, anche quando non se ne parla. Ci sono piccoli indizi che rendono possibile l’accorgersi della potenza di un percorso di apprendimento, per esempio quando si assiste al passaggio dal deserto del silenzio alla voce di chi prende parola. Oppure dai fiumi di parole alla densità del silenzio. O ancora dalla pagina bianca alla scrittura balbettante, per esempio della tesi. È spesso una strada disseminata di disagi e piccole sofferenze perché sembra che debba condurre all’affermazione di un ‘Io penso’ e per molte persone, soprattutto donne, è difficile identificarsi in un Io penso. Luisa Muraro scrive di questa difficoltà e di come nasca da una forma di ricerca della verità che include l’alterità, la presenza di un Altro a cui fare costantemente riferimento.

A nessun livello la conoscenza si fonda sulla separazione. C’è una corrispondenza segreta quasi impossibile da comprendere tra l’estremamente vicino e l’estremamente lontano, tra ciò che è massimamente intimo e ciò che è irraggiungibile.

 

Rosanna: Anna Maria Ortese ci porta a scoprire la visione di ‘un corpo celeste’:

 

Col nome di corpi celesti venivano indicati, nei testi scolastici di anni lontanissimi, tutti quegli oggetti che riempiono lo spazio intorno alla Terra. E anche il nome oggetto, riferito a quello spazio, allora incontaminato, purissimo, si colorava pallidamente di azzurro. Noi – che sfogliavamo quei testi e ammiravamo quelle carte della volta celeste – eravamo invece sulla Terra, che non era un corpo celeste, ma era data come una palla scura, terrosa, niente affatto aerea. Perciò, durante tutta una vita, poteva accadere che, guardando di sera, nella luce tranquilla della campagna, quel vasto spazio sopra di noi, pensassimo vagamente: “Oh, potessimo anche noi trovarci lassù!”. Le leggende e i testi scolastici parlavano di quello spazio azzurro e di quei corpi celesti quasi come di un sovramondo. […] Mai avremmo conosciuto da vicino un corpo celeste! Non eravamo degni!, pensava l’anon-imo studente. Invece, su un corpo celeste, su un oggetto azzurro, collocato nello spazio, proveniente da lontano, o immobile in quel punto (così sembrava) da epoche immemorabili, vivevamo anche noi: corpo celeste e oggetto del sovramondo, era anche la Terra, una volta sollevato delicatamente quel cartellino con nome di pianeta Terra. Eravamo quel sovramondo (Ortese 2007: 9-10).

 

 

 

 

Bibliografia

 

Bianchi Letizia, Cura familiare, cura professionale in Il lavoro di cura. Come si impara, come si insegna, a cura di Grazia Colombo, Emanuela Cocever, Letizia Bianchi, Carocci, Roma, 2004.

Hende Michael, La storia infinita, Longanesi & C, Milano 1984.

Illich Ivan, La perdita dei sensi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2013.

Illich Ivan, Descolarizzare la società, Mimesis Edizioni, Milano 2019.

Ingold Tim, Making. Antropologia, archeologia, arte e architettura, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019.

McLuhan Marshall, Fiore Quentin, The Medium is the Message. An Inventory of Effects, Bantam Books, New York 1967.

Muraro Luisa, Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2009.

Ortese Anna Maria, Corpo Celeste, Adelphi, Milano 2007.

 

Sitografia

 

Valeria Pinto

Didattica blended: una tappa verso l’università delle piattaforme? | ROARS.

Federico Bertoni, Davide Borrelli, Maria Chiara Pievatolo, Valeria Pinto

Università: quello che siamo, quello che vogliamo > Bollettino telematico di filosofia politica (unipi.it).

Università Digitale

Università Digitale: tavolo CRUI-MIUR e Piano nazionale, i prossimi passi – CRUI – Conferenza dei Rettori delle Università italiane

http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/Distanza_universita.html?fbclid=IwAR2X_rLUx864WGH6J0CC7aWHFYN2Kw2yBXuVgR9q1mh4GVH9KUh5IBs1Sys