diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 5 - 2006

Taglio del presente

La lezione di Ratisbona  

 

 

 

I fatti sono noti, il 12 settembre 2006 il capo della Chiesa cattolica, Benedetto XVI, nel corso di un viaggio nella sua terra natale, ha fatto lezione all’Università di Regensburg (Ratisbona) sul tema: fede, ragione e università, il terzo termine avendo un significato pregnante e difficile da rendere, che potrebbe essere, con parole dell’oratore, il luogo o istituzione del dialogo “nel tutto dell’unica ragione”, significato molto impegnativo ed esposto ad un’inevitabile obiezione, che riguarda la difficoltà di accordarlo con la secolare esclusione delle donne dall’istituzione universitaria. Ma restiamo all’episodio in questione: alcuni riferimenti fatti nel corso della lezione all’islam e a Maometto, hanno provocato un’ondata di proteste in quasi tutto il mondo islamico, placata dalle scuse del papa e dalla diplomazia vaticana, ma non interamente mentre io scrivo, insieme ad una straordinaria massa di commenti e interpretazioni che hanno portato il papa sulle prime pagine dei giornali, come ai tempi di Giovanni Paolo II. Si è parlato poco di quello che Ratzinger ha detto e molto di quello che ha fatto, che potremmo chiamare una (involontaria, alcuni dicono e altri negano) provocazione nei confronti dell’islam. Ma forse le cose non sono così semplicisticamente sconnesse, forse invece sono tra loro intrecciate; comunque sia, io vorrei tentare una lettura in equilibrio sui due versanti, quello dottrinale e quello politico.

Semplificando, si può ripartire la responsabilità dell’accaduto, per quello che ha di negativo, in tre parti: la divulgazione giornalistica (che ha qualche scusante nella lezione, in sé perfettamente intelligibile ma teoricamente impegnativa), la sensibilità del mondo islamico (che ha molte scusanti e una buona ragione, la causa palestinese sempre in alto mare) e una certa ambiguità della lezione stessa.

Cominciamo da quest’ultima. Volendo introdurre una tesi cruciale: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio, Ratzinger fa riferimento alla presa di posizione di un imperatore bizantino in guerra con i Turchi e sprezzante verso il messaggio di Maometto. Strana scelta, che molti hanno considerato più che inopportuna, sconsiderata, ma che potrebbe avere un senso preciso. Può essere che Ratzinger abbia voluto chiamare l’Islam ad un confronto ad alto livello sul terreno della forza della ragione che può (e deve) prendere il posto della violenza. In una situazione di rinnovato, grave conflitto dove molti, sia cristiani sia islamici, ricorrono alla forza e si appellano a Dio, ecco che uno dei contendenti si appella alla forza della ragione come unica forza rispondente alla natura di Dio e chiama l’altro al confronto.

Va in questo senso anche un’altra stranezza, poco notata ma non trascurabile, secondo me, e cioè che il papa-docente commenta le parole di Manuele II Paleologo, dicendo che si esprime in una maniera sorprendentemente aspra, rude… Un minimo di senso storico obbliga a protestare che no: quel modo di esprimersi, da parte di un imperatore cristiano del sec. XIV che tenta di arrestare l’avanzata turca, è normale, e se c’è qualcosa che sorprende, è nella sua ripresa da parte del papa di Roma, oggi. E subito ci si ricorda che questo stesso papa, contravvenendo alle regole della diplomazia vaticana, ha ricevuto in udienza un personaggio controverso come la povera Oriana Fallaci, autrice di testi antislamici al limite del razzismo. Un altro lapsus? Forse, ma quello che traspare, in ogni caso, è un intento di attualizzazione della storia conflittuale fra cristiani e islamici, che è in contrasto con i passati orientamenti della Santa Sede (pare a me, che però non sono un’esperta), ma che  certamente è finalizzato non allo scontro bensì al confronto. Da quest’ultimo punto di vista, sia detto per inciso, manca sensibilmente al testo, e forse manca all’uomo, ogni accento d’ammirazione per l’islam, la cui cultura ha aspetti sublimi proprio dal punto di vista religioso.

Qualcuno potrebbe obiettare che, per il presente, non ha senso parlare di un conflitto tra cristianesimo e islam, perché la situazione conflittuale di oggi, a parte certe pericolose fantasie di guerra di religione che la Chiesa cattolica respinge, nasce piuttosto dall’ostilità crescente di una parte del mondo islamico nei confronti dell’invadenza del cosiddetto Occidente (che, in realtà, sono i paesi che fanno capo agli Usa). Io sono d’accordo: esistono molte situazioni conflittuali in cui c’entra anche la religione, a livello locale, mentre una situazione di conflitto o confronto sul piano religioso, a livello globale, non c’è. Ma ecco che la sua possibilità a Ratisbona è stata evocata, ed è questo il punto, è questo che è capitato, che la possibilità di un confronto religioso, in primo luogo teologico, tra cristianesimo e islam è stata evocata. Evocata, e in una certa misura abbozzata, con un intento duplice, sempre secondo la mia lettura: da una parte, spostare i contrasti su un piano più alto e degno, quello della teologia, dall’altra, chiamare i paesi di tradizione cristiana a farsi forti della loro eredità. Si potrebbe anche riassumerlo in un unico intento, che è di restituire protagonismo alla dimensione religiosa nella nostra civiltà attivandola non a livello settario ma a livello di ricerca razionale.

Chi vuole capire Ratisbona dal punto di vista sia politico sia dottrinale, deve tener conto che il papa ha interpellato l’Islam avendo presente la nostra società, la cui posizione lui stesso considera intrinsecamente povera e debole. La parte maggiore della lezione è dedicata a fare la storia di questa debolezza, cominciata all’interno del pensiero cristiano con un processo che prende il nome di deellenizzazione del cristianesimo, vale a dire con l’espulsione dell’idea greca del logos (parola e ragione) dal pensiero cristiano.

In questa parte è ben riconoscibile, detto per inciso, una tematica svolta nei primi anni Settanta da Gustavo Bontadini, Metafisica e deellenizzazione (Milano 1975), che polemizza con pensatori del tempo, sia teologi sia filosofi, fra i quali Vattimo, al quale va questo grazioso incipit: “La schiera dei deellenizzatori s’è arricchita del nome di Gianni Vattimo: acquisto di peso, dato che si tratta d’una delle migliori intelligenze filosofiche della giovane generazione”. I punti in comune fra il filosofo dell’Università cattolica di Milano e il docente di Ratisbona, sono molti, fra i quali spicca la domanda se qualcosa dell’eredità greca sia incorporato nella dottrina cristiana in maniera essenziale. La risposta di entrambi, in polemica con la deellenizzazione della teologia cristiana, è affermativa, il che, sia chiaro, non equivale ad escludere una fede ignara e ignorante. Ma, rispetto agli anni Settanta, il paesaggio è enormemente cambiato, per la fine del socialismo e per tutto quello che si chiama globalizzazione, ed è in questo mutato paesaggio che il docente di Ratisbona trova un argomento che sarebbe piaciuto a Bontadini: la nozione moderna di ragione che si è ristretta entro limiti che lasciano fuori gli interrogativi essenziali dell’uomo e lo stesso nome di Dio, si è resa inadeguata ad un vero dialogo con l’umanità intera. “Nel mondo occidentale, leggiamo, domina largamente l’opinione che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia che ne derivano, siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più profonde.”

È questa la tesi conclusiva, della lezione, con la quale io consento, fatta salva la differenza di percorso. Detto in breve, la lotta per la libertà femminile, unita alla lettura di alcune filosofe, ultima in ordine di tempo Iris Murdoch, mi ha portato a vedere la pochezza di una razionalità che sta ai rapporti di forza e si attiene alla sola verifica empirica, che non si sbilancia per il vero e per il buono, e che in pratica offre, come uniche alternative ad un lavoro critico senza fine, la scelta puramente individuale o la fede settaria.

Ma resta una perplessità davanti al fatto che il papa-docente, invitando la società “occidentale” a ritrovare il meglio dell’antica eredità greca e cristiana, ed entrando così in una geografia politica e religiosa alquanto arrischiata, non formuli, contestualmente, un forte invito a coloro che gli sono più vicini e possono ascoltarlo, affinché depongano il linguaggio e i comportamenti che impediscono il dialogo: sembra non sfiorarlo il timore, piuttosto ovvio nel presente contesto storico, che l’invito a ritrovare una grandezza perduta sia finalizzato più al confronto-scontro, che non al confronto-dialogo. Al di là delle buone intenzioni, quello che egli cerca è una potenza spirituale da affiancare oppure da sostituire a quella dei soldi e delle armi?

Torna il sentimento di una certa ambiguità. La cui fonte potrebbe trovarsi, molto semplicemente, nella doppia figura di Ratzinger a Ratisbona, uno studioso che fa lezione all’università ma che non smette di essere il capo autorevole di una chiesa, una combinazione che alcuni commentatori cattolici hanno giudicato inopportuna, se non impraticabile.

Un mio amico teologo e studioso delle origini del cristianesimo, Bernard Van Meenen, ci suggerisce invece di pensare che siamo in presenza di una novità storica, ossia di un papa, come ce ne sono stati alcuni in tempi lontani, che intende operare teologicamente, senza separare il piano del pensiero pensante (ricercante, interrogante) e quello dell’agire politico. Vuol dire che il papa fa sua la parola disarmata dello studioso e che lo studioso accetta la responsabilità del papa? È una veduta molto interessante, per quello che fa capire e, soprattutto, per la prospettiva che suggerisce. Infatti, non solo aiuta ad eliminare la ridicola e persistente idea che molti si sono fatti dell’infallibilità del papa, non solo si accorda bene con quel programma della teologia che Ratzinger formula verso la fine della lezione, avere il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non ridurne la grandezza (secondo le istanze del criticismo kantiano), perché solo a questa condizione “una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica entra nel dibattito del tempo presente” (io sottolineo). Essa mette tutta la faccenda di Ratisbona in una prospettiva di politica del simbolico, che nel femminismo della differenza abbiamo sintetizzato in questa formula: il massimo di autorità con il minimo del potere. Non un ideale ma l’idea guida di una pratica di trasformazione delle istituzioni, delle regole, dei rapporti tra le persone, pratica che molte hanno fatto propria per sottrarsi al piano dei rapporti di forza e delle contrapposizioni, e sostituirlo con i conflitti relazionali e l’efficacia della parola scambiata e condivisa. È una strada già aperta, l’apertura io la conosco con il nome di politica delle donne, ma questo importa poco, non dubito che esistano altri passaggi, non dimentico che, ragionando sui rapporto fra autorità e potere, Hannah Arendt ha creduto di riconoscere nella Chiesa cattolica del nostro Medioevo un’istituzione che coltivava più l’autorità che il potere. Forse, se volgiamo lo sguardo verso l’Oriente cristiano o verso la un tempo lontana, ora non più, Asia, troveremmo esempi migliori (Il Dio dell’Asia di Ilaria Maria Sala, Milano 2006, ecco un libro da leggere, lo consiglierei a Benedetto XVI se fosse un mio studente), ma non importa. Semmai, c’è da ripensare a fondo quel “tutto dell’unica ragione”, non per respingere il concetto ma per imparare la lezione storica di un presunto universale che si è edificato sulla tacita esclusione di quelli che non si conformavano alla sua legge, e che ha finito per farsi valere con il ricorso alla violenza, pensarlo invece come il cielo che può contenere i rischi di frammentazione connessi al passaggio in altro, che è la mia formula preferita per l’universale.