La flor de mi secreto
“il dolore e la paura giustificano qualunque cosa”
(La flor de mi secreto, 1995)
Il mio vero incontro con il cinema di Almodòvar è avvenuto in Spagna; avevo già visto da ragazzina “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”, ma quel viaggio attraverso la sua terra mi aprì a un sentire inaspettato.
Solo ora mi rendo conto che in quel primo incontro, ancora adolescente, era accaduto qualcosa che mi aveva rivelato, più di quello che credessi, il nucleo palpitante del suo cinema.
Ricordo di aver acceso il televisore in uno di quei pomeriggi torridi d’estate, in cui consigliano di rimanere barricati con le tapparelle abbassate fino a quando la temperatura non diventa più sopportabile. Nella penombra, nella sonnolenza delle prime ore dopo il pranzo, nell’indolenza delle vacanze estive ai tempi della scuola, mi ero trovata all’improvviso trascinata in un trambusto di vicende e storie, affascinata da queste donne sull’orlo che mi ricordavano le donne della mia famiglia materna, un po’ instabili, un po’ fragili, sempre in uno stato di allarme, come se qualcosa di irresistibile e inarrestabile stesse per accadere.
In effetti ho sempre guardato a queste donne e ascoltato i loro racconti come se si trattasse di film, affascinata da quell’elemento di assurdità, di fantastico, come se il loro trovarsi e soprattutto narrarsi nella loro lingua materna le tenesse pericolosamente su quell’orlo.
Adesso scopro che sono le stesse donne, anche se con volti e corpi differenti, ma portatrici delle stesse storie, che popolano, come Almodòvar stesso ci racconta, il suo mondo cinematografico e la sua realtà:
“Le donne per me sono l’origine della vita e anche di tutta la ficciòn possibile, perché ho vissuto la mia infanzia circondato da donne che raccontavano storie e cantavano e questo è l’universo che ho voluto omaggiare.”
La sensazione che ora ritrovo, cercando di recuperare il ricordo di quel pomeriggio, è una sensazione di restituzione, come se il film mi avesse parlato con la stessa familiarità con cui mia nonna mi raccontava di fughe sotto ai bombardamenti o del voto di non mettersi più il rossetto se fosse sopravvissuta alla guerra.
Un senso di familiarità con lo stato di allerta, di attenzione, di disarmo di fronte alla realtà.
Proprio ora, scrivendo, mi torna alla mente il terrore di mia nonna per l’acqua e per il terremoto, le sue vere e proprie crisi di panico, sulle quali allora, dalla spavalderia dei miei pochi anni, la prendevo in giro architettando continui scherzi.
Credo che proprio quel film, allora adolescente e adesso donna, continui a restituirmi qualcosa della mia genealogia femminile che, con la morte di mia nonna, aveva smesso di essere così presente nella mia famiglia, pur manifestandosi di tanto in tanto in episodi che non riuscivo più a decifrare.
Ma è stato dopo, durante l’anno che ho vissuto in Spagna, che mi sono confrontata nuovamente con il senso di una relazione pericolosa con la realtà.
Il mio arrivo e il mio primo sguardo su quella terra a me nuova erano allora stati mediati dall’incontro con la pensatrice Maria Zambrano ed ora, nello scrivere questo articolo, è come se l’avessi ritrovata insieme a mia nonna, a parlarmi dei film che ho guardato e ad aiutarmi a decifrare le sensazioni e le impressioni che si accumulavano le une sulle altre.
Devo a mio fratello la scoperta del cinema di Almodòvar quando ancora ragazzina mi consigliò di guardare “Mujeres al borde de un ataque de nervios”.
Non so ancora se lo fece perché io in quel borde ci sostavo ormai da un po’ di tempo o se perché in quell’epoca mi conoscesse più di quanto io capissi di me stessa; comunque fu passione a prima vista, passione che con gli anni è andata trasformandosi assieme al mio diventare donna, senza lasciarmi.
Ricordo ancora la mia emozione nel vedere per la prima volta Rossy de Palma: era per me la vittoria di una donna e di un corpo femminile che avevano saputo superare le leggi machiste del cinema che fino ad allora avevo conosciuto.
La forza della sua immagine in quel film era dirompente e faceva tabula rasa dentro di me di qualunque altra immagine di donna, o meglio di “ sirena muta”, che la televisione avesse cercato di impormi fino a quel giorno.
Mi rendo conto che avevo già capito nonostante l’età l’importanza politica della circolazione di immagini di donne eccedenti, non richiudibili nelle categorie e nello sguardo del desiderio maschile.
Rossy de Palma, in quegli anni e nelle mie piccole lotte quotidiane di separazione da un’estetica dominante che ci voleva e ci vuole tutte bambole gonfiabili eternamente disponibili, incarnò per me la possibilità di un riconoscimento altro fedele alla mia differenza di donna.
Quel movimento di separazione mi permise di ripartire dal mio corpo riconoscendolo come fonte generatrice di metamorfosi e rinascita simbolica.
Un elemento di differenza indiscutibile dell’universo femminile di tutta la cinematografia almodovariana è stato ed è la capacità di dare vita e spazio a delle vere e proprie anti-icone hollywoodiane.
Nei film del regista spagnolo salta agli occhi immediatamente anche una netta contrapposizione rispetto al cinema underground statunitense: nessuna più di Marisa Paredes, Rossy de Palma, Alaska, Chus Lampreave… sanno essere lontane dalle fredde e mute forme scandinave e platinate di una Nico e di tante superstar della factory di Andy Wharol.
Le donne che animano i film di Almodovar si rendono riconoscibili grazie a corpi non perfetti fatti di una carne che sembra non voler smettere di tremare, costantemente aperta ed esposta al rischio e al pericolo delle relazioni.
Quella carne, quell’irriducibile elemento di differenza femminile che Irigaray riconosce nel mucoso che come la pelle ma in modo più fluido, senza bordi, né forme o limiti permette il passaggio dall’interno all’esterno dei corpi e del mondo senza ferita.
Questa costante posizione del corpo della donna di apertura alla carne del mondo permette in lei l’irruzione dell’Origine.
Nell’umidità del mucoso ritroviamo la Madre che nella donna non ha bisogno di essere sacrificata per permettere la costruzione dell’io, io che in lei è sempre due.
La capacità della donna di essere due, la fedeltà dell’apertura all’altro rischiare per amore del legame, per amore della relazione.
Una apertura incapace spesso di fare da filtro tra sé e il mondo, adesa ad un realismo che toglie la facoltà di giudizio e di misura; persino nelle relazioni con uomini portatori di pene e di una violenza che si abbatte incurante sui corpi delle madri, delle mogli, delle amanti e delle figlie.
Dopo quel primo film ne vidi degli altri e solo oggi, scrivendo questo articolo, mi rendo conto di aver inconsapevolmente seguito un filo cronologico e di assonanza scegliendo proprio quei film che, se da un lato mi avvicinavano ad un preciso percorso tematico all’interno del cinema di Almodòvar, dall’altro lato mi celavano la sua essenza, quello che mi sento di nominare oggi fiore segreto, e non mi permettevano di cogliere ed assaporare fino in fondo ciò che i miei occhi registravano.
Era come quando ti mancano alcune tessere di un puzzle e anche se hai un’idea dell’immagine che si rivelerà sotto i tuoi occhi comunque non riesci ad avere una visione d’insieme che ti permetta di apprezzarne la totalità ed io ero insaziabilmente alla ricerca di quel qualcosa che mi mancava.
La maggior parte di quelle tessere mancanti le incontrai a Barcellona, nelle sue lunghe surreali notti e negli occhi e nei racconti del mio coinquilino profondamente innamorato del cinema di Almodovar.
Fu lui, originario dell’Estremadura a raccontarmi del legame del regista con questa terra contadina, così povera e difficile, così estremamente dura come il nome stesso ci rivela, terra di confine isolata e dimenticata da un’Europa già moderna, dove la natura arida e pericolosa era sempre pronta a prendere il sopravvento sull’uomo.
Terra impregnata di segreti e di violenze che Almodovar dopo anni di silenzio rivelerà al mondo in “La mala educaciòn” ma che continua a tornare nei racconti dei suoi film come un segno indelebile.
Una cattiva educazione impartita da una chiesa senza coscienza, da un maschio che ancora una volta ci appare come portatore di un male ancestrale, un male che si tramanda e da cui non ci si libera se non tra le braccia della madre o della morte.
Una relazione pericolosa che in questo film porta la vittima dell’abuso alla perdita della propria identità, al travestitismo, ad un doppio, ad una confusione in cui il ruolo di vittima si mescola e si perde in quello del carnefice fino a contagiarne irreversibilmente lo stesso fratello che porrà fine brutalmente alla sua vita.
Fu il mio coinquilino a farmi vedere il primo film di Almodovar “Pepi, Lucy , Bom y otras chicas del monton” e capii immediatamente che Alaska e McNamara erano due persone essenziali per entrare fino in fondo non solo nel clima della movida madrilena ma anche nell’intorno affettivo del regista, era per me fondamentale riconoscere quelle relazioni, pericolose e non, che ti danno la dimensione di quello che accade e che stai guardando.
Sono sempre stata contraria all’interpretazione di un artista quale “genio solitario” che crea dal nulla e una volta in Spagna fu per me evidente quale fosse la linfa vitale del cinema di Almodovar.
McNamara, all’anagrafe Fabio de Miguel detto anche Fanny e da tutti noto come la Reina della movida fu compagno di avventure, di cinema e di musica di Almodovar.
Lui per me è stata la figura essenziale per scoprire come nei film del regista l’autobiografia e la semplice descrizione del suo intorno superasse di gran lunga quello che ai miei occhi inizialmente inesperti avevo catalogato in termini di grottesco, ficciòn, surrealismo costruito a regola d’arte.
Una delle interpretazioni indimenticabili di McNamara è sicuramente in “Laberinto de pasiones” in cui come solo lui poteva fare abborda il protagonista del film in un bar di Madrid.
Oltre ad un estetica post-punk dove travestitismo e borchie si mescolavano a pettinature che osavano sfidare la legge di gravità quello che più colpisce è il linguaggio; durante il franchismo l’utilizzo di qualunque lingua che non fosse il castigliano veniva punito duramente, il linguaggio di McNamara destruttura completamente la lingua del regime aprendola a una costante irruzione di inglesismi e francesismi; del castigliano canonico rimane ben poco contaminato da uno slang, un codice di strada circolante tra prostitute e tossicodipendenti. Ed infine un linguaggio che accoglie tutte le definizioni giudicanti l’omosessualità, anch’essa ovviamente bandita dal franchismo, facendole proprie e cambiandone il segno, come professato nelle svariate teorie del queer.
Tuttora dopo quella prima scoperta quando ascolto una canzone di Fanny sento prendere vita l’universo che Almodovar continua a descriverci nei suoi film, un universo che è riuscito a sopravvivere nonostante Franco e nonostante la borghesia della “famiglia cattolica” spagnola.
Ma non è solo la lingua di McNamara, la lingua del freak che ci parla nei film del regista spagnolo, la morte di Franco cede il passo ad una frenesia delle lingue materne che tornano cariche di follia e grandi rivelazioni; non appena guadagnata una certa autonomia e comprensione della lingua spagnola ho infatti cominciato a scoprire il gusto per le differenti inflessioni e dialetti, più di quanto mi fosse mai accaduto nella mia terra, e a provare un fortissimo piacere nel distinguerli fra loro assaporando ogni piccola differenza, suono, musicalità.
Guardare film in lingua originale è stata una delle attività più appassionate durante il periodo in cui ho vissuto a Barcellona, e ha dato luogo ad incontri, viaggi e discussioni, oltre ad alimentare un piacere ed un forte coinvolgimento con le lingue, le culture e le terre prima lontane.
E così un’altro tassello del puzzle andava al suo posto.
Come ho scritto all’inizio la mia prima mediazione con la Spagna è stata Maria Zambrano, la filosofa in “Pensamiento y poesìa en la vida espanola” suggerisce i tratti di un ‘realismo spagnolo’ come stile di vedere e di conseguenza vivere la vita, “una maniera di stare piantati nell’esistenza”[1] che si contrappone a qualsiasi teoria o sistema – che hanno invece caratterizzato tutto il resto dell’Europa – proprio a causa di una impossibilità di ridurre senza tradire, senza perderne la viva sostanza, o essere costretti a fare violenza a quell’elemento, subito riconoscibile e poi familiare, che è il predominio dello spontaneo e dell’immediato.
Il realismo è per Zambrano una forma di conoscenza in quanto è una maniera di relazionarsi con le cose, di stare di fronte al mondo con ammirazione e senza pretesa di riduzione, e che possiamo solamente evocare come un “essere innamorato del mondo, coinvolto dal mondo, senza potersi liberare”[2] .
Ed è proprio questa aderenza alla realtà a rendere impossibili il sistema, la astrazione, l’oggettività: perché guardare il mondo come guarda un innamorato non permette, anzi nega, uno sguardo di sorvolo, una posizione di distanza.
Una aderenza alla realtà e una incapacità di astrazione che espone i personaggi dei film di Almodovar ai più svariati pericoli di cui spesso le relazioni sessuate si fanno gravide.
Un esempio per tutte è Leo, la protagonista di “La flor de mi secreto”, che in lacrime sulla soglia della porta di casa supplica per l’ennesima volta il marito, da anni assente e fedifrago, di concedere un’ultima speranza a un amore totalmente distruttivo
Zambrano parla poi di materialismo in un senso che non ha intenzione di descrivere una teoria, ma piuttosto di delineare un culto che porta all’estremo l’adesione innamorata alle cose, ovvero la “consacrazione della materia, la sua esaltazione, la sua apoteosi; è un fanatismo del materiale, del tattile e del visuale soprattutto” laddove per materia è da intendersi una “materia sacra, materia carica di energia creatrice, materia che è presente in tutte le cose e tutte le identifica” [3] .
E’ sempre a partire da questo materialismo (che Zambrano inoltre riconosce come peculiare dei mistici spagnoli, San Giovanni della Croce e Santa Teresa, rispetto a tutta la mistica europea) che si delineano i tratti di una poetica tipicamente spagnola, dove le cose e la natura sono quasi protagoniste; in un’opera come quella del Quijote, sotto all’ombra gettata dalla figura dell’eroe, palpita tutta una schiera di figure non meno protagoniste: sentieri, alberi, prati, fiumi, tutte le cose più umili e semplici.
La sensazione che mi ha catturata nel rivedere ora, lontana dalla Spagna ormai da alcuni anni, i film di Almodòvar, è proprio questo senso di accoglienza della realtà in tutto lo spessore e l’opacità della sua carne, il muoversi lontano da una trasparenza sistematica, da una pretesa univoca di verità, il riuscire a tenere assieme visioni contraddittorie e talvolta stridenti.
Da qui deriva quell’allontanamento da una morale o da una ‘giustizia’ che tal volta ha provocato in me un senso di smarrimento e di disagio rispetto ad una posizione partecipante, seppure davanti allo schermo.
Questo incollamento alla realtà porta infatti con sé una mancanza di mediazione e un lasciar parlare le cose, anche duramente, ed è questo che, come spettatrice, mi ha spesso messa in difficoltà provocandomi talvolta perfino un senso di rifiuto.
Ma allo stesso tempo mi restituiva il senso di un sentimento che ho provato in Spagna, quello di essere presi, sopraffatti dal fluire delle cose e degli eventi, senza poter assumere una posizione precisa, attiva, senza poter ridurre la realtà a un qualcosa di comprensibile e gestibile.
E’ proprio questo ciò che porta, secondo Zambrano, a provare quel sentimento che è centrale nella vita spagnola: la melancolia. Un sentimento che ha come diretta conseguenza la mancanza di soluzione e la necessità di consegnare se stessi al momento nella sua pienezza.
Nei film di Almodòvar sembra che per le protagoniste e i protagonisti non ci sia progetto, o che comunque, rispetto al progetto, vinca l’istante, di fronte al quale non ci sono armi e non può essere presa distanza. Con il risultato che è come se ci potesse essere solo consegna appassionata, cedimento totale, partecipazione estrema.
Indimenticabile l’ultima scena di “Matador” in cui l’amplesso di due corpi, maschio e femmina, si fonde nella morte come nell’eclissi la luce di due astri si sovrappone e si estingue apparentemente, bisogna però ricordare che gli astri, come sottolineato nel film, nella loro breve convergenza guadagnano una nuova luminosità nera ed ardente.
La forza della natura, che tutto travolge e scombina, è uno degli elementi fondamentali per la comprensione del cinema del regista spagnolo, l’eclissi ,il freddo del gelo di Madrid che fa tornare alla vita la neonata Leo in crisi di asfissia, il vento dell’ovest, il Solano, che rende pazze e che alimenta fuochi devastanti che incendiano qualunque cosa a loro si frapponga, il caldo torrido che infiamma i cuori più di ogni incendio.
Assistiamo al cedimento dell’animo umano di fronte ai fenomeni della natura che, lontano da qualsiasi panteismo, sono protagonisti indiscussi, riuscendo a muovere, anzi a trascinare le vite, le scelte, i drammi e ad imprimervi la propria tonalità.
O perfino un protagonismo degli oggetti, come l’ascensore di “Que he echo yo para merecer todo esto”, che porta rispetto solamente a chi lo rispetta.
E poi ci sono i luoghi, che lavorano come personaggi.
Grandi città come Madrid, che sembra pulsare di una vita propria, danzare al ritmo della movida, coinvolgendo nella sua danza chiunque si lasci prendere. La città dove non è mai tardi.
E questi paesini, che sono sempre come piccole madri ormai vecchie presso cui si fa ritorno, e compongono una geografia sconosciuta della Spagna, lontano da tutto, diventando terre di inizio e di fine, luoghi di genealogie femminili potentissime, che sfuggono alla morte, alle separazioni, al potere dei mariti spagnoli o delle grandi città. Sono luoghi in cui, come dice la madre di “la flor de mi secreto”, le donne devono tornare quando le lascia il marito, perchè è morto o se n’è andato con un’altra, per parlare con le vicine godendosi il sole sul patio, cantando e ricamando.
Luoghi dove le donne si prendono cura le une delle altre, dove di volta in volta quella che soffre o ha più bisogno viene accolta e accudita.
Luoghi in cui le donne sembrano bastare e bastarsi, lontane dalla minaccia di relazioni pericolose.
E’ stato detta molte volte la capacità di Almodòvar di restituire un universo femminile vivido e pieno, e nel suo ultimo “Volver”, come in altri (“Que he echo yo para merecer todo esto”, “La flor de mi secreto”), colpisce la potenza delle relazioni tra donne che, mettendo in circolo risorse spesso svalorizzate, hanno la forza di portare alla realtà sogni, creare mondi possibili, risvegliare i morti.
In questo film è stato molto forte per me il momento in cui, messo il corpo del marito morto nel congelatore, ha luogo la liberazione di una potenza creatrice nella protagonista e in tutte le donne che con lei ricamano una rete di relazioni fino ad allora paralizzate.
Ma ancora una volta questa potenza passa per un momento di passività, di rinuncia ad esercitare il potere sulle cose e dominarle, che è necessario al farsi avanti del reale, all’inaspettato sentire il contatto con la carne delle altre e con la carne del mondo.
FILMOGRAFIA
- Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio (Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón) (1980)
- Labirinto di passioni (Laberinto de pasiones) (1982)
- L’indiscreto fascino del peccato (Entre tinieblas) (1983)
- Che ho fatto io per meritare questo? (¿Qué he hecho yo para merecer esto?!!) (1984)
- Matador (Matador) (1986)
- La legge del desiderio (La ley del deseo) (1986)
- Donne sull’orlo di una crisi di nervi (Mujeres al borde de un ataque de nervios) (1988)
- Legami! (¡Átame!) (1989)
- Tacchi a spillo (Tacones lejanos) (1991)
- Kika – Un corpo in prestito (Kika) (1993)
- Il fiore del mio segreto (La flor de mi secreto) (1995)
- Carne tremula (Carne trémula) (1997)
- Tutto su mia madre (Todo sobre mi madre) (1999)
- Parla con lei (Hable con ella) (2001)
- La mala educación (La mala educación) (2004)
- Volver (2006)
[1] Maria Zambrano,Pensamiento y poesia en la vida espanola, Biblioteca nueva, Madrid 2004, pag.130 (traduzione mia)
[2] ibidem, pag.135 (traduzione mia)
[3] ibidem, pag.142 (traduzione mia)