diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 9 - 2010

Grande Seminario

La filosofia è la filosofia delle donne

Chi legge da sempre la rivista di pratica politica “Via Dogana” della Libreria delle donne di Milano, avrà certamente riconosciuto nel titolo che ho dato a questo intervento il calco del titolo fondativo del primo numero: “La politica è la politica delle donne”.

Per chi non conosce ancora la rivista, dirò che il senso di questa affermazione così secca, come è secca l’affermazione che dà il titolo al mio contributo, è contenuto in questa citazione tratta dal n.1 di “Via Dogana”: “La politica è la politica delle donne per mettere fine al dualismo per cui la politica delle donne sarebbe una politica accanto ad un’altra detta maschile o neutra, per mettere al centro della politica, la politica delle donne.” Firmato: Luisa Muraro.

Con questa idea da lanciare e praticare, le amiche della Libreria delle donne di Milano facevano un passo avanti d’autorità, tagliando corto con tutte le discussioni su cosa sia o non sia la vera politica per tutti e per tutte. A me risulta che oggi sia necessario lanciare e praticare d’autorità questo principio: “La filosofia è la filosofia delle donne per mettere fine al dualismo per cui la filosofia delle donne sarebbe una filosofia accanto ad un’altra detta maschile o neutra e mettere al centro della filosofia, la filosofia delle donne.” Il calco è fatto e va a pennello all’esigenza del presente di porre fine alla lunga e defatigante lamentela sulla crisi della filosofia, da un lato, e di fare un’offerta vitale e feconda per la trasformazione del modo di stare al mondo di tutti e di tutte.

Si tratta anche per noi, oggi e qui, di prendere coscienza che siamo veramente in grado di mettere fine anche al dualismo che spacca ancora la politica istituzionale nata come territorio dominato finalmente dalla ragione. Oggi è evidente, al contrario, che per fare carriera politica non è necessario saper pensare, dato che pensare è diventata competenza secondaria rispetto all’attaccamento al potere. Fare politica continua ad essere inteso come l’esercizio pubblico di maschi razionali, o quanto meno come appartenenza o adesione, anche se non si è maschi, alla tradizione di pensiero segnata al maschile. La parabola occidentale della politica intesa come istituzione e potere ha portato a questo bel risultato: ci sono tutti gli elementi per poter affermare che la razionalità stessa contiene in sé menzogne, esaltazione, mitomania, distanza dalla realtà.

La cosa sorprendente è che l’affidarsi alla pura razionalità induce il dualismo anche in filosofe dei nostri giorni. Ne prendo una tra tutte: Martha Nussbaum, femminista incerta ma abile filosofa di tradizione aristotelica. In un’intervista rilasciata a “Repubblica” (8/10/2009) dichiara: “Il femminismo ha realizzato progressi in ogni area delle nostre vite, eccetto che nella politica”. Lo dice una filosofa che non ha fatto altro che scrivere di filosofia politica e morale. Delle tre seguenti ipotesi bisognerebbe farne scegliere una alla Nussbaum stessa: 1- o intende anche lei che politica significa esclusivamente ricoprire cariche pubbliche e avere potere; 2- o che il suo pensiero politico è inefficace o non è ascoltato; 3- o che lei essendo filosofa, quando è femminista rinuncia a pensare efficacemente.

Sono contraddizioni che nascono quando “pensare” viene ancora inteso come esercizio di superamento della differenza sessuale in primis, ma anche come esercizio di universalizzazione forzata delle parzialità viventi. Occorre almeno prendere atto che pensando neutramente si incorre nell’inefficacia del pensiero sul piano della realtà e delle sue esigenze di cambiamento, anche se si riempiono molte pagine di libri.

In effetti, certe forme della politica tradizionale, così come si presentano ancora oggi alla nostra riflessione, sono irriformabili, come sostengo nel saggio “Sovrane”, contenuto nel volume di Diotima, Politica e potere non sono la stessa cosa (2009). Irriformabili perché cresciute e sviluppatesi ben presto intorno all’idolatria del potere, tanto da costringere la parola politica a diventare, nell’uso irriflessivo corrente, un sinonimo di potere. Analogamente e non per caso, la filosofia di tradizione accademica, cresciuta e sviluppatasi come fallologocentrismo che assolutizza la razionalità dimostrativa e dialettica di marca maschile come unica forma di pensiero, si sta rendendo irriformabile e resterà nella sua mono-ocularità ciclopica. LA filosofia occidentale è gigantesca ma  come i ciclopi ha un solo (già accecato?).

E ci sarà sempre una Clarice Lispector a ricordarci che “…  mescolato a tutto questo c’è la vita che non si ferma”  (La vita che non si ferma, Archinto 2008), la vita reale che ha portato alla piena rivelazione ciò che era un segreto tenuto ben nascosto dalla Storia catastrofica: le donne pensano. Questa rivelazione sta dispiegando i suoi frutti e lo si rileva qua e là sempre più spesso e eccellentemente nei commenti di uomini liberi. Ciò che è stato un segreto fino a pochi decenni fa nella storia della nostra filosofia, è stato rilevato eccellentemente da un pensatore e intellettuale arabo, Reiham Salam, in un articolo tradotto da “Il sole 24 ore” (2/8/2009).

Questo pensatore constata nell’articolo che l’attuale crisi finanziaria, quella che ha il potere di travolgere i pensieri e le vite, ha segnato la fine simbolica del “club dei machi”, il capitalismo finanziario. Più in generale, la crisi ha aperto, secondo Salam, “l’agonia del macho” come “stato mentale” e, contestualmente, ha avviato una grande trasformazione del mondo dovuta alla prossima estinzione di questo “macho” sepolto dalle sue ceneri.

L’homo oeconomicus che si era autodescritto come macho nelle ultime fasi dell’evoluzione capitalistica ha fallito anche l’espressione concreta del suo machismo come impresa finanziaria e come totale e globale delle economie e delle finanze. Questa sarà la pietra tombale del tipo antropologico “macho”, tanto da consigliare un repentino passaggio della discussione mondiale dal livello economico-finanziario al molto più urgente livello antropologico. Infatti, ci si chiede: cosa succederà nel mondo?  Raiham Salam scrive che le donne usciranno da questa crisi nella forma migliore, dato che non la subiscono: “D’ora in poi il conflitto (tra uomini e donne) avrà una forma più sottile e il suo campo di battaglia principale saranno le menti e i cuori”. Continua: “Non abbiamo precedenti che ci permettano di parlare di come sarà il mondo dopo la morte del macho. Ma possiamo aspettarci che la transizione sarà sofferta, difficile e forse molto violenta”. E anche questo è inconfutabile, non c’è nulla nella nostra memoria e nemmeno nella storia che noi conosciamo, un precedente che ci possa orientare”. Credo possibile tradurre “le menti e i cuori” con  pensiero  e amore, competenze nuove che Salam riconosce alle donne, riuscendo a intravedere forme e pratiche di pensiero inascoltate finora. E siccome la violenza è sempre stata la sola reazione messa in campo quando si profilano rivoluzioni benefiche, noi siamo qui, Diotima, intesa come mondo di relazioni d’autorità femminile, è in questo luogo oggi per contribuire a impedire che la trasformazione in corso scateni un’ulteriore violenza, e a fare in modo che quella attuale contro le donne non duri a lungo, come molti prevedono

Il mondo nuovo che si sta formando, è sicuramente in cerca di una nuova forma  della mente generale, conferma questo intellettuale arabo: “Mente e cuore come campi di battaglia”; e quindi come forma della mente generale, della mentalità, cosicché sono “mente e cuore”, pensieri e pratiche politiche amorose il nuovo orizzonte di contesa.

Forse è finalmente arrivato al pettine il nodo del saper pensare adeguatamente, per saper fare una politica adeguata alla realtà così com’è e come può essere. Saper pensare adeguatamente è ciò che la realtà propone come trasformazione e come nuova articolazione del modo generale di intendere ciò che si chiama “pensare”. La questione è ben conosciuta da Madre Elisa Kidané, africana Consigliera generale delle Suore missionarie Comboniane, in conflitto con la sua chiesa, la Chiesa cattolica, la quale si rifiuta di ascoltare quella che lei chiama “saggezza delle donne”. Anche madre Kidané sostiene che occorre “un cambio di mentalità” (Corriere della Sera 4/10/09). Certo, se la sua Chiesa continua così non avrà una riforma e nemmeno potrà fare una controriforma ulteriore, e lei lo sa. Infatti, chiama correttamente saggezza –un nome usurato e usurpato – il pensiero delle donne, una pratica filosofica differente e divergente, capace di qualificare una possibilità trasformatrice della mente orientata dalla filosofia di donne, filosofia che è sempre stata, per quanto ne possiamo leggere e sapere, pensiero dell’esperienza, cioè pensiero di trasformazione.

 

Wanda Tommasi nel suo contributo cita Il pensiero della esperienza (Baldini Castoldi Dalai, 2008). un libro curato da Federica Giardini e da me per affermare politicamente un percorso grande, ampio e potente, presente in molteplici aree di ricerca, di disciplina e di vita in cui il pensiero della donne, inteso come pensiero della esperienza,  mostra un nuovo volto del mondo reale, già realtà in numerosi contesti planetari.

Se guardiamo agli esiti della filosofia accademica, possiamo dire che la filosofia oggi non è più amore per la sapienza, come la filologia della parola ci ricorda dovrebbe essere. Ma non lo può essere perché non è pensiero dell’esperienza.  Infatti, si ha l’impressione ben viva di essere circondati da vaniloqui sedicenti filosofici, anche se molti di questi sono ben congegnati logicamente, si direbbe ben confezionati ad uso del mercato competitivo delle idee. Si tratta di merce “usa e getta” di cui è già fin troppo intasato q inquinato il pianeta. Al presente, c’è bisogno più che mai di amore per il mondo, di speranza, di creatività, di cura dei beni comuni, del sapere vivere in comunità, di provare a immaginare i passaggi d’essere necessari perché la violenza non scriva più così tante pagine della storia. Non c’è certo bisogno del filosofo triste e disperato o compiaciuto dell’“intransitabilità” – parola chiave presente in volumi contemporanei in cui si considerano ancora oggi intransitabili molte relazioni,  o addirittura la relazione stessa, come non si esime dal dimostrare la vita stessa del filosofo disperato e lamentoso.

 

Credo sia un impegno politico di prima grandezza provare a mettere un freno al “pensiero dell’intransitabilità” che viene da lontano anche se è continuamente riaffermato dalla maggioranza dei pensatori un tempo blasonati e oggi ospiti fissi degli studi televisivi. Bisogna che uomini e donne provino a prendere coscienza dell’esistenza della  filosofia più adeguata al cambiamento: il saper pensare adeguatamente, e rendersi conto che è la filosofia delle donne, perché noi siamo le radici del pensiero, essendo la nostra da molti secoli, forse da millenni, una filosofia che nasce in pratica, per genealogia e per eccellenza; la più efficace da offrire al cambiamento del mondo perché sappiamo pensare la differenza che costituisce la realtà, anzi rende possibile che ci sia realtà.

Per autorizzarmi a dire questo mi riferisco ad alcune madri del pensiero genealogicamente femminile, Carla Lonzi tra le prime. Lei scrive in Sputiamo su Hegel (Rivolta Femminile 1974 – et al. edizioni 2010): “Noi diciamo all’uomo, al genio, al visionario razionale, che il destino del mondo non è nell’andare sempre avanti come la sua brama di superamento gli prefigura. Il destino imprevisto del mondo sta nel ricominciare il cammino, per percorrerlo con la donna come soggetto (pensante)”.

E anche: “Noi neghiamo come assurdità il mito dell’uomo nuovo, il concetto di potere e l’elemento di continuità nel pensiero maschile e perciò delle sua soluzioni finali. Il concetto di subordinazione della donna lo segue come un’ombra. Su questi postulati ogni profezia è falsa”. Suppongo non si riferisca solo ad Auschwitz, ma all’assolutismo neutro di tutte le soluzioni violente.

 

Assumo metodologicamente l’espressione “Destino imprevisto del mondo” versus il senso del progressismo razionalista e continuista, e le metto come fondamenta la filosofia teologica di Kari Elizabeth Boerresen, avversa al continuismo dialettico della filosofia così come si presenta nella storia maschile. Boerresen indica come nome del farsi autentico della storia l’imprevisto offerto dalla “revelatio continua” che si manifesta nella condizione umana (Le Madri della Chiesa, D’Auria ed. 1993). È una idea di questa teologa che ci sia “revelatio continua” come segno del movimento del mondo, del suo cambiamento come un processo in corso sempre nel presente, un cambiamento percepibile come “passaggi d’essere” che l’umanità o parte dell’umanità può fare a partire dell’irradiazione iniziale. Saremmo sempre in presenza di “rivelazioni incarnate”, come diceva Nicola Cusano tanto tempo fa. Infatti Boerresen lo riprende e lo assume per indicare il fatto che qui sulla terra non c’è rivelazione che non sia sia incarnata, che non sia trasformata in pratiche dagli esseri umani, quando la intuiscono come senso profondo del loro stesso esserci nel mondo.

 

Altre fondamenta mi sono offerte dalla María Zambrano dal suo saggio “Per una storia dell’amore” (in L’uomo e il divino, Ed. Lavoro, 2001), da intendere come la storia dell’umanità riscritta seguendo i misteriosi processi dell’amore-filosofo, dell’amore creatore di realtà. Nel corso della riscrittura, Zambrano teorizza “le epifanie della realtà che formano il nostro spirito”.  E trovo altre basi irradianti anche in un altro saggio dedicato a Eloisa (All’ombra del dio sconosciuto, Pratiche, 1997)

dove afferma che le “imprese storiche non hanno altro senso che quello di sciogliere nodi per tutti, liberando modi d’essere e rendendo accessibile ciò che prima era chiuso”.

A queste autorizzazioni scientifiche possiamo aggiungere le molte che vengono da pensatrici a noi contemporanee, elaboratrici di una filosofia evoluta, complessa e responsabile perché capace di abbracciare ogni relazione, non solamente quella tra i viventi umani. Siamo in grado, dunque, di entrare nei processi di scoperta e di ricerca che vanno fatti; siamo in grado di mostrare cosa significa fare una filosofia che sia anche possibile chiamare lingua materna del mondo.

È questo che va cercato e va trovato sempre d’ora in poi: la lingua materna del mondo.

 

Quando parlo di una filosofia evoluta e complessa mi riferisco, per esempio, a quella di Anna Maria Ortese il cui Corpo Celeste (Adelphi, 1997) contiene gli elementi per un radicale pensiero della vita intesa come primum, non solo in un senso pertinente all’umano. Questo libro, Corpo Celeste, è in effetti una specie di compendio di filosofia politica a carattere cosmologico: “Vorrei dire com’è bello sentire strutture di luce e gettarle come reti aeree sulla terra, perché essa non sia più quel luogo buio, oscuro e perduto che a molti appare , o quel luogo di schiavi che a molti si dimostra se vengono a occupare i linguaggi, il respiro, la dignità delle persone. A dirvi quanto sia buona la Terra, è il primo dei valori e da difendere in ogni momento nei suoi paesi, nei suoi boschi, nelle sue sorgenti, nelle campagne e dovunque siano occhi che vi guardano con pace o paura; là vi è qualcosa di celeste e bisogna onorarlo e difenderlo. So questo: che la Terra è un corpo celeste, che la vita che vi si spande da tempi immemorabili è prima dell’uomo, prima ancora della cultura e chiede di continuare ad essere amata come l’uomo chiede di continuare ad essere e ad essere accettato, anche se non immediatamente capito e soprattutto, non utile…

Io sono dalla parte di quanti credono nella assoluta santità di un albero o di una bestia, del diritto dell’albero  o della bestia di vivere serenamente, rispettato tutto il loro tempo. Sono dalla parte della voce increata che si libera in ogni essere e delle dignità di ogni essere, al di là di tutte le barriere e sono per il rispetto e l’amore che si deve loro”.

 

Nel necessario passaggio ad una filosofia come pensiero dell’esperienza, mi riferisco anche ad una filosofa politica cosmologica come può essere considerata Hildegarda di Bingen che, oltre tutto, aveva fatto una mossa filosofica molto importante per contrastare la vittoria, sul piano storico, di una filosofia affidata al razionalismo mono-oculare maschile. Aveva scritto che “la sapienza precede Dio”, rispetto a Lui è un primum e si e fatta mediatrice tra Lui e gli uomini. Si noti come la priorità venga assegnata assegnata alle mediazioni viventi, in fedeltà alla pratica femminile di testimonianza della necessità del nome “Dio” per poter pensare in grande, un nome la cui creatività si fa tuttavia dipendere dalla presenza mediatrice della sapienza.

In fedeltà a queste genealogie filosofiche possiamo dire che è da leggere come inerte, cioè come “profezia falsa” nei confronti della realtà ogni filosofia e ogni elaborazione che voglia prefigurare un rinnovamento senza tenere conto del pensiero delle donne e senza interloquire con esso.

Per esempio, un filosofo come Bodei non può essere considerato attendibile come pensatore adeguato al nostro tempo nel momento in cui scrive, rispondendo a chi gli chiede aiuto e orientamento per affrontare il malessere, la paura e il disagio di fronte al presente: “Il tempo stringe e ci obbliga ad affrontare con le armi della razionalità l’arduo compito di autosovvertire il nostro apparato concettuale. È una immane impresa collettiva in una fase storica in cui i gruppi d’intellettuali organizzati paiono in via d’estinzione, la creazione di più interessi, di interazione di uomini di cultura tra loro è un immane compito.” Ecco, casca il mondo ma ritorna il tormentone. Se poi aggiungiamo che il titolo del suo intervento è “La solitudine dell’intellettuale”… (“Il sole 24 ore”, 11/10/2009). Il pensatore non sa pensare se non avvolto dal manto della solitudine  o se non con uomini di cultura riuniti tra loro, tutti presi e attizzati dall’“immane compito”. Il pensatore triste e falsamente profetico trova energia solo se pensa che il suo compito e il suo destino sono “immani”.

 

La fedeltà alle genealogie femminili insegna anche a respingere con sempre più determinazione i fraintendimenti insopportabili o le vere e proprie pratiche di sradicamento del pensiero della donne, dalle origini da loro indicate come origini da rispettare da parte di tutti e di tutte.

Un esempio recentissimo tra tutti, contenuto nella lettura fatta da un bravo giornalista di una dichiarazione di Michelle Obama, la quale in un messaggio alle donne diceva: “Voi stesse, il vostro benessere fisico,  emotivo e mentale, va messo molto in alto nella lista delle vostre priorità”. È una imparata dalla madre Marie Robinson, che ora vive con lei e le bambine alla Casa Bianca. “Mi ha incoraggiato a non mettere sempre i figli al primo posto, qualche volta anche a danno di me stessa”

E sentite che cosa commenta il giornalista:

“Michelle Obama sembra applicare al ruolo delle donne la filosofia di Adam Smith. Come il padre dell’economia capitalista teorizzava che fosse il perseguimento dell’interesse individuale a fare il benessere generale, così la first lady reclama la ricerca della felicità femminile come via maestra a quella della famiglia. Da applauso a scena aperta.” (Paolo Valentino, Corriere della Sera, 30/9/2009)

La mossa di sradicamento prevede prima di tutto di mettere la donne che pensa liberamente in un “ruolo”, poi passa alla cancellazione della dichiarazione di Michelle Obama di aver imparato dalla madre, infine attribuisce a un prestigioso pensatore ciò che è “speciale” nel pensiero ascoltato. Magari il giornalista ha perfino pensato di “nobilitare” le parole della Obama che gli devono essere sembrate speciali e dimesse allo stesso tempo.

Michelle dice di aver imparato da sua madre più o meno queste parole, credo: “Sorellina mia, ascolta il mio consiglio, ascolta la mia richiesta: rispetta te stessa più di quanto rispetti gli altri, rispetta le tue esigenze, rispetta anche ciò che di brutto c’è in te, rispetta soprattutto quel che immagini essere brutto in te. Per l’amore di Dio, non voler fare di te una persona perfetta, non copiare l’essere ideale, copia te stessa; è questo l’unico modo di vivere, quello che davvero è immorale e desistere da te stessa”. Clarice Lispector dice questo a sua sorella (La vita che non si ferma), ed è più o meno quello che forse Marie Robinson ha detto a Michelle Obama e, come si vede, non vi si trovano echi di Adam Smith.

 

Mancare di pensare la differenza sessuale e l’esperienza connessa, porta a orribili neutralizzazioni del potenziale reale del mondo. Si rifletta, a questo proposito, sulla seguente dichiarazione fatta da Boris Pahor, uno scrittore triestino di rango diventato molto noto e molto letto per aver raccontato la sua esperienza del lager: “L’uomo, tutti gli uomini, donne comprese, se ne hanno l’occasione e la possibilità,  sono cattivi. Per questo ho sempre paura che tutto possa ricominciare.” (Corriere della Sera. 30/9/2009)

Possiamo andare a ritroso fin che vogliamo con la nostra mente ma non vediamo così tante prove della cattiveria delle donne. Sappiamo che molte donne sono cattive e anche ciascuna di noi lo è in certi momenti della sua vita o lo può diventare stabilmente se vuole, ma non troviamo nella Storia un male fatto dalle donne paragonabile o sovrapponibile al male fatto dagli uomini, a quel male evocato da Pahor, storico e quotidiano insieme, capace di riproporsi e di colpire in ogni occasione, sfruttando ogni possibilità. Io no so se tutto il male che ha in mente lo scrittore sia sempre così a portata di mano, ma sono sicura, invece, che le donne non approfittano di ogni occasione e di ogni possibilità per essere cattive, anzi generalmente fanno proprio il contrario: non fanno uso di tutto il potere che hanno (madri verso figli, ad es.) e anzi spesso si frappongono tra chi fa violenza e chi è destinato a subirla. In questo senso, la neutralizzazione di Pahor è orribile perché impedisce di leggere quello che è accaduto e quello che sta accadendo, getta nella disperazione e nel nichilismo perché, in forza della sua terribile esperienza che desta compassione e attrae l’ascolto, falsifica la realtà storica e la realtà tou-court.

L’idea pseudo-filosofica di Pahor riguardante la maggior forza del male rispetto a ogni tentativo di bene, non è nuova né originale e riguarda precisamente il concetto d’inguaribilità dell’anima umana, una idea genialmente riproposta dal pensatore Freud che, sul finire della sua vita e del suo lavoro, elabora l’idea della presenza di due inconsci nella stessa persona (Eros e Thanatos). Questa fase finale della sua ricerca filosofica e antropologica è interessantissima perché gli permette di rendersi conto che c’è un inconscio vitale e orientato dal desiderio e un’altro  autodistruttivo e distruttivo orientato dalla pulsione di morte. Ma Freud il primo inconscio, quello orientato dal desiderio, lo scopre all’inizio della sua ricerca studiando e lavorando con le pazienti isteriche, mentre l’altro lo scopre osservando il comportamento dei  soldati della sua epoca, contenti di fare la guerra e eventualmente di tornare a farla ogni volta che lo Stato lo ritenga necessario.

Ora, non posso e non intendo negare che esistano queste due tensioni contraddittorie (per la vita e per la morte)  in ciascuno e ciascuna di noi, ma vorrei fosse cercata con più accuratezza la verità, vorrei fossero osservate con più finezza e spregiudicatezza le forme che assume la coppia contraddittoria. tendenza. Si può comprendere che esistano veramente due dimensioni inconsce una impregnata dalla pulsione di morte e l’altra orientato dal desiderio, ma non esistenti allo stesso modo nei due sessi, né qualitativamente né quantitativamente, almeno fino ad oggi.

Anche Freud è stato tentato e a volte vinto dalla neutralizzazione e dalla vecchia idea dell’inguaribilità dell’anima che gli viene in soccorso per continuare la lotta inestinguibile e inestinta della filosofia contro quel monstrum che è il desiderio, una parola che da Aristotele in poi viene usata per indicare troppe cose e non permette di distinguere passioni, desideri emozioni e chissà cos’altro ancora. Ma ci basta, qui, aver verificato la durezza della lotta che la filosofia intrattiene tuttora, anche nelle sue forme più avanzate, contro l’inaddomesticabilità del desiderio e contro la differenza tra uomini e donne. Anche in questo caso si tratta, come si vede, del campo di battaglia costituito da mente e cuore.

 

Mente e cuore sono proprio il campo di battaglia del presente, perciò penso sia prioritario e massimamente importante cercare alleanze per amore del mondo e là dove il senso dell’esserci si va formando: gli ambiti dell’educazione, istruzione e formazione. Penso addirittura sia più sensato e efficace rivolgersi a questi ambiti piuttosto dell’impegnarsi nel chiedere un cambio nell’ambito politico-istituzionale, se si è in cerca di trasformazioni positive dello status quo. C’è una lotta da fare, in fretta, là dove la filosofia è divenuta fenomeno di mercato, dove la si interpella sempre di più come cura, come competenza per formare i formatori , gli operatori, le educatrici, gli educatori, gli infermieri, i medici, etc. cioè tutta quella vastissima umanità che, a sua volta, è chiamata a esprimere e praticare le competenze relazionali, o è chiamata a formare in questa competenza altri e altre per lavori educativi o di cura. Si tratta dell’immenso mondo in cui si dovrebbe custodire e/o rinnovare il senso di ciò che si può dire “umano” strappandolo dalla disumanizzazione che, come Pahor, ci viene a dire, è sempre pronta a mangiarselo.

La posta in gioco è notevole perché è lì che incomincia a delinearsi con molta precisione il campo di battaglia che passa dalla mente e dal cuore. È dove la gente sta male senza essere ammalata di psicosi; o là dove la gente, i bambini, le bambine chiedono di essere cresciuti e orientati: è dove gli adulti e le adulte chiedono di sapere quali siano le pratiche che tengono vivo il mondo, per poterle praticare e trasmettere. È lì che incomincia il compito radicale di provare a rinnovare la forma generale della mente, a tentare la formazione di una nuova mentalità. C’è una lotta da fare perché la richiesta rivolta alla filosofia, allo scopo di convincerla a orientare di nuovo l’agire umano, venga raccolta da chi sa pensare adeguatamente e in modo libero dalle ragioni del mercato neocapitalista e degli affaristi. Tanto per intenderci, è profondamente sbagliato ridurre il bisogno di un mondo riumanizzato alla scorciatoia commerciale offerta dal “counseling filosofico” o dalla “consulenza filosofica”, nomi troppo sbrigativi per proporsi nella sostituzione di qualcosa che ha ben altra statura possibile ed è perfino già realizzata nella filosofia a matrice femminile.

È venuto di nuovo in chiaro dopo secoli, anche grazie al lavoro di Hannah Arendt e di María Zambrano, che molta sofferenza e molto pericolo per la convivenza e la sopravvivenza vengono prodotti dall’incapacità o dall’impedimento a “saper pensare”, a pensarsi, a pensare la vita, a pensare il sentire, a mantenere vivo il senso dell’autorità. Lo sanno molto bene gli psicoanalisti e le psicoanaliste di rango quanta sofferenza a sé e agli altri viene dall’impossibilità di accedere alle dimensione simbolica! Abbiamo sentito anche nell’aula del grande seminario di Diotima la voce della psicoanalista Cristiana Faccincani raccontare più volte che il non riuscire a saper pensare è fonte  di sofferenza per sé e per gli altri (questa sì “immane”).

Non a caso la psicoanalisi è da considerarsi una filosofia pratica nata nel novecento, e in continua trasformazione in quanto pensiero dell’esperienza; si tratta quindi di una filosofia pratica in grande vicinanza con quanto sto sostenendo. Per l’appunto, bisogna saper pensare, cioè saper fare filosofia, saper pensare in relazione per condurre altri e altre a nascere al pensiero non astratto, non esclusivamente logico o esclusivamente critico ma sensibile e impiantato nella sensibilità, qualsiasi sfumatura vogliate dare a questo nome.

 

L’intuizione diffusa nei nostri tempi intercetta la generale scomparsa del saper pensare in relazione, da intendersi come scomparsa della capacità di accedere al senso. In sequenza è avvenuto questo: scomparsa del saper pensarsi, occultamento del fatto che la radice del pensiero sta nella sensibilità, scomparsa del libero accesso al senso. L’intuizione corrente ha intercettato tutto questo e ha scatenato la corsa di sedicenti filosofi ad accaparrarsi i clienti ingenui e e speranzosi da illudere più che da formare, ma questi filosofi praticoni e le loro scuole non sanno nulla né di cura, né di esperienza, né tanto meno di pensiero dell’esperienza.

 

Da qui la mia, la nostra offerta: c’è necessità (lo intendo alla Weil questo essere necessario di qualche cosa, nel senso che non c’è scelta) di rendersi conto che la filosofia è la filosofia promossa delle donne, se vogliamo salvare l’ambito della cura e della formazione di chi cura mente e cuore, dato che, prima di medicalizzarsi, di snaturarsi in qualcosa di esclusivamente medicalizzante (il che farebbe giustamente stracciare le vesti ai foucaultiani di formazione), la cura è in origine, autorità e amore, parole-chiave delle pratiche filosofiche di origine femminile di cui, ostentatamente e colpevolmente sul piano scientifico e sul piano del rispetto umano, sedicenti filosofi e formatori non sanno nulla e, nonostante questo, vengono pagati profumatamente confermando il loro stato d’ignoranza buono ad addestrare altri ignoranti a vita.

Qualche eccezione sento il dovere di farla nei confronti di colui che tra i primi in Europa – credo inconsapevolmente vicino al pensiero di Diotima – ha parlato della necessità di tornare a curare la vita attraverso il filosofare: è il filosofo tedesco Gerd Achenbach. Lui pensa che questa filosofia di cui sto parlando, quella che si rivolge all’aiuto e all’amore come pratiche, sia una filosofia relazionale che vorrebbe rinominare come “Filosofia in rapporto”. Dice: “una denominazione che vorrei riconoscere volentieri come titolo onorifico per la Consulenza filosofica”.

In effetti, riscoprire il valore della filosofia orale che deve usare la lingua parlata, quindi la lingua della relazione. Almeno ha intuito che c’è filosofia se c’è relazione; che se si parla la lingua materna c’è competenza relazionale, perché se no “il filosofo” al maschile e tra virgolette, scambia la relazione con il semplice dialogare mondano, accogliente quanto si vuole, ma del tutto incapace di trasformare.

Si tratta infatti di conoscere pratiche filosofiche trasformatrici, ma non solo, c’è anche la necessità di mantenere la radice femminile di queste pratiche, se no, la riumanizzazione di cui abbiamo necessità – quella che Carla Lonzi indicava come il  “percorrere la storia” insieme alle donne pensanti – la vera riforma antropologica, sarà una profezia falsa perché non passerà da menti e cuori, cioè, non passerà dall’autorità e dall’amore.

 

Riprendiamo l’amore, ad esempio, il motore di ogni trasformazione insieme al desiderio, e ditemi: ma che cosa ne sanno i filosofi contemporanei dell’amore? Quasi niente, figuriamoci di pratiche d’amore! Zygmunt Bauman, per esempio, un filosofo molto ascoltato, vede tutto liquefatto e, per non essere tagliato fuori, lìquefa a sua volta, anche l’amore dato che sostiene e scrive dell’incompossibile, una sua parola d’ordine incaricata di significare l’impossibilità della coesistenza logica e pratica degli affetti e del desiderio. Si tratta del solito dolente racconto degli uomini secondo i quali l’amare appassionatamente e il volere bene non possono stare insieme: va bene la mamma-moglie se si fa sesso con altre nelle ore libere. E anche questo lo mettiamo in continuità con quella tradizione filosofica che lotta contro il desiderio, il quale se viene orientato verso il nutrimento degli affetti è destinato a scomparire. Di questo si tratta quando si marchia di incompossibilità la logica degli affetti e logica del desiderio.

Ma una delle cose più gravi che avvengono nel mercato delle idee è quando i pensatori fingono di tenere conto che esista il pensiero femminile per potersene prendere gioco. Faccio a malincuore un esempio perché stimo Marco Vozza, sono una sua lettrice, studio anche i suoi testi, è uno che è riuscito a cambiare l’ermeneutica di Nietzsche in senso affettivo, è un filosofo di rango, per l’appunto, ma gli è preso di diventare competente anche nella sapienza d’amore e così ha scritto un libro a cui ha dato come titolo L’imperscrutabile eros, in cui fa una bella carrellata di filosofi, includendo solo due autrici come Marguerite Duras e Lou Salomè.

La carrellata serve per mostrare e dimostrare, secondo il solito metodo razionalista-dimostrativo, che l’amore è un impossibile, per cui si sostiene la concezione intransitiva dell’eros dato che Vozza è abbastanza convinto che eros, l’amore chiamato all’antica come fa la filosofia, sia qualche cosa che si è dimostrato essere intransitivo nel corso di secoli di rapporti fallimentari tra uomini e donne. Sicché oggi possiamo stare sicuri che non si può realizzare.

Sotto tutto questo c’è qualcosa di più radicale e inquietante: una sorda convinzione che la relazione tra esseri umani in generale non sia veramente transitabile, non sia veramente realizzabile. Questo è lo sfondo del pensiero maschile. La relazione finisce per essere nelle loro dei filosofi qualcosa di utopistico, di troppo incerto e controverso, o faccenda per “anime belle” poco abili in filosofia.

Sai finisce per arrivare a qualcosa di veramente spassoso: Vozza tratta Lou Andreas Salomé in una maniera sprezzante prendendola come una campionessa delle femministe che vogliono, pensate un po’, rimanere femministe e fare le filosofe. Scrive che le femministe del pensiero femminile ritengono Salomé una di loro; invece, Vozza dice, poiché pensa è dalla parte della tradizione maschile e lo “dimostra” commentando un saggio di Lou Salomé che è contenuto nel testo La materia erotica (Editori Riuniti, 1984). Vozza commenta una frase o due concludendo circa così: “Ecco cosa dice veramente sull’amore questa autrice, anche lei pensa che la relazione sia impossibile, così la smettete di pensare che la filosofia erotica maschile è misogina, o altrimenti dovete ammettere che anche una donna filosofa diventa misogina” e cita alcuni passi che portano acqua al suo mulino. Il problema è che Vozza non ha tenuto conto di L’erotismo di Lou Andreas Salomé (La Tartaruga 1985), un’altra raccolta che ha come sottotitolo L’umano come donna.

Bastava leggere qualche frase in più, infatti, magari proprio dall’Erotismo: “Il sublime e il raro non consistono nel trovare ciò che non à mai esistito prima, nell’annunciare l’inaudito, ma nel portare ciò che è divenuto quotidiano, che è dato a tutti, alla pienezza delle sue possibilità  nello spirito umano, come quando nelle nebbie del mattino crediamo di stare vagando per una pianura, perché il sole tocca la nebbia e fa risplendere attraverso essa le cime dei monti, così lontane che sembrano fantasmagorie sempre più alte, sempre più lontane e tuttavia, anche le più inaccessibili sono ancora nostre, appartengono alla nostra vita, sono il nostro paesaggio. Tuttavia quel medesimo coraggio di amare e di vivere, che mentre guardiamo quelle cime suscita in noi nuovi sogni e mette aria ai nostri piedi, non si lascia racchiudere di nuovo nella specializzazione e nella parola all’infuori di una certa volgarizzazione delle cose portate alla luce del giorno, anche banalmente. Queste sono ancora spiegabili per noi soltanto con luoghi comuni, così schematici come teatrini di ogni distruzione e determinazione” …e va avanti.

Queste sono le pagine conclusive dell’Erotismo dove possiamo trovare la effettiva transitabilità dell’amore, a patto che ci rivolgiamo al quotidiano non banalizzato, alle relazioni che si formano e alle relazioni che si nutrono della materia dei sogni e che si trasfigurano, come si legge nella filosofia poetica di Salomé, poiché trasfigurano tutto quello che viene “volgarizzato”. Anche questa autrice, come molte altre, cerca la grandezza nel quotidiano, cosa non facile da digerire per il pensatore che brama l’immane. Ma se la filosofia di cui abbiamo bisogno è quella dell’ascolto, alla scuola dove si insegna questa filosofia Vozza verrebbe rimandato a ottobre.

A proposito di ascolto – una pratica ormai tanto inflazionata quanto poco conosciuta veramente –: è una parola chiave nei luoghi di accoglienza, nei centri antiviolenza, etc. Ma cosa è l’ascolto se non si conosce ad esempio la pratica della passività e dell’empatia a matrice femminile? È una maschera politicamente corretta di una filosofia attivista, e buona per un attivismo che trasforma i luoghi dell’accoglienza, come in effetti li sta trasformando, in luoghi di pronto soccorso per le emergenze più varie; luoghi dove si forniscono risposte frettolose, risoluzioni attivissime e veloci ai problemi più che contingenti, e a volte completamenti falsi.

Questa parola, ascolto, stende un velo epocale falsificante su molte pratiche che non sono per niente di ascolto. L’ho compreso perché ho accompagnato passo passo il lavoro di tesi di un mio studente che lavora in un centro di carità, diciamo così, uno dei quei centri che accolgono quelli che vivono per strada, i mendicanti, ma anche extracomunitari, ubriachi, quelli che hanno perso la memoria, etc. Dopo aver molto elaborato, studiato, etc. abbiamo visto, esperienza alla mano, la trasformazione di quei centri di accoglienza avvenuta quando si è capito cosa è lavorare ascoltando veramente. Per farlo, si è dovuti passare attraverso le pratiche di passività e le pratiche dell’empatia di origine femminile, per come nascono e per come sono state elaborate. Se ne vogliamo assaporare l’efficacia bisogna lasciarle orientare da quell’origine.

Questo è l’ultimo esempio che ho voluto fare, un esempio molto pratico, per concludere e per mostrare ancora meglio la posta in gioco.

 

Adesso vorrei tornare ad Anna Maria Ortese perché è sempre molto bello sentire la sua voce parlarci e farci gli auguri: “Voglio dire con questo che in trentacinque anni di Repubblica  molti lottarono da ogni parte, e voglio credere per il bene, ma nella loro lotta mancò, a questi oggi a quelli domani, a chi più a chi meno, l’obiettivo di una libertà nuova, di una nuova coscienza degli uomini, senza la quale fosse impensabile ogni comando, impossibile ogni decente vittoria, e quando dico una vita nuova, dico sempre vita finora mai consentita, dico dunque evoluzione morale, questa mancò”.

Forse è venuto il tempo di ciò che è mancato per troppo tempo.