La compassione e la vendetta. In margine al film Pietà di Kim Ki-duk
“…un sepolcro, e le braccia d’una madre”
(Euripide, Ecuba, prologo)
Pietà
La locandina del film Pietà del coreano Kim Ki-duk[1] riproduce la Pietà Vaticana di Michelangelo. Maria e Gesù sono impersonati dall’attrice Cho Min-soo, che nel film interpreta la madre Min-su, e dall’attore Lee Jung-Jin, che interpreta il figlio Kang-do. I corpi immobili di entrambi sono drappeggiati in bianco e in ocra e sono atteggiati a riprodurre il gesto lento e dolente delle braccia di Maria sul corpo esanime di Cristo. Non si tratta di un fotogramma tratto dal film, ma di un’immagine scelta ad hoc dal regista Kim Ki-duk per la pubblicizzazione: i fotogrammi che poi andiamo a vedere sembrano quasi scorrere sulla filigrana di quest’immagine, che è perfetta a dischiudere il significato del film.
La Pietà è una delle figure più alte e più complesse del mistero cristiano, perché parla dell’incarnazione e della morte di Cristo, e perché ne parla mostrando come questo accada attraverso il corpo di una donna.
L’anticristianesimo di Kim Ki-duk saccheggia la simbologia e l’iconografia cristiane per rovesciarne nichilisticamente il senso: quest’operazione interpretativa è attuata mettendo in scena la potenza creatrice e, insieme, la potenza distruttiva del corpo della madre. Come la sorte del figlio sarà segnata dalla duplice potenza materna, così lo sarà la sorte della madre, annichilita dalla contraddizione di cui essa è ospite e insieme attrice[2].
via crucis: il compianto e la pietà
La Pietà rappresenta il mistero dell’incarnazione e morte di Cristo: l’atto con cui la madre raccoglie il figlio morto nel compianto è lo stesso atto con cui essa porta al seno il neonato nell’accoglierlo al mondo. I due atti coincidono, essendo nella nascita allegoricamente prefigurata la morte: l’abbraccio nella culla contiene la ricomposizione nel sepolcro, la cura della venuta al mondo del bambino contiene il compianto per l’abbandono del mondo da parte del defunto.
La coincidenza dei due gesti è sottolineata dalla scelta totalmente irrealistica del ventiduenne Michelangelo di mostrarci una madonna quasi infantile nel gruppo scultoreo del Vaticano: Maria è colta nell’età del concepimento, non in quella dell’invecchiamento, e ci restituisce l’idea di una perfezione non toccata dalla corruzione terrena.
La figura della Pietà non parla della rinascita del figlio: non ha a che fare direttamente con la salvazione e con la resurrezione della carne, che aprirebbero un altro eventuale orizzonte, ha a che fare piuttosto con l’esile arco temporale di questa vita. La resurrezione non è infatti l’ultima tappa della via crucis, bensì una tappa ulteriore. Dopo la deposizione dalla croce e prima della deposizione nel sepolcro, che tradizionalmente costituisce la quattordicesima tappa, vi è il momento del compianto di Cristo, quando Maria, Giovanni, Nicodemo, Giuseppe d’Arimatea, le pie donne e Maddalena si chinano condolenti sul suo corpo. La figura della pietà, poi, coglie un momento ancora più definito del compianto: immagina Maria sola con Gesù. Immagina il dolore di Maria come non condivisibile, come irraggiungibile dal cordoglio di chi è prossimo, come sordo all’invocazione altrui, all’ eia, mater, fons amoris[3].
La Pietà è così una sosta tra le due tappe più desolanti della passione: la pietà ci impedisce di procedere, ci obbliga a fermarci a sentire ed a riflettere proprio a questo punto del mistero, tra la croce ed il sepolcro, al di qua della possibilità della redenzione, prima della promessa della salvazione, o quanto meno prima che esse siano più che mera speranza. Cristo è tra le braccia della madre, per un attimo soltanto, deposto dalla croce e prima del sepolcro: la fine e l’inizio coincidono, in quest’attimo che assolutamente prescinde dalla possibilità di un’altra nascita e si radica sulla semplice e feroce intrascendibilità del dolore.
Ci tratteniamo così a meditare dando le spalle alla linea della trascendenza, in una zona del nostro essere dove alberga ancora ed esclusivamente la sofferenza, dove la porta della speranza non è neppure visibile[4].
il sentimento della relazione
Ecco perché la pietà è un sentimento, ed è un sentimento umano, molto, troppo umano.
E’ il sentimento che nasce nella relazione tra la madre e il figlio e ogni madre e ogni figlio lo nutrono perché l’hanno imparato nella relazione originaria: lo potranno coltivare perché lo hanno necessariamente attraversato e lo coltiveranno nel modo in cui lo avranno fatto proprio. La pietà è allora il sentimento stesso della relazione: è originato dall’esperienza della relazione in cui veniamo al mondo, da quel processo singolare del separarsi da sé e lasciar essere un altro sé in sé che è la gestazione, e dalla cura che ci viene dedicata una volta giunti al mondo; ed è replicato nell’esperienza con cui torniamo all’origine nella separazione dal mondo, nel percorso di accompagnamento e di condoglianza che dedichiamo a chi di nuovo si approssima al margine, alla fine.
La pietà si riproduce in noi come compassione, la rende possibile: diventa il sentimento del patire insieme, grazie al quale sentiamo il dolore di un nostro simile, sentiamo un dolore che pure non colpisce il nostro corpo e la nostra anima, ma che si trasferisce a noi dal corpo e dall’anima del simile a noi. La nostra pietà fa sì che il dolore altrui si trasferisca su di noi, questa è la compassione, descritta così già da Aristotele nella Poetica[5]. Per questo la compassione è allora pensata anche come condivisione, perché comporta il desiderio che il dolore di un altro possa essere tolto o almeno attenuato, quasi che tale transazione abbia il potere di alleviare il peso del sofferente.
spietatezza e disperazione in Kang-do
Kang-do è un giovane uomo spietato, sulla trentina.
Forse è crudele o cattivo, ma soprattutto è indifferente alla sofferenza che il male di cui è portatore ed esecutore produce. Questa indifferenza rende problematica la possibilità di definirlo malvagio. Malvagio significa, nell’unico senso forte e determinato che il cristianesimo abbia potuto ammettere ed attribuire al male, perverso: la perversione è quella diversione radicale della volontà dall’essere che produce il male, è l’allontanamento originario dal bene che porta il male a configurarsi, a presentarsi nel mondo, quindi in qualche modo ad essere, in tutta la paradossalità ed inaccettabilità che questa proposizione comporta.
Ma Kang-do sembra muoversi prima di questo luogo dove avviene la determinazione della scelta tra il bene ed il male, prima di questa soglia decisiva per la definizione dell’essere umano: egli è disumano perché è pre-umano, perché in lui non vi è volontà verso il bene o il male, ma assenza totale di consapevolezza. In lui non vi è né pensiero né sentimento, e questo stato si esprime come indifferenza alla condizione esistenziale altrui.
Kang-do è spietato, appunto, senza pietà.
Chi non ha pietà non ha fatto esperienza della relazione originaria di nascita ed accudimento, non conosce la relazione: vive pertanto senza compassione.
Non ha speranza, neppure, perché anche la speranza e la disperazione sono nutrite dall’essere umano e nascono dalla stessa esperienza originaria che produce la pietà.
Le vittime sì, sono disperate nel subire i rovesci della vita e le malversazioni di Kang-do, eppure sono piene di speranza, perché tali sono le suppliche strazianti che esse rivolgono al loro carnefice: questi disperati hanno speranza e fanno appello alla compassione per ottenere quanto sperano.
Ma si rivolgono ad un uomo senza pietà, cioè totalmente ignaro di cosa siano la compassione e la speranza. Kang-do non ha niente da perdere, si potrebbe anche dire così, ma in realtà Kang-do non sa neppure che si possa avere qualcosa, quindi anche perdere qualcosa: il denaro che egli esige e in nome del quale egli storpia, mutila, offende è niente, è l’esatta rappresentazione del niente, del valore di niente che le cose, le persone, gli affetti, insomma le relazioni hanno in un mondo totalmente avulso dal bene, totalmente estraneo all’essere[6].
Kang-do non ha conosciuto la madre: tutto qui, per questo quando comincia a credere al racconto di Min-su tutto cambia nel suo comportamento, anzi, tutto cambia in lui.
spietatezza e disperazione in Min-su: la vendetta
Min-su è una donna dall’età indefinibile, certamente non vecchia, sembra coetanea o poco più rispetto a Kang-do. Gli si impone con fermezza, dolcezza, abnegazione, raccontandogli di essere la madre che lo ha abbandonato neonato e che così si è resa colpevole del male messo in opera dal figlio.
Min-su è davvero disposta a tutto: è pronta anche al sacrificio estremo, alla perdita dell’integrità del corpo o della vita stessa. L’oblatività del suo comportamento non è apparente: il suo movente non è però il senso di colpa per avere inferto una deprivazione, bensì la volontà di giustizia per averla subita. Ancora: il suo scopo non è riscattare la colpa ed acquisire il perdono, bensì lenire il proprio dolore e vendicare la morte del figlio vero. La vendetta, non la condivisione pietosa, è qui il sentimento che procede dalla relazione originaria[7].
Il comportamento di Min-su è credibile ed efficace, perché muove da qualcosa di potente e imprescindibile, dall’amore materno, che chiede di essere obbedito senza condizioni. Min-su non può che continuare ad amare il proprio figlio, e la vediamo ancora impegnata sia in piccoli gesti di devozione postuma sia nella grande strategia di seduzione verso il figlio falso. Essa incarna, quindi mostra, un amore materno vero, per cui Kang-do non può che crederle e, amato, riamarla.
Kang-do incontra così il sentimento dell’amore e fa esperienza della relazione. Da questo momento in poi egli non è più un uomo spietato, è diventato un uomo che può provare compassione e speranza. Le sue vittime ed il suo capo capiscono che egli ora ha qualcosa da perdere e che è diventato ricattabile: ma il punto vero è che egli ora ha pietà, perché si è riconosciuto come oggetto di pietà, accolto nell’abbraccio dell’accudimento e del compianto della madre.
l’impossibilità del perdono
La pietà in Min-su non può che essere potente, essendo lei la matrice della relazione originaria, ma non porta alla compassione del vivente: quando Min-su comprende che Kang-do comincia a soffrire per lei, che teme di perderla, essa non si ferma, semplicemente porta avanti il suo piano fino in fondo. Questa semplicità, questa lineare ineluttabilità degli accadimenti, è in realtà il prodotto di una contraddizione complessa, in cui Min-su è posta proprio dal sentimento materno[8].
Min-su decide di lanciarsi nel vuoto sotto gli occhi di Kang-do che, disperato, le chiede di fermarsi. In questo preciso momento, essa è pervasa da una pietà nuova e imprevista per quell’uomo non più spietato che essa ha in qualche modo accolto e riconosciuto come figlio. In lei il sentimento della relazione ora agisce sia in quanto amore estremo per il primo figlio, sia in quanto amore derivato. Ma questo significa che essa vive contemporaneamente la necessità della compassione e la necessità della vendetta. Quindi essa avrà un’unica scelta di fronte a sé, ovvero proseguire, fare agire la contraddizione fino in fondo.
L’amore verso il primo figlio le impone di completare il suo piano, allo scopo di sottrarre a Kang-do la sua prima ed unica fonte di amore, portandolo ad una disperazione senza scampo.
Ugualmente l’embrione di pietà che essa ora sente per il figlio acquisito le impone di andare fino in fondo, allo scopo di mostrargli tutta la potenza dell’amore, impedendogli di contestare la bontà dell’esperienza di relazione che egli ha vissuto, quindi di regredire al suo stato precedente.
La possibilità del perdono è esclusa. La stazione della passione attraversata dalla madre è la pietà, nella solitudine completa del dolore, nell’attimo finito, umanamente determinato, del passaggio tra la croce e il sepolcro. Tale attimo è finito perché non c’è un attimo successivo in cui il compianto della madre trovi senso e riscatto nell’abbraccio di dio. Tale attimo è finito perché lì si inserisce la contraddizione tra compassione e vendetta, lì si concretizza la tragedia dell’umana esistenza, nell’impossibilità di qualsiasi sintesi superiore.
Sarà allora Kang-do a ricomporre il cadavere di lei e del figlio vero nella fossa in riva al fiume; sarà Kang-do a sdraiarsi accanto ai corpi morti componendo così egli stesso il proprio e l’altrui compianto, con un gesto di pietà che simula una conciliazione in realtà impossibile.
la carne e il niente
Anche per Kang-do la possibilità del perdono è esclusa.
Kang-do tenta di ripercorrere a ritroso le tappe della sua precedente perversione, portando pietà e chiedendo compassione alle vittime i cui corpi egli ha segnato in modo orribile: ma nessuno può sentire il suo patire, ora, ed egli suscita soltanto altro terrore oppure desiderio di vendetta, insomma suscita solo rinnovato orrore.
D’altra parte anche questo tentativo consiste in una mossa obbligata e contemporaneamente vana. Kang-do non può che rivolgere la sua richiesta di perdono alle vittime della sua brutalità e non può che ottenere un diniego: esse non possono perdonarlo, perché non è umano perdonare tali brutalità e questo perché non è umano concedere la remissione del male. Le vittime che hanno subito ingiustizia possono chiedere il perdono per il carnefice, ma solo dio può accordarlo e istituire la giustizia. Quindi il peregrinare di Kang-do è necessario e inutile.
Kang-do decide la propria morte: trascinato dal furgone guidato dalla giovane moglie di una delle sue vittime, egli morirà scarnificato, lasciando dietro di sé solo una lunga traccia di sangue. Neppure un brandello di carne, solo una scura traccia di sangue.
Di lui non resta niente, esattamente il niente, proprio perché se non c’è alcun perdono possibile allora non c’è alcuna carne da restituire all’unità di anima e corpo nella resurrezione del giorno del giudizio.
Di lui non resta che quest’esito, la scarnificazione, che è il processo inverso dell’incarnazione del figlio di dio nel corpo della madre.
Una escatologia c’è, una direzione ultima c’è, certo, consiste precisamente in questo tragitto verso il nulla.
[1] Pietà, regia e sceneggiatura di Kim Ki-duk (Corea 2012), vincitore del 69° Leone d’Oro al festival di Venezia.
[2] Qualcuno, da una sedia a rotelle, sistema un uncino e una catena sopra di sé, preparando il proprio suicidio. Le scene successive, tutte ambientate in botteghe e baracche della periferia degradata di una grande città, forse Seul, mostrano povera gente che lavora e vive malamente.
Un giovane uomo, Kang-do, si reca all’una o all’altra bottega per riscuotere astronomiche somme di denaro, prodotto di prestiti più o meno piccoli concessi a interessi impossibili. Kang-do lavora per un usuraio, facendo firmare polizze assicurative per infortuni sul lavoro ai disperati debitori: se non pagheranno direttamente, un “incidente” recupererà il debito da saldare. Kang-do esegue impassibile amputazioni e storpiature, e riscuote il dovuto.
Un giorno viene tallonato da una donna, il cui nome è Min-su, che lo ferma e gli chiede perdono: dice di essere sua madre e di essere la responsabile del suo comportamento, per averlo abbandonato, giovanissima, appena nato. Dopo violenze e “ordalie” nei confronti della donna, è Kang-do a cedere al racconto di lei, le crede, e conosce così un accudimento e un affetto finora per lui assolutamente impensabili. Contemporaneamente, il suo atteggiamento nel “lavoro” cambia, proprio perché sentimenti nuovi si fanno strada in lui. Anche l’atteggiamento delle sue vittime cambia, cominciano a cercare di vendicarsi, così come l’usuraio per cui Kang-do lavora non si fida più di lui: Kang-do ha una madre, quindi è ricattabile.
Min-su inscena un rapimento, lasciando la casa in subbuglio e sparendo. Kang-do la cerca, pellegrinando tra le baracche delle sue vittime, presso le quali non trova alcuna comprensione ma solo odio, desiderio di vendetta e paura. Min-su nel frattempo recupera e seppellisce il corpo del suo vero figlio, che si è impiccato dopo essere stato ridotto in sedia a rotelle a causa di Kang-du. Min-su si fa trovare in un cantiere presso il fiume, dove finge di venire minacciata di morte. Al desiderio di vendetta che l’ha motivata inflessibilmente fino a quel momento, non consegue l’atteso sentimento di compimento ma una forma di pietà per il figlio surrogato, cattivo e ora pentito. Min-su si getta nel vuoto. Kang-du è disperato: nel seppellirla trova il corpo dell’altro giovane uomo, il figlio vero, che indossa il maglione confezionato dalla madre e che Kang-do sperava fosse destinato a lui. Comprende, decide di cercare un impossibile perdono presso le sue stesse vittime e, infine, decide di darsi la morte.
[3] E’ la seconda parte dello Stabat mater attribuito a Jacopone da Todi, autore dell’altrettanto celebre Pianto della Madonna. Sull’assorbimento del femminile nel materno da parte dell’occidente cristiano il testo di Julia Kristeva Eretica dell’amore, La Rosa, Torino 1979 (Tel Quel, 74, 1977).
[4] Il tema del dolore della madre e della condoglianza di chi la circonda è continuamente ripreso e ripercorso dalla devozione popolare (nelle viae crucis, nelle sacre rappresentazioni pasquali, nelle preghiere all’addolorata, in vari gruppi scultorei…) e dalla cultura colta (nelle laudae, negli stabat mater barocchi …). Discontinuo è invece il suo inserimento nella liturgia ufficiale. Il topos iconografico della pietà ha radici umili, provenendo dalla tradizione nordica tardo medievale dei Vesperbilder: è qui che troviamo Maria sola con il figlio, seduta, ad accogliere/raccogliere il corpo morto.
[5] Nella Poetica (1449b) Aristotele mostra come le rappresentazioni tragiche suscitino negli osservatori éleos, pietà, e phòbos, timore: poiché gli spettatori osservano con empatia gli eventi, partecipano attraverso la mimesi, quindi si verifica la purificazione. Il termine éleos è lo stesso usato nell’Iliade (Canto XXIV) per descrivere lo stato di Achille che, di fronte a Priamo implorante, si commuove pensando al proprio padre, cioè immedesimandosi nel dolore di Priamo. Un approccio filosofico al tema della compassione, pietà, vendetta, misericordia nel mondo antico è nella seconda parte di Martha Nussbaum L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2004.
[6] La complessità di questo film è stata banalizzata da molta parte degli interventi giornalistici e ridotta a critica del capitalismo. Che il capitalismo stia nell’astratto nome del padre e nell’assenza di fondamento materno, può ben essere tema di discussione, e a questa interpretazione il film si presta. Ma che questo film consista nella denuncia del degrado sociale e delle distorsioni antropologiche cui la logica del profitto porta non è neppure una interpretazione.
[7] Il tema della vendetta è al centro della trilogia di Park Chan-wook, altro regista coreano. Nel terzo film, Sympathy for Lady Vendeange, del 2005, vendetta e giustizia sono compiute da una donna dall’aspetto angelico: la vendetta personale sul malvagio qui coincide con il rendere giustizia ai bambini vittime dello stesso carnefice.
[8] Ecuba è la figura tragica di riferimento, cui Euripide dedica la tragedia omonima e Le Troiane: Ecuba, che è donna dall’educazione eccellente, annichilita dal dolore per la morte dei figli e delle figlie, si trasforma in cagna e si vendica uccidendo a sua volta i figli di Polimestore. Su questo Martha Nussbaum Il tradimento delle convenzioni: un’interpretazione dell’Ecuba di Euripide, in La fragilità del bene, Il Mulino, Bologna 1996