diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 8 - 2009

Il Punto di Leva

La città in cui vivo

Quali sono le pratiche politiche che si sottraggono al muro contro muro delle reciproche opposizioni, che si incagliano in una quadrettatura già disegnata? Che cosa ci interessa veramente della città che abitiamo e quali sono i punti di fluidificazione della politica, dove si apre uno spazio nuovo rispetto al gioco di potere e contropotere? I due interventi di Laura Sebastio e di Chiara Zamboni raccontano di pratiche oblique, trasversali, che attraversano i luoghi recintati dall’immaginario identitario.

 

Verona: attraversare la strada

Laura Sebastio

 

 

A Verona sono in molti/e a fare politica: associazioni, donne e uomini del terzo settore, gruppi di acquisto, volontariato cattolico e laico, ragazzi e ragazze dei centri sociali, Movimento Nonviolento. Tutte queste persone però, solitamente non agiscono al di fuori di ciò che si sono ritagliati come spazi e modalità di azione, le iniziative si chiudono spesso in una vistosa autoreferenzialità, non si riesce a parlare a chi non sia già ‘dentro’, a chi non condivida già…con il risultato di una mancanza di efficacia, di potere di contagio, di attrazione simbolica. La città si articola così in settori separati, che di politico hanno poco, poiché la politica è efficace quando taglia, interseca il reale e lo modifica. È come se tante rette corressero parallele tra loro, ciascuna con i propri scopi, le proprie modalità, i propri target, senza intersecarsi con ciò che invece resta fuori.

Come in molti hanno notato, il successo della Lega alle scorse elezioni è dovuto al suo essere un movimento nato in contesti concreti, dalla gente e dalle comunità. È un fenomeno trasversale, al di là delle definizioni politiche ormai obsolete: niente partiti o fazioni entro i quali adattarsi e coi quali venire a patti ma piuttosto l’ascolto delle paure, delle difficoltà della gente. È questa trasversalità che trovo convincente e che credo si possa e si debba giocare anche in contesti politici meno istituzionali.

Diversamente dalla Lega però, che propone una retorica della sicurezza e forme di vita rinchiuse nelle loro istanze identitarie, che si tengono a distanza da ogni possibile contaminazione con chi è differente, la mia proposta è del tutto contraria: contaminarsi, e farlo il più possibile, in qualunque occasione, anzi, creare le occasioni e lavorare sulle condizioni di questa contaminazione. Assumersi dunque il rischio delle relazioni, della nostra condizione di convivenza/interdipendenza rinunciando a ricorrere a priori al cordone salvifico-immunitario costituito dagli eserciti, dalle ronde, dalle forze dell’ordine. Creare invece occasioni di contaminazione nelle case, nei bar e nelle osterie, sulle panchine (eccezionali luoghi simbolici che, non a caso, stanno scomparendo), nei mezzi pubblici, al supermercato. Tornare a popolare anche noi le piazze, le strade come mi capita di veder fare agli africani, che di un marciapiedi sanno fare un salotto…eppure…sempre più le città, le ricche città del nord, allontanano la vita dalle strade attraverso divieti e regolamenti municipali. Cos’è che della vita negli spazi pubblici ci spaventa tanto che arriviamo a negare e negarci la possibilità di mangiare, stenderci a riposare su una panchina, sederci su un prato? Forse proprio il suo potenziale trasformativo, conflittuale (e abbiamo paura dei conflitti…) e politico. Meglio allora ripulire le strade, evitare il contagio, l’attrito, attraverso regolamenti sempre più invasivi?

Eppure non è questa la città nella quale voglio vivere. C’è un che di inespresso, di imbalsamato, di finto, c’è la rimozione della vita, con le contraddizioni e il negativo che porta con sé.

Sento spesso il bisogno di azioni simboliche che spingano il reale e nel reale il mio desiderio di andar oltre la facciata, di mettere in moto dinamiche inespresse, inibite dalla paura del mescolamento, dinamiche per me vitali, evolutive, politiche.

 

 

Tempo fa ero in un locale come tanti e ho chiesto al barista un panino da dare ad un signore straniero che strimpellava penosamente un’armonica fuori dal locale. Il gestore mi ha risposto che era meglio di no, che poi facendo così ci si ritrova il locale pieno di “questa gente” e che per questo si rischia che i clienti non vengano più. Sono rimasta senza parole, non solo per il rifiuto, ma soprattutto a causa della triste verità di quest’ultima affermazione…avrei potuto ribattere dando del razzista al ragazzo ma non ci sono riuscita: le parole mi si sono ripiegate dentro. Mi succede infatti quando ascolto veramente gli altri, di sentire questo genere di sensazione, come se qualcosa di imprevisto mi raggiungesse e cercasse spazio dentro di me…e mentre si fa spazio le mie convinzioni vacillano, anche loro coinvolte da quel trambusto imprevisto e sono meno pronte di prima ad accettare la forma delle parole. Sono tornata al posto un po’ più cupa di prima (anche perché non avevo con me il panino e non sapevo cosa dire all’uomo con l’armonica…). Dovevo ancora capire ciò che mi era successo e mentre cercavo di farlo raccontando alle mie amiche quello che era successo, il gestore del locale, a disagio a causa della situazione, ha sentito la necessità di spiegare meglio la propria posizione, e per farlo ha scelto un esempio: tempo prima un paio di rumeni ai quali aveva servito da bere, avevano sporcato il locale ed erano andati via senza pagare. La volta successiva si è rifiutato di dar loro da bere. Alla loro accusa che quello era un atteggiamento razzista la sua risposta è stata che quando ha a che fare con “certa gente” allora sì, diventa razzista e fascista!

Premesso che adesso penso che avrei dovuto farlo, che avrei dovuto insistere per comprare il panino e poi farne quello che volevo, vorrei fare qualche considerazione. Ritengo arricchente parlare e ascoltare quello che la gente pensa e come vive certe situazioni: penso che mi aiuti a capire questa città, le sue paure, e come la città vede se stessa. Voglio tenermi quella sensazione di spiazzamento che ritengo preziosa visto che mi provoca il contatto con elementi di verità dell’esperienza dell’altro. Trovo comunque allarmante e significativo che ci si possa ritrovare con tale disinvoltura a definirsi razzisti e fascisti. Quando ci si trova davanti a persone irrispettose come quei due rumeni, che necessità (e che gusto…) c’è di arrivare a definirsi razzisti e fascisti se si decide, comprensibilmente in casi come questo, di opporre loro un rifiuto? Non si può essere semplicemente un gestore di un locale che rifiuta di dar da bere a persone che si sono comportate in maniera irrispettosa?

Siamo di fronte ad un atteggiamento diffuso, frutto di un moralismo perbenista, per cui chi esplicita il conflitto è “il cattivo”, chi si trova, dunque, nella sua vita quotidiana a vivere problematicamente la presenza di molti immigrati in città è a rischio di essere tacciato di atteggiamento razzista e fascista…tanto vale dirselo da solo…e votare chi dimostra di riconoscere il problema e sembra finalmente che lo nomini per come è. Io in quel ragazzo non ho visto un razzista, ma innanzitutto una persona che vive una situazione complessa: condurre e vivere su una attività che poggia la sua popolarità su una serie di requisiti tra i quali la presenza o meno di persone moleste (o ritenute tali). Per molti veronesi avere attorno gente disagiata (o ritenuta tale) è un fastidio, provoca disagio e la gente tende a non andare in luoghi dove possono trovarsi a disagio. Allora cosa avrei risolto chiudendo la questione dando del razzista al gestore? Parlando con lui, il mio sguardo ha invece acquisto ampiezza e profondità: ampiezza poiché quell’episodio contestuale mi ha svelato una verità che riguarda la città, e profondità perché, sospendendo il giudizio, quella persona ha rivelato più aspetti di sé del solo atteggiamento di rifiuto (ad esempio il suo disagio nei confronti del suo stesso atteggiamento, la voglia di non apparire solo come razzista ma allo stesso tempo il suo contraddittorio riconoscersi tale..). E io in questa complessità ci vedo altro, dei possibili.

 

Altro episodio: a luglio il circolo di cultura omosessuale Pink aveva organizzato una festa dell’orgoglio omosessuale presso il circolo arci Kroen  a Villafranca. La festa è saltata in seguito a una serie di atteggiamenti ambigui dell’amministrazione comunale che, in sostanza, paventava l’intervento dei vigili e di ‘controlli approfonditi’ la sera della festa. Il Pink ha comunque organizzato per la domenica della festa un sit-in di fronte al Comune di Villafranca per rendere visibile l’accaduto.

Scena: marciapiede di fronte al Comune ingombro di una trentina di manifestanti con striscioni, musica e microfono; in mezzo, ma a ridosso del marciapiede del Comune, una quarantina di poliziotti in tenuta antisommossa e carabinieri, tre o quattro camionette blindate e qualche fuoristrada; sul marciapiede di fronte ai manifestanti, attiguo all’edificio del Municipio, qualche decina di cittadini villafranchesi osservavano i manifestanti in un atteggiamento che definirei trattenuto, in quanto non chiaro, né di sostegno né di protesta. Il pomeriggio andava avanti tra un discorso e l’altro di chi di volta in volta prendeva il microfono, e una canzone da ballare o cantare. Nessuno, proprio nessuno, attraversava la strada. Questa situazione ha iniziato a pesarmi, sembrava già tutto visto-previsto-prevedibile…il fatto di non potere sapere cosa pensavano le persone di fronte mi sembrava assurdo. Mi sudavano le mani. Ad un certo punto ho preso coraggio e ho attraversato la strada. Ho cominciato col chiedere ed eventualmente spiegare il perché della manifestazione a chi era disposto a sentirlo. Mentre ero lì una signora ha urlato un insulto ai manifestanti e io mi sono subito predisposta ad affrontarla. La signora era in compagnia del marito che aveva le sue stesse idee nei confronti della questione (“noi vogliamo una società sana…e questi non devono esistere e se esistono devono farsi curare…”). Quasi subito il dispositivo anti-contaminazione è entrato in azione attraverso la Digos: un uomo in borghese che ha cercato di farmi desistere vista la iniziale chiusura alla discussione della coppia suddetta. Dopo averlo tranquillizzato sulle mie intenzioni, è nata una discussione durata circa un’ora alla quale hanno di volta in volta preso parte altre quattro persone tra cui due giovani ragazze, le sole a sostenere le motivazioni della manifestazione e la scelta omosessuale (che pure non assumevano su di sé) che era invece il bersaglio degli altri.

Non è stato facile sostenere una conversazione con persone che partono da un presupposto ideologico-religioso così radicato. I momenti per me migliori sono stati quelli nei quali io stavo zitta e osservavo, finalmente, una discussione in corso, un conflitto, qualcosa di reale e vivo che si stava svolgendo davanti a me. E grazie a me. Grazie al fatto di aver attraversato una strada, di aver profanato una soglia. In quel momento stavamo facendo politica io, due cattolici integralisti, un uomo che di lì passava, due giovani ragazze…Nel frattempo un altro manifestante aveva attraversato le strada e cercava anche lui l’interlocuzione. Lui però è durato poco, anche perché allontanato dalla Digos che di lui conosceva le intemperanze…è stato però uno dei pochi a chiedermi com’era andata e a complimentarsi con me per quel gesto che acquistava così il suo valore simbolico, apprezzato da pochi (per lo più donne), ignorato invece da molti altri manifestanti che pure conosco da tempo.

 

Difficile proporsi di fare politica senza bandiera, attraversando soglie, è inusuale, ci disorienta. Somiglia ad un tradimento, e un po’ lo è…l’etimologia di tradire rimanda infatti all’atto del passare oltre, oltrepassare una soglia, di portare al di là. L’atto in sé è sospetto, ambivalente, non riusciamo a definire tali persone, a etichettarle e, dunque, a controllare e a decidere in che modo predisporci. Tanto più se la presenza dell’altro, di chi oltrepassa, ci interpella come uomini e donne e ci chiede risposte politiche sì, ma diverse dalla scelta di un rappresentante attraverso il voto o dalla appartenenza ad un gruppo.

Eppure è il lavoro politico che sento più urgente in questo momento, fatto di attraversamenti, incroci, contaminazioni e mescolanze, di un atteggiamento che consideri ogni occasione di attraversamento di soglie come irrinunciabile per apprendere frammenti di verità, per acquisire una visione complessa del mondo e per ricreare quella stessa complessità che troppo spesso si ignora a favore di una mistificante e pericolosa semplificazione della realtà. Ritengo che ci sia bisogno di esplicitare i conflitti sociali in atto, di non lasciarlo fare ai nostri rappresentanti, non delegare il conflitto a loro e alle loro risposte securitarie e sempre più di stampo militarista, ma farlo noi stessi/e, da sole/i, con altri/e, in ogni situazione che ci coinvolga. C’è bisogno di guardare in maniera complessa e non semplicistica la situazione che stiamo vivendo. Esitare ad agire a partire da una definizione, vigilare affinché non ci si adagi troppo nel gruppo di cui ci sentiamo di fare parte, gruppo che spesso assume, oltre ad una predisposizione alla chiusura identitaria, anche la valenza di un’entità che ci assolve dalla necessità faticosa di collocarci di volta in volta nelle situazioni che viviamo. Accettare la complessità significa invece stare ad uno stato di cose problematico, cercare l’articolazione di tale complessità senza affrettarsi verso la soluzione, senza ricadere in facili categorie e mantenendo uno sguardo attento al reale. Assumere consapevolmente quella liquidità che Baumann segnala nelle nostre società, anche da una prospettiva politica e sentirsi responsabili, chiamate/i ad azioni simboliche nei vari qui ed ora dei nostri contesti di vita.

 

 

 

Verona: un vestito d’Arlecchino

 

Chiara Zamboni

 

 

Verona è la città in cui vivo. Questa città può essere descritta in tanti modi. C’è un governo di centrodestra e la sinistra è in crisi. E questo è vero di tante città in Europa. È una città la cui economia si è allargata da una tradizione agricola a nuove forme di industria. In essa il volontariato e il terzo settore sono molto più presenti che in altre città. Magari questo è più specifico di Verona, ma può essere detto della maggioranza delle città venete. E si può raccontarla anche dal punto di vista geografico: è attraversata da un fiume ai piedi delle colline. Non poche città europee possono essere descritte così. Se si parla di immigrazione extraeuropea, questa città non si differenzia per niente da situazioni simili alla maggior parte delle altre città europee.

Non è con queste descrizioni che sappiamo dire qualcosa di autentico di una città, pur essendo tutte descrizioni vere. Sono vere ma di una verità già molto interpretata, convenzionale, come se non fossero altro che specificazioni di modelli di città che abbiamo in mente, secondo la prospettiva ora storica, ora politica, ora economica, e così via. E se vi rinunciamo, sembra improvvisamente che non sappiamo più niente della città che abitiamo. Cosa veramente sia. E allora si fanno incontro a noi solo pezzi della città slegati, a caso. Senza nessi. La sintassi della città si frantuma.

Se rinunciamo a quelle interpretazioni consolidate che già conosciamo, la città allora si presenta a noi secondo uno stile enigmatico, ermetico, per punti di intensità imprevisti, a prima vista senza rapporto l’uno con l’altro.

Ho provato allora a pormi in ascolto di questi punti di intensità. Mi sono fatta “orecchio”. Ho sperimentato avvenimenti in questa città, che non rientrano bene nelle descrizioni consuete. Mi hanno toccato. Mi sono rimasti nella memoria a prescindere da ogni intenzione. Patendoli, mi orientano in essa.

Per la loro insistenza con la quale mi ritornano alla memoria involontariamente, posso dire di essere diventata ciò che ho ascoltato, visto. Quei punti di intensità sono diventati me. Il patire è diventato uno spartire. E questo spartire è l’esperienza a partire dalla quale è possibile esprimere simbolicamente la città, accostando uno all’altro alcuni punti di intensità, secondo la logica del patirli con il lato inconscio del corpo, una logica diversa dal pensiero rappresentativo. Eppure, anch’essa, una logica.

Cosa mi trovo allora in mano? In realtà solo un vestito di Arlecchino, con tante pezze colorate. Ogni pezza è un punto di intensità. L’esprimere, il dare ad esse parola, il sapere che sono coinvolta in esse, è il mio venire a patti con la realtà, smettendo di esserne estranea. Ed è il primo passo verso un agire politico impegnato in essa in altro modo rispetto ai consueti.

La pezza rossa. Sono sull’autobus trentadue. Due donne sudamericane parlano in spagnolo di Verona. Abitano qui da un anno. Immigrate dal Sud-America. Sono d’accordo nel dire che è una città melanconica. Osservano: non ci sono feste. Non si balla. Da loro invece si ballava e molto. Soprattutto dal tono della voce capisco che per loro è un vero problema. Il lavoro è importante, ballare lo è altrettanto. Potrebbe scattare in me il meccanismo della differenza: il lavoro in Europa è considerato più importante del ballare. Accolgo invece quel loro discorso dentro di me senza  differenziarmi. Loro sono questa città, con questo desiderio di ballare e sono parti di me.

La pezza blu. C’è la presentazione del libro di Suor Paola su Angela Merici al centro delle suore Orsoline in via Giardino Giusti. Prima parlano alcune amiche intellettuali, poi Suor Paola giovane e allegra. Mi colpiscono i discorsi di alcune suore che intervengono subito dopo: ragionano sulla contemporaneità, su questioni che in genere si affrontano con una certa sofferenza. Con preoccupazione. Mi meraviglia la loro assenza di angoscia, il tono di fermezza e serenità. Sono un punto di intensità di questa città. Le porto dentro di me, come parti di me.

La pezza arancione. Ristrutturano i giardini Cesare Lombroso, vicino a casa mia. Una signora che abita nel mio condominio dice: speriamo che non facciano siepi, perché da dietro le siepi “loro” possono aggredirti anche in pieno giorno. Le siepi “li” nascondono e poi balzano fuori. Sono sbalordita. Però vivo il suo patire e porto lei e la sua paura dentro di me. Come parte di me. Non me ne sono più dimenticata e le sue parole, che non sono le mie, sento che continuano ad avere risonanza in me.

Comprendere è venire a patti con la realtà, patendola, e accompagnare il vivente. Le esperienze veramente importanti e che ci coinvolgono avvengono quando avvengono. Sono punti di intensità. Slegati tra loro. Di fronte ad essi l’io non può portare a sintesi, ad un’unica rappresentazione, se non mistificando, creando un mondo parallelo e finto. Forse, che l’io potesse portare a sintesi, è stata solo un’illusione, personale, epistemologica, filosofica. Forse non è mai stato vero. Non è mai stato così. Comprendere è piuttosto cogliere nuove figure. Nuove configurazioni. Ma si sa che non ci sono mai tutte le pezze del vestito di Arlecchino. La configurazione rimane aperta. In divenire.

La pratica del partire da sé – una pratica della politica delle donne in cui si porta nel centro della discussione comune i propri vissuti non interpretati per vedere se, con le altre, possiamo cogliere in essi qualche accenno ad una verità nascente – è vicina a questa attenzione ai punti di intensità sperimentati personalmente.