diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo edizione 18 - 2022

Femminismo ed ecologia

Intervista ad Antonietta Potente

Antonietta: Vi ringrazio per questa grande fiducia che dimostrate nei confronti della mia storia. È una parte di me, che certamente sento molto, che non riesco mai a togliermi di dosso, che ha segnato davvero il mio modo di vedere la vita. Anche restando qui in Europa. In Bolivia le persone con cui ho vissuto, che sono la famiglia che mi ha ospitato, dicevano l’ultima volta che sono andata, qualche anno fa: “Tu sei una di noi che sta in Europa. Stai lavorando lì, e questo va bene. Noi ti aspettiamo e ti aiutiamo”, riferendosi ai loro rituali che sono come una benedizione prima di partire. Ed è vero, io sento che là c’è dell’altro mio sangue io non so, a volte pensavo che forse è una reincarnazione, forse prima ero una Inca, non lo so, forse una pietra ai piedi delle grandi montagne, anche se io sono terribilmente marina, quindi quello non l’ho mai rinnegato, nemmeno stando ad altitudini notevoli. Quindi, io, se vi parlo, vi parlo della mia esperienza e di quello che ho potuto comprendere.

       Poi certo quando ero docente all’università di Cochabamba abbiamo lavorato molto in questo senso, da quando incominciammo a fare una teologia cosiddetta indigena. Sono stati anni intensi. Per cui era normale con gli studenti in tutte le materie, almeno quelle che guidavo io, affrontare sempre questa grande relazione con la vita indigena. Poi io che lavoravo nell’ambito dell’etica, avevo sempre presente questo grande e complesso soggetto che è l’universo. Anche lì le università erano influenzate di più dall’Occidente. Ma c’è stato un grande contributo del Brasile nell’ambito della teologia, penso non solo a Ivone Gebara ma anche a Leonardo Boff, che ha dato un contributo davvero notevole. Però quando andai, per esempio, a un congresso di teologia della liberazione e si parlava del corpo, io sentii già uno stacco tra la riflessione teologica non indigena e quella indigena. A me toccò parlare del corpo, io dissi che non ero indigena, che avrebbero dovuto invitare altre, però avevano voluto dare a me quel tema: il corpo nelle culture indigene. D’altra parte quando finii di parlare alcuni erano veramente felici – c’era anche Ivone – e dicevano che quella che avevo portato era un’altra prospettiva. Credo che la cultura boliviana abbia questo di più. E non lo dico perché ho vissuto lì, ma perché ho visto tanti altri paesi. La Bolivia ha questo di più indigeno, come ce l’ha il Guatemala per esempio. Anche proprio numericamente è un paese indigeno. Credo che questo per forza segni, naturalmente chi vuole lasciarsi segnare. C’è chi vive lì e continua a essere sicuro di quello che sa e quindi non lascia che le altre e gli altri gli insegnino qualcosa che possa sviarlo da quel che sa.

Chiara: Se vuoi possiamo cominciare da quello che tu hai appena detto, cioè che hai sentito uno scarto tra il modo di porsi, del parlare, del sentire il corpo nella riflessione indigena e in quella non indigena. Allora potresti incominciare – almeno questa è la prima domanda – a dire quale sia la differenza che hai sentito tra un corpo nella riflessione indigena e un corpo nella riflessione non indigena. In un certo senso è importante incominciare dal corpo perché il corpo è la porta d’entrata rispetto al sentire la terra e il cosmo.

Antonietta: Per prima cosa è sempre molto difficile parlarne perché per loro non è una questione ideologica. Cioè non c’è una riflessione vera e propria. Forse adesso sì per il processo di trasformazione che vivono. Sono stati gli intellettuali e soprattutto gli uomini a cercare di fare delle riflessioni e a sistematizzare tutta questa loro esperienza. Però il mio modo di procedere è diverso: io parlo della mia esperienza nella vita quotidiana con questa famiglia indigena, che è quella che mi ha permesso di entrare nel mondo indigeno. Non c’è una sistematizzazione, non c’è un pensiero sul corpo, né uno sulla relazione con la terra. Io sentivo che queste persone vivono in uno stato pre-teorico, originario, ecco, sì, originario. Direi che nella relazione sono casti, cioè non hanno intermediari, non hanno ideologie. Parlo di gente molto semplice, anche quelli che hanno studiato, perché i più giovani – due dei più giovani, un ragazzo e una ragazza – nella mia comunità, quella dove vivevo, avevano studiato, però questa relazione con la vita, anche loro ce l’hanno in modo spontaneo.

Se tu chiedi loro, probabilmente sorridono, non ti dicono granché, oppure ti dicono che l’hanno imparata da quelli prima di loro. Cioè  c’è sempre qualcuno che trasmette questa relazione con la vita. Per esempio, quelli che chiamano los antepasados, o la madre. La famiglia che mi ha accolto era formata soprattutto dalla madre e da cinque figli (tra maschi e due figlie), una donna abbastanza avanti con l’età, anche i figli erano piuttosto grandi. Dunque, la relazione con la vita è qualcosa che viene trasmessa. Per poter vivere bene questa relazione e poter sapere certe cose, te lo devono insegnare, non lo impari dai libri, non lo impari dalle teorie. Per esempio, a conoscere le piante qualcuno te lo deve insegnare, così come a sapere come curare con queste piante. Cercare di capire come muoversi, e dunque qualcuno deve insegnarti a leggere le foglie di coca.

Esiste quindi una relazione diretta tra quello che è un corpo, un corpo molto complesso, e la “terra”.

Mi immagino che voi leggerete, se trovate autrici latinoamericane, la questione della cosiddetta Pachamama. La Pachamama è stata tradotta dagli spagnoli, che non ci capivano un granché al loro primo impatto con questi popoli, con “madre”, in riferimento a  mama, mentre pacha l’hanno tradotta con “terra”. Ma pacha nella mentalità o meglio nel vivere andino, che è più di una mentalità, – io sto parlando dell’esperienza andina, perché poi in Bolivia ci sono tutti i rami delle popolazioni Guaraní, Guarayo, Toba etc. –, nell’esperienza andina pacha non è terra, è molto di più: è tutto questo spazio, visibile e anche invisibile. Per cui c’è la terra di sotto e c’è questa terra diciamo intermedia, che è la nostra, che è fatta di terra, di animali, di piante e di persone. E c’è la terra che noi non vediamo, che è il luogo di quelli che hanno già abitato questa terra, che sono gli antepasados e che restano sempre presenti. Senza il permesso degli antepasados non si fa nulla, neanche un incontro si può fare, senza chiedere permesso agli antepasados, agli antenati. Per cui la relazione è una relazione molto complessa dove ci sono tanti corpi, c’è il corpo di queste persone, cioè il corpo umano, che a differenza di culture amazzoniche o dove fa più caldo, è un corpo più coperto perché fa freddo. Lo vedi anche poco, d’estate… ma sennò lì devi stare sempre ben vestito. Ora, questo corpo sa di avere una relazione profonda con altro. Lo sa, non solo perché qualcuno gliel’ha insegnato, ma perché, se è capace di guardare, lo coglie dalla vita stessa. Ha una relazione con tutte queste realtà che per loro hanno un nome e sono dei soggetti. La terra è un soggetto e alla terra si dà da mangiare e nelle feste è la prima che deve essere servita. La si serve in modo reale, come una persona. Si prepara il primo piatto, tu servi dalla pentola il primo piatto e lo dai alla terra, lo porti fuori alla terra. Allora il corpo è reale. La domanda che si presenta è: cosa c’è dietro a questa comunicazione con il corpo? È così anche con il sole: se il sole si oscura, pensano che c’è qualcosa che non è più in armonia e allora tutti, uomini, donne, bambini e animali si riuniscono e nel momento dell’eclissi tutti si battono sul corpo, si autoflagellano ma non in modo forte, anche gli animali, perché tutti devono piangere, perché è successo qualcosa e ha nascosto questa armonia.

Ora io posso comprendere che, per una mentalità occidentale, ad esempio, di tutti quelli che erano in Bolivia e che venivano dall’Europa o dal Nord America, una cosa del genere poteva sembrare un po’ folle, ma in quel contesto ti rendi conto che c’è un legame veramente stretto con la vita. È in questo contesto che entra e prende senso la questione del bisogno, e cioè che esiste un legame stretto tra la mia vita come essere umano e la vita in generale, o meglio questa vita che è della terra, delle piante, e di quello che semini. Per cui, ad esempio, i gesti che si fanno normalmente tra persone, come dare un bacio, sono gesti che si fanno anche con il raccolto. Forse questo era vero anche per noi prima, non conosco le nostre società contadine, io purtroppo sono cittadina e per di più di mare. In altre parole in questo conteso il corpo non è sublimato. Il corpo è curato ma può essere curato solo dalla terra, da questo ambiente. Tutto deve in qualche modo restare in relazione, tu non puoi sottrarti. Se rompi questa relazione, allora succede qualcosa anche a te. Per cui, quando tu sei malata e devi curati, devi coinvolgere la terra, non bastano le medicine normali, ma devi coinvolgere in qualche modo la terra, magari facendole un’offerta. Questi rituali si fanno a volte in giorni della settimana particolari, altre volte quando appunto si percepisce nella comunità che c’è bisogno di un aiuto particolare e di risistemare degli equilibri. Io ho ricevuto dei rituali sul corpo tante volte e non solo quando ero verso la fine del mio periodo con loro, quando sono stata malissimo e poi sono venuta via. Devo dire che loro fecero una diagnosi molto vera sul mio stare male. È attraverso i rituali che fanno la diagnosi e, guarda caso, la diagnosi riguarda sempre l’armonia. Ovvero, il tuo esserti – diciamo – spostata da qualche relazione. Ma altre volte sono stata davvero curata. E non curano solo con le erbe, curano con la terra, per esempio con i minerali, con delle pietre particolari soprattutto quelle friabili. Poi con l’insieme del rituale, che ha una precisa gestualità.

 Allora direi che il corpo è un corpo in relazione e non vive senza questa relazione, sia con il presente sia con il passato. Anche se questo è un concetto molto relativo nel mondo andino, il concetto di tempo è abbastanza particolare perché sono soprattutto il passato e il presente i momenti importanti, di cui bisogna sempre fare memoria. Con altre parole, è il passato che ha originato questo presente; il futuro è nel presente: non esiste di per sé un concetto di futuro.

Ora mi sembra che l’aspetto più importante sia questo: il corpo è in relazione, e questo è il bisogno di tutti.

Ora questo si vede anche proprio nel modo in cui la vita si svolge in una comunità indigena. Perché un bambino, quando ha un anno, viene inserito nella comunità e già viene considerato come un membro che può avere delle responsabilità, anche se certamente relative. Ad esempio viene fatto un rituale, per il qual si regala a questo bambino o bambina un animale. Questo rituale l’hanno fatto anche a me, quando ho compiuto il primo anno di vita nella comunità e mi hanno regalato un agnellino, che io ho dovuto far crescere, con qualche complicazione perché io andavo all’università, tornavo, prendevo questo agnellino, lo a pascolare dove c’era un po’ d’erba, io mi portavo un libro e l’agnellino mangiava. E così l’ho fatto crescere. Quando me l’hanno consegnato io l’ho dovuto tenere le prime notti con me con tutto quel che ne consegue, perché era piccolo. Questo lo fanno con tutti e io lo racconto perché mi sembra importante scoprire che essere membra di una comunità implica che tutti e tutte hanno da compiere qualcosa. È allora che le relazioni si moltiplicano. Che i bambini lavorino è normale in quelle comunità. Mentre in Europa ci scandalizziamo che i bambini lavorino – non parlo di sfruttamento minorile sul lavoro. Ripeto: tutto questo nell’ambito di un’armonia. Da tener conto che oggi ormai nelle periferie delle città c’è di tutto, ma nelle comunità più legate ancora al loro sapere, cioè al loro gusto profondo della vita, ogni membro della comunità, da un anno di vita in poi, ha il suo posto. Così come ogni animale. Ad esempio, non si può lasciare un animale senza nome perché si pensa che non vivrà, ogni gallina, in casa nostra, aveva un nome. E questo nome è interessante perché è legato sempre o alle caratteristiche esteriori dell’animale oppure a quello che ti fa ricordare il suo comportamento.  Ci sono delle feste dove viene fatto una specie di battesimo degli animali, del gregge per esempio, il 24 di giugno, che è la notte più lunga dell’anno e più fredda perché laggiù è inverno.

Questa è la relazione con il corpo: sono corpi in relazione, che devono prendersi cura gli uni degli altri. Dove tutte e tutti hanno una responsabilità. E questa è una responsabilità che a volte diventa discernimento sul comportamento di chi, per esempio, è diventato violento e pericoloso per la comunità, ad esempio di violenza sulle donne. In questi casi diventano molto molto rigidi. Sono capaci, se questa persona non cambia la sua vita e persiste nell’atto di violentare qualcuna, di ucciderlo. Veramente. Tant’è vero che, quando in Bolivia c’è stato il governo indigeno, che è durato fino al 2019, ha dovuto fare due tipi di legislazione, una per le comunità campesinas e una per la città, perché hanno un altro tipo prospettiva; un altro tipo di visione anche etica, direi.

 Consideriamo questa visione: da un lato c’è il dover prendersi cura personalmente degli altri e d’altra parte però è la natura che si prende cura, è la terra, sono le piante. Però è strano perché quando tu chiedi alla terra lo chiedi anche a los antepassados, a quelli che hanno vissuto prima. Emerge la visione di una comunità completa, c’è il presente c’è il passato, ti cura la terra, ti curano le piante, alcune pietre e chi è vissuto prima di te. Proprio su questo punto io noto che non è così in Occidente. In Occidente noi addirittura abbiamo l’idea di poter salvare la natura. Si parlava – adesso un po’ meno per fortuna – di porsi come salvaguardia del creato. Ma questo è assurdo, prima di tutto perché siamo noi che l’abbiamo distrutto e poi non si può continuare nelle relazioni a tenere sempre la parte, che mi sembra una parte molto patriarcale e maschilista, di chi in qualche modo pensa che deve sempre prendersi cura. Invece nella loro visione è anche la terra che si prende cura, sono anche quelle e quelli che non ci sono più. Questo è vero anche in tante altre culture nelle quali la questione dei morti è molto importante; in Bolivia mi sembra interessante perché comunque i morti sono nominati sempre in relazione a questo gesto che tu fai alla Pachamama. In questo senso la Pachamama comprende tutto: non comprende solamente quel territorio lì, quella terra che tu hai.

 Se poi uno vuole fare un po’ di filosofia e aggiungere qualcosa di teorico, ricordo che nel mondo Aymara e Quechua è presente un tipo di sistema binario, fondato sulla coppia: la donna prepara il solco, l’uomo semina. Anche la luna e il sole hanno dei ruoli. Il sole si chiama Tata Inti, e significherebbe papà sole; la luna è Killa ed è la madre. C’è dunque questo senso della coppia, dell’andare in coppia. Tanto che – vi dico sinceramente – il comprendere che io per esempio non mi ero sposata e non avevo intenzione di sposarmi, loro l’hanno capito solo appunto perché io tutta la mia vita l’ho giocata con loro, cioè erano loro la mia coppia, nel senso di chi comunque completava la mia vita, secondo la loro mentalità. E questo senso della coppia è presente anche nella natura, negli alberi. Quindi l’albero che dà frutto è femmina e quello che non dà frutto è maschio. Questo è chiaro, e anche è vero.

Tornando al corpo, allora il corpo non è solo il mio corpo, è proprio il luogo dei corpi, sono tanti corpi in relazione, non c’è un’idea sul corpo, e infatti ciascuno si pensa in relazione, in relazione con un compagno o una compagna, o in relazione con una comunità, o in relazione con un figlio – molto importante – o figlia. Per la donna è importantissimo avere una figlia o un figlio. Per cui è il corpo soprattutto a svelare questa forza delle relazioni. Non so se risulta chiaro.

Caterina: Io avrei una domanda, ho dei termini sbagliati per farti questa domanda, però cerco di spiegarmi: come è concepita la terra? C’è un senso di proprietà o comunque – lo posso dire meglio così – il prendersi cura della terra spetta a una generazione specifica oppure è di tutti? Le persone hanno una proprietà, nel senso che quegli alberi sono i miei alberi, questi animali sono miei animali e quindi mi devo prendere cura di loro, e quindi c’è un’idea della proprietà oppure appartiene alla comunità?

Antonietta: C’è un’idea di proprietà comunitaria o di gruppo familiare – ti parlo del posto in cui sono nate queste persone, con cui io sono in rapporto come la mia seconda famiglia. Sono nate sui 4000 metri, tra Potosí e Oruro, lì andavamo d’estate perché avevano ancora i lama, e per esempio loro ti dicevano: “Questa grande montagna è nostra, o è dei Tacachiri, che è il cognome, quell’altra è di altri perché era di un’altra comunità. Ora le comunità si ingrandiscono, si restringono, nel senso che una comunità normalmente prima si ingrandiva, perché si sposavano, avevano figli, si ampliava. Però se la donna per esempio andava a vivere nella comunità del marito, diventava parte di quella particolare comunità e diventava proprietaria di quel luogo. Non c’è tanto un’idea di proprietà individuale, non c’era per lo meno, poi chi scende in città purtroppo deve cambiare mentalità. In più ci sono anche delle leggi differenti ma per loro la proprietà è di quelle comunità. Mettete in conto che il termine famiglia non lo usano gli indigeni, è entrato in un momento successivo, quando la Chiesa ce l’ha messo in testa, con il nuovo diritto, ma non esisteva. Tant’è vero che nella nuova costituzione, da quando era stato eletto un governo indigeno, si era tolto subito l’articolo che riguardava la famiglia e la parola famiglia era sparita e si metteva comunità, perché comunità è per loro il grande significato della vita, è la grande relazione. In questo senso questa comunità può avere delle proprietà. Poi chi mi dice che quel cerro, come si dice là, quella montagna sia esattamente di qualcuno. Una montagna non è chiusa, e sanno che ci possono portare a pascolare i lama, l’alpaca, però non è che ci siano dei segni di possesso o riconoscimento.

Caterina: Mi chiedevo su chi ricade la responsabilità, tu hai detto che tutti devono fare delle cose però immagino che ci sia una gradazione a seconda anche dell’età, come hai detto tu.

Antonietta: Eh sì, infatti, tutti devono fare qualcosa in base alle loro capacità. A un bambino non farai fare il capo della comunità. Però lo manderai appena può, o la manderai se è una bambina, a portare i lama, a custodire il gregge, anzi quasi sempre sono bambini e bambine e donne che custodiscono il gregge. Non c’è la consuetudine che sia il capofamiglia a portare i soldi, e questo rimane anche quando si avvicinano di più alla città. Quasi sempre sono le donne a farlo. L’economia la reggono loro. E credo che questo concetto di proprietà comunitaria non derivi da ideologie, poi è stato rivestito da qualcuno anche da ideologie, ma non derivava da ideologie, derivava proprio da un bisogno di vivere. E dal fatto che tu nasci in quel territorio. È vero che oggi si spostano ma prima non era tanto così. Quel territorio è la casa. La tua prima casa è il luogo dove stai. Per cui quando si parla di madre non è solo quella che ti fa nascere. Già questo termine “madre” porta il significato della cura: ti senti curato dalla Madre Terra, perché dà da mangiare. Però la Madre Terra non da sola perché poi c’è bisogno della pioggia, c’è bisogno del sole giusto, c’è bisogno dell’inverno, non soltanto delle stagioni ma del più freddo meno freddo, cioè c’è un ciclo vitale – diremmo noi – molto connesso. E anche quando vanno in città, anche quando vivono nelle periferie, per esempio le donne con cui lavoravamo, nella periferia di Cochabamba, continuano a vivere così. È un senso che persiste. A me sembra proprio una cosa che hanno dentro. Ora io non so i bambini, che poi incominciano a vivere in città, se continuano questo sentire, però chi ha vissuto per lungo tempo con questa sapienza – gli non se la dimentica tanto facilmente. Anche quando studiano, per esempio uno della mia comunità, il ragazzo aveva studiato biologia e poteva studiare tutto quello che gli insegnavano all’università, tutte le varie teorie, ma quando doveva scegliere, sceglieva il consiglio di uno della comunità. Tutti dicevano: “guarda che hai studiato…”. No, no, no. Tant’è vero che poi lui adesso fa il medico naturalista, cura solo con piante boliviane. E allora secondo me è proprio un legame viscerale con la terra e ogni suo frutto e se l’hanno chiamata “mamma”, si tratta di un legame viscerale.

Chiara: Quando tu hai detto: le donne lavorano, poi ho letto anche il libro di Mariateresa sul movimento delle donne contadine del Sud del Brasile, sento una forza delle donne. Non che gli uomini non ci siano, non esistano, però si sente che le donne hanno un’importanza maggiore in quel contesto. Allora come si potrebbe dire questo? Non mi sembra si tratti di matrilinearità, ma sicuramente c’è una forza maggiore delle donne, forse perché sono quelle che lavorano di più… se volevi dire qualcosa di più su questo.

Antonietta: A me sembravano le più creative. E poi è vero, gli uomini ci sono proprio poco. Non sono molto presenti; solo alcuni. Per esempio anche nelle riunioni, se vai nelle riunioni delle comunità andine, ti sembra, che siano gli uomini a decidere e a parlare, ma ai loro piedi ci sono le donne, e se ci fai caso, sono le donne che suggeriscono. Ora la gestione dell’economia, anche nella città, nelle periferie, se sono donne indigene, ce l’hanno loro. A me sembra che il patriarcato in quei luoghi sia stato portato proprio con la colonizzazione e l’evangelizzazione. Io non so se si può parlare di una genealogia matrilineare, forse no. Però mi ha sempre dato l’idea stando là che il patriarcato è faccenda della colonizzazione e dell’evangelizzazione, cioè è stato marcato in modo molto forte e d’altronde nel loro modo di sentire la vita e anche al di là della vita, sono stati segnati tanto, tanto dal cristianesimo, anche se poi non vanno a messa, anche se poi non gliene importa nulla, anche se poi, per fortuna, hanno trasformato le feste del cristianesimo. Ad esempio, il venerdì santo è il giorno in cui si mangia di più, dodici piatti, perché è per consolare gli apostoli. E poi la Chiesa ogni anno metteva su degli avvisi, invitando a mangiare il giovedì santo. Ma noi lo facevamo il venerdì. Oppure il giorno di Corpus Cristi, a giugno. È una festa che loro chiamano la festa del corpo ed è il giorno che si mangia dolce e frutta al mattino a una certa ora, non si va a lavorare, perché laggiù è ancora festa di precetto anche a livello dello Stato, e quindi ritrovandoci tutte e tutti in casa, a una certa ora della mattinata si mangiano dei dolcini e frutta, tanta frutta. Quando io chiesi perché mi dissero: “Perché è il giorno della cura del corpo”. Corpus Cristi era diventato questo e io ero molto contenta. Queste sono riletture delle feste, fatte da loro, ma il cristianesimo ha avuto un peso molto grande, per cui le donne oggi si devono comunque anche liberare da questo patriarcato e lo stanno facendo. In certi casi lo fanno molto più di noi, ma in altri casi è più difficile. Per questo si formano insieme proprio anche per liberarsi, per essere più forti. Imparano a leggere insieme, imparano a fare dei lavori per poter aumentare le loro entrate nell’economia domestica, per essere più forti, per avere uno spazio molto più grande.

Chiara: Ci dicevamo, quando ci siamo preparate per impostare il lavoro da fare assieme per l’intervista, che c’è una forma di femminismo implicito nei paesi dell’America Latina. Non so se in realtà si può chiamare femminismo, però, da quello che tu dici, è evidente che è presente un formarsi, leggere, lavorare assieme per liberarsi assieme, per essere più forti tra donne. Del femminismo è presente l’aspetto per cui c’è una forza delle donne che viene dalla relazione con le altre. Molto probabilmente è sbagliato usare la parola femminismo, ma certo c’è la consapevolezza di una forza femminile la cui fonte è data dal legame con le altre.

Antonietta: Un’energia che si scambiano moltissimo e si aiutano, per esempio ci sono donne che hanno mariti violenti e queste si incontrano con altre per far qualcosa, per imparare qualcosa, sulla salute, come curare i figli, alimentazione, e sono aiutate da altre donne.

Anna Maria: Le cose che stai dicendo mi richiamano l’esperienza che ho vissuto in Brasile, adesso tenete conto noi eravamo nel Nordest del Brasile, nel Piauì, che è in realtà la zona più povera del Brasile. Lì abbiamo conosciuto diversi gruppi di donne, alcune anche produttrici, nel senso che avevano delle piccole cooperative. Poi naturalmente abbiamo conosciuto anche docenti universitarie, una in particolare mi ricordo dell’Università del Maranhão, che era una donna di una forza incredibile. Ecco e lì in quella zona del Brasile molte sono donne-capofamiglia, anche se hanno il marito formalmente ma è emigrato al Sud del Brasile, che è più ricco, per trovare lavoro e opportunità. Allora la grande contraddizione che io ma anche le altre con cui eravamo in questo progetto, altre italiane, la contraddizione che ho vissuto e che non mi è mai andata giù era che questa forza, che era una forza veramente visibile di queste donne appunto quelle che avevano famiglia erano le capofamiglia, poi c’erano anche donne sole, poi soprattutto questi legami comunitari tra donne per darsi autorità, per darsi forza erano visibilissimi, ma l’ideologia paritaria, quella vissuta soprattutto nelle accademie e nelle università, comprese anche le colleghe nostre, le nostre partner del progetto, anche afrodiscendenti avevano in mente questo schema della parità e non vedevano la forza, neanche la propria, non solo quella delle altre donne ma neanche la propria. Poi il progetto è sfociato in diverse azioni anche sul territorio di Teresina eccetera e anche in elaborati che hanno dato vita a un master, gli elaborati degli studenti del master, a parte che citavano tutti autori, questo lo sa Mariateresa perché gliel’ho detto varie volte, autori occidentali. Freire neanche quasi lo nominavano. Ma ecco con questa visione, come dire completamente colonizzata. Io ero interessata a cose diverse.

Antonietta: Io parlo appunto di donne delle periferie che non hanno un lavoro, che lavorano in casa e che si riunivano appunto per esprimere anche il loro talento artistico: il teatro. Mi sembra davvero, davvero bello. Una cosa che vorrei sottolineare, che a differenza di altri popoli loro non sono animisti. Però è strano perché, anche se non sono animisti, ogni creatura è un soggetto, un soggetto con le sue caratteristiche. A me questo è sempre piaciuto perché, anche se appunto non vengo dalla campagna, però il gatto, il cane ce l’ho sempre avuto, e anche il mare e ho sempre pensato che avessero un’anima, che fossero come delle persone, questo quando ero piccola, il mare come qualcosa da rispettare. Ecco lì ho trovato questa cosa, ho trovato questo grande rispetto soprattutto per la terra, per non fare danno. Anche gli animali, appunto questo fatto dei nomi perché altrimenti non vivono; molti hanno detto che è animismo e panteismo ma non lo è. Quando si fa un rituale, per esempio il giorno di carnevale, si fa un rituale dedicato alla casa, soprattutto alla terra e alla casa. Per esempio nella mia comunità, la mamma più anziana, portava l’incenso e il copal, e davanti ai piatti nella cucina lei faceva una preghiera perché non manchi mai da mangiare o nella mia stanza dove c’erano tanti libri, perché la Anto abbia salute, possa studiare bene, imparare tante cose. Questo non è animismo, ma è la cura della vita; tutto è importante, tutto va custodito.

E credo che qui c’è anche un’altra questione: vivere e lavorare la terra nelle Ande è duro, questo forse Chiara appunto se lo ricordava, io avevo detto che era pesante, non è romantico, poi quando fa freddo fa freddo, lì non c’è niente per scaldarsi, non usano fuoco anche perché legna ce n’è poca, anzi se vai più in alto non ce n’è, a 4000 metri non ce n’è. Non c’è niente di romantico, l’armonia non è facile. Non è una terra che rende, se vai nel tropico è diverso: butti un seme e il giorno dopo spunta qualcosa, li no, lì devi entrare in un contatto con questo ambiente, devi proprio prendertene cura. Quindi loro lo sanno che è dura quella vita lì. Quando io chiesi di andare a vivere con loro, perché avevo conosciuto appunto queste due persone più giovani, il ragazzo e la ragazza, mentre io chiedevo anche il permesso alla mia congregazione, loro chiesero permesso alla comunità per potermi portare a vivere lì. La mamma, la più anziana, disse: “ditele che viene a soffrire. Che ci pensi bene perché qui viene anche a soffrire”.

Chiara: Ma perché tu hai voluto andare a vivere con loro?

Antonietta: Perché vivere da italiana in un Paese totalmente differente con una forte cultura, vivere tra di noi suore anche se molto inserite (eravamo in tre) in una grande periferia, non mi bastava. A me mancava proprio un’altra anima, la lettura della vita da un’altra parte. E non bastava lo sforzo mio, lo sforzo nostro. Io volevo proprio vivere in minoranza. Perché notavo che, anche quando venivano le mie due compagne di comunità a trovarmi quando già vivevo con questa comunità indigena, appena ci univamo diventavamo un gruppo a parte. Ma per stare in questi Paesi devi essere in minoranza, altrimenti… Io insegnavo all’università, averi potuto affrontarlo solo da un punto di vista intellettuale, che era già interessante ma non bastava. Avevo anche dei colleghi indigeni, soprattutto nell’ambito dell’antropologia. Però era diverso, anche perché chi ha studiato lo ha fatto con strumenti dell’Occidente.

Io avevo proprio bisogno (di vivere in minoranza), sennò sarei tornata in Italia. A parte che avevo detto che se non me lo lasciavano fare le mie consorelle, l’avrei fatto lo stesso, non mi importava. Però questi sono i miei capricci, ma o facevo quello o tornavo in Italia. Perché è proprio diverso. È vero che tu puoi sentire gli aneddoti raccontati dal missionario o dalla missionaria, che ti diranno sempre delle disgrazie di questi popoli, ma vivere in minoranza ed essere ospitata è diverso. Per esempio loro (gli andini) ti dicono che le disgrazie non si raccontano, che è una cosa loro, che dobbiamo lottare insieme senza farci tanti problemi. Allora ti cambia la prospettiva, cioè io lo considero sempre un ribaltamento, nell’utero, e rinasci in un altro mondo.

Mariateresa: Volevo fare una domanda riprendendo un aspetto che avevi accennato poco fa rispetto alla questione del dualismo. Rispetto all’idea che il patriarcato è stato portato dal colonialismo e dall’evangelizzazione e quindi è necessario fare cammini di liberazione. Tu pensi che questa cornice simbolica del dualismo sostenga questo tipo di percorso di liberazione o pensi che magari può essere un limite? Te lo chiedo perché spesso mi è capitato in incontri internazionali, in incontri realizzati in Brasile in cui però erano presenti donne di diverse parti dell’America Latina. Ho percepito che questo è un elemento di conflitto molto grande, nel senso che molte non indigene vedevano questo dualismo come una cornice simbolica che può proprio ostacolare un percorso di liberazione delle donne. Tu che cosa ne pensi?

Antonietta: Io credo per la mia esperienza, per quello che mi hanno insegnato, più che dualismo io lo leggo in modo diverso e me l’hanno sempre descritto così. Mi ricordo, perché ho avuto la fortuna di insegnare in questa università, in questa facoltà teologica andina di metodisti, dove erano tutti Aymara o Quechua, e in un seminario che avevano chiamato “sulla differenza di genere” era venuta fuori questa questione. Cioè la donna fa il solco, l’uomo semina, certi lavori li fa la donna, certi lavori li fa l’uomo, questa cosmovisione del sole e della luna. Però veniva fuori non come Due, ma come reciprocità. Era molto forte questo discorso della reciprocità. Ora, io so che per molti di noi, anche la reciprocità può diventare pericolosa. Ma per loro non è il problema notte-giorno, luna-sole, ma è un ciclo di reciprocità, cioè serve il sole come serve la luna, serve il giorno, serve la notte, serve la pioggia. È importante un bambino, una bambina nella comunità perché fa certe cose, è importante una donna, è importante un uomo. Cioè al di sotto di questo poi ci sono le disarmonie come tra tutti gli esseri umani, io parlerei più che altro di questo forte senso di reciprocità. Molto forte, tanto che non si possono vedere da soli. Una donna resta da sola (tranne che in città dove accade più di frequente) con molta fatica e lo vede come un grande dramma dentro di sé. Eppure la cosa buffa è che restano quasi tutte sole, almeno nella città, perché in città gli uomini sono molto infedeli. Tutte le donne della mia comunità – tranne una, che resiste – sono tutte da sole, anche le più giovani. Magari si sono unite con qualcuno, si sono sposate ma dopo un anno lui le ha tradite. Però nella mentalità resta questo aspetto della reciprocità.

Anche l’Umano, parlando in termini nostri, è il reciproco della Terra, di quello che la Terra dà, di quello che la Terra ti suggerisce, perché tutti insegnano qualcosa. Io ho imparato là che tutti insegnano qualcosa, ti rimandano a qualcosa di diverso. Un giorno che ero nell’altra comunità, la comunità religiosa dove ogni tanto andavo, c’erano state delle divergenze tra di noi, nel modo di vedere la vita, e uscendo vidi un bambino con un agnellino. E quel bambino con il suo agnellino mi insegnò qualcosa: ad essere semplice, per esempio e ad essere mite. Questa reciprocità so che crea conflitto oggi, tra le donne e tra le femministe. Però c’è, io posso trovarmi in accordo o in disaccordo, ma nella cultura che ho conosciuto io c’è.

Chiara: Una cosa, che è emersa tra di noi quando ci siamo trovate l’ultima volta per impostare il discorso per questa intervista, una cosa che caratterizza in un certo senso l’ecofemminismo dell’America latina, è il coinvolgimento del senso di giustizia. Mentre all’interno dei movimenti ecologisti USA-EU, occidentali diciamo, è importante ma non è così strutturalmente presente, così profondo. Il legame ecologia-giustizia nella cultura europea è più di ordine intellettuale, mentre in questo diverso contesto è qualcosa che si sente. Non soltanto perché è stata presente la teologia della liberazione. Non credo che si possa ridurre a questo. Dalle cose che abbiamo detto finora non sta emergendo un concetto di giustizia come lo intendiamo in Europa. Mi sembra si stia delineando un concetto di giustizia incarnato nella reciprocità e nella relazione costitutiva, più che un concetto di giustizia per il quale ci dev’essere una giusta distribuzione dei beni fra tutti, in modo aprioristico e astratto. Mi sembra più legato a delle pratiche, ed è questo che vorrei chiederti. Perché noi in Europa ci avviciniamo alla questione della giustizia sempre a partire dalla nostra formazione: la distribuzione dei beni, in modo che non vi sia troppa differenza tra situazioni. Certo Simone Weil critica questo concetto di giustizia e ne propone un altro, ma qui faccio riferimento al concetto di giustizia più diffuso. Mentre, da quello che tu hai detto, emerge un concetto di giustizia diverso, che sta più nelle cose.

Antonietta: Intanto vorrei dire che il Brasile è già un mondo a parte rispetto al mondo andino. In quello che ho potuto sperimentare e vivere, la giustizia lì è davvero legata a dei bisogni. Niente di teorico, non importa nulla delle ideologie, ma è giusto quando qualcosa ti è dato perché ne hai bisogno. E il bisogno viene soddisfatto con “quanto basta”. Oggi c’è, domani non ce l’ho più. Oggi magari ho tanti soldi e faccio festa, chiamo amici e parenti e mi spendo tutto, noi occidentali guarderemmo male questo atteggiamento, pensando “oddio, sono matti, e domani?”. Domani non ce l’hanno più, venderanno qualcosa se ne hanno bisogno. Secondo me è un po’ l’anima della giustizia, è la pura concretezza. È vero che l’anima non è concreta, eppure è proprio quello: io non discuto sulla mia giustizia. Discuto che ho bisogno di queste cose. Riprendo l’esempio che facevo prima: non abbiamo l’acqua, passano due mesi, tre mesi, ci chiedono dei soldi e noi non li abbiamo. Bisogna fare qualcosa e mettersi insieme. Quando abbiamo avuto l’acqua, quello è stato un percorso di giustizia. Ma anche lì, non è che poi si è andato avanti, ma nessuno lo ha teorizzato. “Quanto basta” e il “quanto basta” è legato al presente. Non nella teoria, no se vai a chiederlo a un sociologo, probabilmente no anche se è indigeno e soprattutto se è un uomo. Ma nella vita, vi sto dicendo quello che ho sentito nella carne, che era così: quanto basta. È il sufficiente, che a volte può essere abbondanza, ma non è per tenere. La logica dell’accumulo lì non funziona e per questo, forse, dovremmo domandarci che proposte politiche facciamo noi a livello mondiale, perché lì siamo di fronte a una mentalità dove l’accumulo non esiste. È ancora più certo della questione della proprietà privata, non hanno la testa per accumulare e hai voglia a dire che poi si diventa vecchi, che non c’è la pensione, oppure c’è ma non serve, tutte queste cose. Il quanto basta ha un’energia maggiore. È affascinante in una certa prospettiva, duro e destabilizzante in un’altra. In effetti ce lo chiediamo, non c’è solo lo sfruttamento delle multinazionali etc etc, ma come mai non scatta mai niente in questi Paesi? Oppure scatta, purtroppo, il Caudillo, il dittatore, perché mi assicura questo, questo e quest’altro, oggi.

Chiara: Ha probabilmente anche a che fare con il fatto che il futuro non è la dimensione temporale importante. Accumulare ha a che fare con le immagini di quando saremo vecchi etc, invece questo modo di vivere è molto legato al presente.

Antonietta: Al presente e a quello che chiamano “fatalismo”, che non è fatalismo ma una sorta di abbandono. Sento in questi giorni che c’è una zia che ha bisogno di ossigeno e non c’è più ossigeno, questi fanno di tutto per cercarlo. A parte che costa caro e quindi è quasi impossibile comprarlo. E poi ti dicono che se non lo trovano è così, o ci pensa Dio.

Mariateresa: C’è anche il grande tema dei diritti della Terra, che entra nella questione della Costituzione boliviana, che è stata cambiata di recente. Anche lì, almeno da come ne parli, mi rendo conto che il diritto non è una proprietà privata, fondata su una concezione del soggetto indipendente, ma sulla relazione.

Antonietta: Sì, credo che davvero le “teorie del diritto” siano nostre, o americane, o anglosassoni. Lì c’è questo “di che cos’ha bisogno la Terra?”. Ma vorrei sottolineare questo: non è che gli indigeni quando vanno nelle città abbiano una grande coscienza ecologica. Forse voi che siete state in Brasile l’avete visto. Per esempio, la plastica è dappertutto. Io la prima volta che andai su a 4000 metri, c’erano le pile della radio buttate da tutte le parti. E io a dire “ma no, ma raccogliamole le pile, perché…”. Questo mondo li ha resi anche ignoranti. Non è colpa loro, che ne sanno se le pile fanno bene o fanno male. Sono abituati che alla terra davano solo cose naturali. Nella periferia di Santa Cruz de la Sierra, dove ho vissuto quattro anni, c’è molto vento la periferia era costruita sulla sabbia, dove prima c’era un fiume. Era impressionante perché c’erano sacchetti di plastica di tutti i colori che volavano dappertutto e non sapevi se erano fiori o no. Per cui questo è un grande problema secondo me. La forza della globalizzazione ha accelerato tutto e nessuno ha dato degli strumenti per comprendere che cosa stava succedendo. E la loro sapienza non ce la fa su questo punto. Non ci pensano, oppure sì, cominciano a pensarci i più giovani perché studiano, ma gli anziani no. Le pile stanno lì, che importa? Poi non ci sono neanche i mezzi, non è che là c’è la raccolta differenziata. In comunità tra tutti riuscivamo a fare qualcosa, la carta la bruciavamo o la portavamo in un centro dove ne facevano carta igienica. E quando c’è lo scambio (di beni) lo fai, però poi non ci sono i mezzi. Lì dove vivevamo e dove loro vivono ancora non passa nessuno a raccogliere la spazzatura, perciò ti arrangi o la porti in città, però la città è una delle più contaminate dell’America latina. È quasi a livello di Città del Messico. Città del Messico è più grande, e infatti è la più inquinata in assoluto. I camion e i mezzi di trasporto sono vecchi, le macchine riutilizzate venti volte, perciò i tubi di scappamento vi potete immaginare. La questione è dunque molto complessa. Con il governo indigeno c’era stata sì, nella nuova Costituzione, la questione dei diritti della Terra ma poi nella pratica la cosa è stata molto difficile. E credo che questo sia ciò che patiscono tutti i popoli. L’ho visto anche in Africa.

Annamaria: Stavo pensando, mentre parlavi, che non si possono fare grandi generalizzazioni, anche sul Latinoamerica, perché le situazioni sono in realtà molto varie. E non solo le differenze tra città e campagne, foreste etc, ma anche differenze di storie culturali. Giustamente hai nominato l’evangelizzazione e la colonizzazione. Pensando a un Paese come L’Argentina, di cui so molto poco ma di cui mi sono occupata di recente, e anche lì senza fare generalizzazioni perché io ho più presente la situazione della Patagonia, lì che è una grande consapevolezza femminista non ricalcata sui femminismi occidentali. Ni Una Menos è nato lì, le battaglie sull’aborto sono state vinte proprio di recente dopo decenni. Ad ogni modo, le mobilitazioni delle donne, che non vivono nei territori – ad esempio dei Mapuche – ma che vivono in città relativamente piccole della Patagonia, molte sono attiviste femministe ma sostengono molto ad esempio le lotte dei Mapuche. Rispetto a quello che tu hai raccontato il discorso sulla terra lì è molto diverso, lì purtroppo c’è anche una questione di diritti perché il discorso dei diritti è entrato a seguito delle espropriazioni che si sono succedute a partire dalla metà dell’Ottocento, magari anche prima, fino ai giorni nostri. Come per i Benetton, che continuano a ottenere l’espropriazione dei territori Mapuche, perché sostenuti dai vari governi argentini. Lì è venuta fuori per forza la questione dei diritti, ma anche lì da quello che ho capito c’è non solo un grande senso della comunità, ma anche una difesa della terra come luogo e casa della comunità – non come proprietà. Certo, è la terra che ci dà da vivere – e in questo potrebbe essere simile a quello che hai detto sulla reciprocità della terra con quelli che la abitano – ma poi si sono infilati in questo imbuto della questione dei diritti.

Antonietta: I Mapuche sono una minoranza in Argentina e in Chile, anche se qui molto più organizzati. In Bolivia gli indigeni sono la maggioranza numerica. Secondo me allora è differente perché deve lottare molto di più, perché ne ha bisogno.

Annamaria: Sì, però la cosa interessante è che le donne eurodiscendenti vivono e praticano un femminismo che non è il nostro, pur essendo non solo eurodiscendenti ma anche educate in un certo modo. Sono molto attente al rapporto con la natura, a prescindere dai Mapuche, e a quella semplicità del vivere a cui facevi riferimento tu. Non sono donne che mirino ad accumulare, assolutamente no, ma curano le relazioni, sia dentro la famiglia che al di fuori.

Antonietta: Credo che ci sia una relazione molto stretta tra il “quanto basta” e la semplicità – non ideologica ma reale – e tutta la problematica ecologica. Credo che quello sia il grande problema oggi in tutto l’universo, in tutti i Paesi. È la questione che noi siamo incalzate da questo sistema di grande produzione, che se non produce muore e che devi comprare, con tutto quello che significa, e lì invece c’è un’altra economia.

Annamaria: Sì è l’autoproduzione che orienta in una direzione diversa, lo sguardo, il modo di stare.

Antonietta: Il problema è vedere anche quanto loro possono resistere. Perché a volte questo “quanto basta”, in certe situazioni come ad esempio la pandemia, vuol dire miseria. Rasenta la miseria o diventa povertà. E ne soffre anche la natura, perché io mi immagino che là tutte queste campagne sanitarie sul “pulitevi le mani”, “comprate il gel”, e così via significhi poi rifiuti di plastica da tutte le parti, mascherine che volano. Perciò non so, per me è anche quella la sofferenza, non è solo la durezza del lavoro della terra. Quando scendi al confronto quotidiano con la vita non è facile rispettare. E forse per questo in quella cultura c’è la ciclicità del rituale, come per chiedere perdono alla Pacha Mama. Non è tanto Dio quello che stai disturbando ma è la terra, ed è vero. Questa mi sembra la grande durezza che anche noi, nei movimenti ecologisti, dovremmo ricordare. È bello leggere quelle cose sugli Indiani d’America del Nord, che sono bellissime, ma poi si va a vedere e la maggior parte di loro passa la propria vita seduto a bere nelle periferie delle grandi città perché non c’è stato un riconoscimento e una costruzione di un diritto per loro. Quindi ne soffre il corpo, ne soffre l’anima e ne soffre la natura che viene lasciata in mano a tutti.

Annamaria: Mi ha fatto sempre impressione la differenza tra povertà e miseria. Fuori delle grandi città c’è povertà, forse quella a cui tu facevi riferimento, ma quando poi queste persone arrivano nelle città, soprattutto le grandi città, lì questa povertà diventa davvero miseria. E non c’è niente da fare.

Chiara: A me sembra che questo concetto del “quanto basta” non sia povertà, tantomeno miseria, perché la povertà è un’altra cosa. Mi sembra che questo elemento del “quanto basta” sia ciò che serve anche a noi qui. Se pensiamo che il “quanto basta” sia povertà già a livello di rappresentazione non ce ne facciamo niente. Un’altra cosa che a me sembra è che non sia tanto una questione di diritto ma il fatto che mancano le parole per dire questa cultura in modo condiviso. Se ci fosse una possibilità di condivisione di questo tipo di cultura e quindi di significarla bene con le parole, sarebbe diverso. È una cosa che ci riguarda quella del “quanto basta”. Non a caso facciamo il Grande Seminario di quest’anno (2021) sui bisogni. È un tema difficile, che è legato a tanti aspetti e in particolare alla consapevolezza del limite. Ma soprattutto siamo impegnate a trovare le parole per esprimere ciò che riguarda i bisogni in modo diverso da quello corrente. Qui sta anche la sua forza: trovare parole per dire la situazione che viviamo. Altrimenti si è cancellate simbolicamente in questo tipo di esperienza da altri percorsi prevalenti.

Antonietta, sia tu che Mariateresa parlate spesso del “buen vivir”. Che cos’è? Mi sembra il momento giusto per chiederlo.

Antonietta: Il buen vivir è il gusto pieno. La nostra casa, la comunità là, si chiamava Sumaj Causay Wasi che si traduce male ma sarebbe “la nostra lingua, la casa del buon vivere”. Ed era questo sogno che noi avevamo, e che abbiamo ancora adesso quando riusciamo a parlare insieme via zoom: il gusto pieno dello stare insieme. Lì – non so cosa dirà poi Mariateresa – è proprio legato allo stare insieme. Non esiste un buen vivir da sola. Esiste perché si incontra tutta la comunità, si condivide, si mangia, si beve, si fa festa. È molto forte il buen vivir in questo senso: è il gusto, o il piacere come direbbe Milagros (Marìa-Milagros Rivera Garretas). Il sentire il piacere, sentire un gusto condiviso insieme ad altre e ad altri.

Mariateresa: Sì, io lo sento anche un po’ attraverso l’affetto che io provo per il mondo dell’educazione, come una prospettiva in movimento in cui tutte e tutti hanno una possibilità di realizzarsi pienamente in rapporto agli altri. Lo vedo come una realizzazione piena, un percorso verso la pienezza dove non è solo l’umano che è coinvolto. Una cosa che mi ha colpita, devo dire, è che quando sono stata in Brasile – sono tornata nel 2015 – il buen vivir si percepiva come qualcosa di molto legato alla realtà indigena e andina. Invece adesso vedo che la discussione si sta arricchendo, nel senso che si stanno trovando altre assonanze, c’è una ricerca delle parole indigene delle varie realtà, dei vari contesti geografici dell’America latina. Una ricerca delle parole che le varie comunità e i vari popoli usano per dire questa pienezza della vita. Ma anche un mettersi in ascolto e in apprendimento rispetto a questa eredità indigena, questa genealogia di pensiero. Quindi è molto interessante anche in chiave decoloniale perché vedo delle comunità politiche di uomini, ma anche di donne – c’è infatti una ricerca in chiave femminile e femminista sul buen vivir – in posizione di ascolto verso gli “universi indigeni”. Per me è molto interessante questo aspetto di ricerca che continua. Poi vedo che a volte è utilizzato anche come un modo per omogeneizzare il pensiero o per creare una categoria che finisce per perdere la sua fecondità.

Chiara: Scusate ma da dove nasce questa parola?

Antonietta: “Sumaj causay” nel processo di cambiamento della Bolivia, e nella Costituzione, era stato il motivo principale. Da lì avevano poi cominciato anche l’Equador e il Perù, le comunità indigene non andine lo avevano ripreso.

Chiara: Quindi diciamo che la Costituzione boliviana ha rilanciato una concezione diffusa di quello che simbolicamente apparteneva a tutti, veniva proposto come un orientamento.

Antonietta: Già esisteva ed esiste nella loro cultura. Tanto è vero che noi dicevamo che il Presidente ci aveva rubato l’idea. Io sono andata là nel gennaio del ’98 e avevamo subito cominciato a dire che la nostra comunità si sarebbe chiamata in questo modo. Ed è un concetto molto forte perché se vai a vedere in certi testi traducono il “Sumaj causay” come “la pace”. Ma non è solo la pace, è molto di più. Credo che sia molto importante quello che dice Mariateresa. E poi c’è un buen vivir delle donne, donne che si riuniscono e riscoprono il buen vivir, ma questo ve lo lascerei per il Grande Seminario di quest’anno (2021).

Caterina: Io vorrei fare una domanda rivolta a tutte. Questo concetto di buen vivir ha qualcosa di simile a un concetto che appartiene invece alla cultura italiana, quello della “dolce vita”. Che poi è stato trasformato nella cinematografia con tutto un aspetto estetico, negli anni ’50, però è un concetto anche precedente che riguarda molto il cibo, il piacere dei sensi, la gioia dello stare insieme.

Chiara: No, se tu hai seguito il film di Fellini, c’è un elemento di decadenza nella “dolce vita”, c’è un lieve senso di morte. È un bellissimo tema, ma con un tono crepuscolare. Nel film di Fellini la Roma della dolce vita ha come tono dominante un lasciarsi andare alle sensazioni, perdendo il legame con la vita. L’importante erano sì le sensazioni, ma fini a sé stesse, non come aspetto e apertura al mondo.

Annamaria: E’ una forma di disimpegno. È stato equivocato e continua ad essere equivocato qui in occidente il buen vivir, o come una “vita buona” nel senso di onesta, retta, oppure in senso economico, che credo siano stravolgimenti rispetto al significato del buen vivir di cui ci hanno detto Antonietta e Mariateresa.

Antonietta: Sì, io credo che ci sia sempre lo zampino maschile. Cioè noi donne lo sappiamo che il bene è un insieme di fattori e non un pezzo. Perciò credo che le donne ci debbono, ci dobbiamo, lavorare di più su questa questione, che è anche la questione dei bisogni. Perché gli uomini frammentano questo buen vivir, questo piacere. Quindi non si tradisce la sua origine (lavorandolo in senso femminile e femminista) perché nel buen vivir c’è questo progetto non di giustizia rivendicativa o di uguaglianza ma perché “ciascuno ha quanto basta”. Quello che basta è poi quello che ti serve, è il tuo piacere. Però penso che lo dobbiamo lavorare di più noi donne, perché quando viene messo in mano agli uomini – com’è successo in Bolivia – poi diventa ideologico oppure frammentato, il buen vivir che riguarda lo stare bene del singolo e basta.