diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 6 - 2007

Insegnare Filosofia Forum

Il volto della filosofia

Mi ero messa a pensare come bisognerebbe insegnare filosofia volendo farlo con un taglio che tenga presente la differenza, ma poi ho capito che partivo col piede sbagliato.

Col piede fuori posto, cioè non con i piedi dove sono, dove abitualmente muovo passi avanti e indietro per le classi insegnando filosofia ormai da molti anni, mai seduta dietro la cattedra, in un andirivieni che mi vede disegnare alla lavagna, o a fare schemi, o alla ricerca di oggetti i più vari per spiegare, o a mimare situazioni, o a gesticolare, a leggere, a tradurre il “lessico disciplinare” nella lingua di tutti i giorni e viceversa a mostrare quanto lessico filosofico passi nel nostro linguaggio, a fare domande, a raccontare esperienze di vita, a cercare testi, a scartabellare il manuale alla ricerca di cose che spesso non ci sono, a consigliare libri, a cercare esempi dagli ambiti più disparati, a guardare film seduta nelle ultime file, a discutere, provocare, ascoltare, il tutto ridendo molto in un clima generalmente allegro… una volta una studentessa mi disse: lei professoressa bisognerebbe filmarla.

Questo ovviamente non è la risposta al problema, è come in pratica me la cavo quotidianamente con il problema. Devo dire che fino a che non me lo sono posta come tale in modo esplicito ho continuato a pensare che in qualche modo evitavo di affrontarlo davvero e mi arrangiavo praticamente senza aver formulato una riflessione teorica adeguata, cosa che avrei prima o poi dovuto fare confrontandomi con altre. Avevo letto molto della riflessione femminista sul canone filosofico e addirittura progettato una rubrica per la rivista che volevo intitolare Insegnare filosofia. Ora con questa occasione della riflessione a partire dalla questione di come segnare con il taglio della differenza i manuali scolastici finalmente mi sono detta che era venuto il momento di entrare appieno nel problema. Solo che proprio ora mi accorgo che ci sono sempre stata dentro, e che la prima cosa da fare è riconoscere a quel che ho fatto fino ad ora di essere stata una risposta. La mia risposta. E pure riconoscere che il mio desiderio in fondo è che il taglio della differenza non possa passare come un contenuto fra gli altri, senza che una donna o un uomo in carne e ossa nella mediazione vivente lo assuma in prima persona.

Prima di andare avanti devo raccontare un episodio rilevante: anni fa sono stata contattata per contribuire a un manuale che voleva fare dei capitoli “sulla differenza”. Accettai perché la richiesta mi veniva di un amico di cui avevo fiducia e che era tra gli autori, inoltre perché alcune amiche di Diotima mi consigliarono di farlo. Fu un disastro. Il mio primo progetto che prevedeva un capitolo per ognuno dei tre volumi annuali fu bocciato, mi si chiese di limitarmi all’ultimo anno, rispettando inoltre l’impianto del manuale che prevedeva di costruire posizioni opposte in polemica tra loro su un problema, scegliendo delle autrici. La cosa cominciò a diventarmi insopportabile, rimandavo, non riuscivo a mettermi a scrivere ma riuscii a produrre un indice molto sofferto che venne contestato precisamente sulla presenza della posizione di Diotima. Alla fine giunsi ad un conflitto decisamente aspro con il curatore, del quale avvertivo la sostanziale svalutazione per la questione, e mandai tutto all’aria ritirandomi ormai vicina ai tempi di consegna con un atto che ovviamente suonò di grande scorrettezza (anche a me, sebbene avessi trovato un’altra collaboratrice che avrebbe assunto l’incarico). Ma io proprio non potevo farlo, mi era letteralmente impossibile.

Non potevo accettare di chiudere in quelle pagine quel che è stato in filosofia e nella mia vita la cosa più importante… quando mi si disse che così facendo mi prendevo la responsabilità di far uscire il manuale senza quella parte, sentii che preferivo così.

Tuttavia non fu una decisione che mi mise in pace, anzi. Una parte di me si cruccia e persino si risente di non trovare segno nei manuali scolastici di quello che giudico il meglio della filosofia del nostro tempo e il meglio del lavoro filosofico sulla nostra tradizione filosofica. Questa assenza è di suo un segno, e ho imparato ad approfittarne, anche con più profitto dei miseri segni di presenza che ultimamente sono stati introdotti. Ma ormai è un’assenza anacronistica, la mancata registrazione di una realtà. E anche se questa può far gioco a mostrare quale sia stato il dispositivo di costruzione maschile del discorso filosofico, c’è ormai il rischio tangibile che quel gioco si riduca allo smascheramento del sessismo, alla denuncia di un’esclusione e ne dipenda logicamente. L’inclusione, peraltro, non è a sua volta priva di rischi, al contrario: come ebbe a dire Dale Spender solitamente essa si concretizza secondo la massima: “add women and stir“. E’ quel che è accaduto negli ultimi tempi, si aggiungono le donne e ci si mette l’anima in pace, nemmeno si agita un po’. L’aggiunta è cosmetica, il volto della filosofia resta decrepito, barbuto e intatto. Non c’è dubbio che il volto della storia della filosofia sia barbuto, ed è necessario dipingerlo come tale, si tratta di vedere come e questo è un primo problema. Ma il problema che oltre a questo si apre se si assume davvero il taglio della differenza sessuale è come cambi il volto stesso della filosofia, e nello specifico qui in oggetto, del suo insegnamento.

Per quanto concerne la prima questione, la proposta di affiancare alla galleria dei volti maschili dei filosofi qualche specchio femminile che aiuti a svelarne l’aria di famiglia patriarcale e l’intento narcisistico è già un passo avanti rispetto a quel che si è fatto fino ad ora, ma anche qui i pericoli non mancano. Pur riconoscendo i vantaggi temo il sentore da manuale “politicamente corretto”, temo la ripetitività, la normalizzazione e la noia. Certo si possono immaginare modi per evitare l’effetto letale del “manuale riveduto e corretto”, ad esempio rifuggendo dall’apposizione di “schede critiche” con la parvenza dell’ufficialità neutrale e anonima (lo stile consueto dei manuali) e privilegiando casomai testi di autrici che si assumono in nome proprio la lettura di un autore o di un problema, la critica femminista abbonda di materiali utilizzabili a questo fine. C’è da dubitare, comunque, che anche il limitato obiettivo di segnalare il sessismo della tradizione filosofica possa conseguirsi con strategie d’integrazione correttiva, per quanto didatticamente ben congegnate, e che non imponga viceversa interventi più radicali. E non penso solo a come possa essere necessario rompere le consuete impostazioni manualistiche correnti, come l’impianto storico, la suddivisione cronologica, o l’opzione per autori o viceversa per temi, o ancora la prevalenza dei testi, o ancora la presenza di letteratura storiografica, o l’inserto nel corso dello sviluppo del programma di letture successive o contemporanee degli autori trattati, oppure l’inserzione di elementi che non hanno avuto tradizionalmente il nome di filosofia… Penso piuttosto se sia concepibile che quell’intento sia seriamente raccomandabile o conseguibile senza che si tratti di una scelta liberamente assunta da chi scrive il manuale e che quindi si pone all’impresa nella prospettiva e con la disponibilità a ripensarne complessivamente la metodologia, l’impianto e la struttura. Il che può significare auspicare che qualcuna e qualcuno si ponga all’opera in questo senso, e ancor più che si avvii una riflessione e un confronto sui metodi, le esperienze, le pratiche didattiche sperimentate, anche al di là della finalità della stesura di nuovi manuali. Impresa di non poco conto, ineludibile a questo punto tantopiù che interventi correttivi della manualistica sono già in corso, previsti e richiesti. Ma impresa che a sua volta c’è da chiedersi se davvero possa essere affrontata senza che si sollevi la seconda questione di cui sopra, ovvero di quale sia il nuovo volto che la filosofia può mostrare una volta che si sia riconosciuta la sua barbuta storia. E poi con che volto ci si possa proporre di insegnarla.

Credo che per quanto riguarda che nuovi tratti stia assumendo la filosofia quel volto cominci a delinearsi, per quanto la sua fisionomia non abbia forse la precisione della vecchia identità e capiti di riconoscerlo nelle più differenti sembianze e non dove ci si aspettava di trovarlo a guardarci.

Quanto al volto con cui la filosofia si possa insegnare, la cosa è forse la più semplice per quanto ci sia una lunga storia lì a dimenticarla: quel volto non può che essere quello singolare ed esposto di chi di volta in volta ci mette il suo, faccia a faccia con i volti di giovani donne e giovani uomini che riguardano lì da dietro i banchi.