diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 10 – 2011

Teologia Femminista

Il respiro di Maria, aria di libertà per tutte?

Non siamo rimaste troppo

infantili, timorose, passive

di fronte alla nostra appartenenza religiosa?

(Luce Irigaray)

 

 

 

Realizzando un libro tutto dedicato a Maria[1], la madre di Gesù, Luce Irigaray invita a guardare con libertà femminile alle verità della tradizione cattolica romana. È un gesto dovuto anzitutto a se stessa, per ripensare alla propria storia di donna che per anni ha cercato con sofferenza di affidarsi a questi dogmi, ma che poi è dovuta andar lontano, per il bruciore delle ferite. Se ora ha deciso di tornare indietro, è perché scommettendo sul senso della differenza sessuale, Irigaray ha guadagnato uno sguardo che ha la forza di posarsi ovunque, senza mai negoziare o, peggio, svendere se stessa. È un gesto, però, che giudica vitale non solo per lei, ma anche «per tutte le donne e per tutti gli uomini in cerca della loro liberazione»[2].

Comunque, non è una novità: Irigaray ha sempre puntato su un pensiero delle donne aperto alla teologia, convinta che quando le interrogazioni filosofiche trascurano la questione del rapporto con Dio, «rischiano di esiliarci ancora un po’ di più dalla nostra storia femminile»[3].

Con questa fiducia di ricavarne qualcosa di buono, Irigaray ritrova Maria. Non la incontra però nella sua eccezionalità da celebrare, né semplicemente come una donna riuscita da inserire nella genealogia femminile che supporta la propria presa di parola, ma come la storia di un destino accessibile a tutte. L’affermazione è importante, in quanto lei sa molto bene che a molte donne intellettuali e femministe questa storia non interessa, tanto è stata usata per metterle dalla parte di Eva per disubbidienza e malizia. Tuttavia, in linea con la lettura che ne faceva Mary Daly in Al di là di Dio Padre[4], Irigaray riconosce nella vicenda della ragazza di Nazareth un possibile percorso di libertà femminile. Una donna vergine, se ben si capiscono le parole, è una donna che non viene nominata in relazione a uomini e che si presenta in tal modo come emblema di autonomia femminile. Allo stesso tempo, non c’è in lei solo un tratto d’indipendenza simbolica, ma anche la capacità di tessere rapporti con l’altro senza rinnegare la propria differenza. Gli epiteti “vergine” e “madre”, allora, acquistano un senso nuovo, perché corrispondono a un divenire di donna capace sia di relazionarsi con altri, sia di custodire se stessa[5].

L’impronta dell’autrice si riconosce anche nell’impiego di categorie legate ai saperi orientali e all’esperienza dello yoga, che le hanno permesso di incrociare elementi della propria tradizione secondo una luce differente. Irigaray può così discostarsi dalla Maria tradizionale e scorgerne un’altra: quella che respira rimanendo presso di sé. L’incarnazione del divino, infatti, non è solo una questione di corpi, dove il Figlio di Dio trova il calore della carne, ma anche una questione di respiro. Acconsentendo a farsi madre di Dio, Maria ha vissuto una sorta di risveglio al proprio respiro spirituale, che le ha permesso di conoscere la propria capacità di ospitare il divino in sé, divenendo in qualche modo lei stessa divina. Questo passaggio divinizzante avviene nel respiro perché in quest’esperienza, in cui normalmente non si dipende da altri, si attiva uno scambio tra il dentro e il fuori senza il sopravvento dell’uno sull’altro. L’Annunciazione, infatti, testimonia uno scambio di parole, non una magia, né una sopraffazione. Il Vangelo non porta via Maria da se stessa. Nel dialogo con l’angelo, anzi, si attiva una vicenda nuova, ma soprattutto una trasformazione della ragazza che diventa sicura della propria creatività. Il vangelo le fa scoprire di essere capace di generare l’imprevisto.

Questo passaggio da un respiro vitale a un respiro spirituale, però, sfugge. Per giustificare la sua inafferrabilità, si deve richiamare sicuramente una ragione culturale: il solito misconoscimento occidentale dell’invisibile nel visibile. Allo stesso tempo, si deve sapere che certi passaggi accadono e basta, non si sa bene come: il modo in cui Maria genera Dio resta segreto. Di sicuro, comunque, questa trasformazione non sarebbe mai stata possibile se lei non fosse rimasta fedele all’autonomia del suo respiro. Una forza generata da un rapporto immediato con Dio, che Maria viveva al di fuori del suo popolo, della sua genealogia, di Giuseppe e perfino del bambino che nascerà. In quest’universo tutto suo, Maria custodiva lo spazio e il tempo per l’altro, per quel futuro immaginato e presentito, che irromperà molto presto nella sua vita. In questo modo, nota Irigaray, Maria porta in sé il mistero del non ancora accaduto, al di là di ciò che è già apparso[6]. Per tutti questi motivi, si deve dire che Maria ha avuto un ruolo anche spirituale nell’incarnazione e dunque nella redenzione umana: Gesù è nato da una donna che sapeva stare raccolta e non disperdere se stessa, una donna veramente libera. Se non parte da questo fatto, il cristianesimo è destinato a infrangersi contro la reciproca impenetrabilità dell’umano e del divino.

Anche se Irigaray ammette che non tutte le donne sono in grado di trascendersi in questo modo, rimane certa che la vicenda di Maria consegna una possibilità per la nostra declinazione personale, perché con il suo silenzio ci lascia «libere di inventare un futuro a modo nostro»[7]. Tutte noi, allora, siamo chiamate a un’azione di generazione del divino e abbiamo una responsabilità personale nella sua incarnazione in terra, anche se non tutte sapremo raccogliere la sfida, probabilmente a causa delle mediazioni maschili che ostacolano la creatività femminile.

Tuttavia, se questo richiamo di Irigaray al raccoglimento in sé è certamente fondamentale, perché consente di andare nel mondo senza dissolversi in logiche straniere, mi pare che qualcosa resti non-detto nel suo discorso: la possibilità che una tale intimità non sia davvero praticabile a causa dell’inquietudine che attraversa sempre i legami importanti, quelli che si inscrivono nel cuore, per dirla con il profeta Geremia, e di cui non ci si libera mai del tutto. In essi, purtroppo, si fa inesorabilmente l’esperienza di non essere in grado di salvare nessuno dalla necessità. Per questo fatale rischio che il dolore tocchi l’amato, l’io non ha più modo di stare compatto, tutto ritirato in sé, e deve vivere un po’ fuori dalla propria anima.

Mi è difficile, dunque, immaginare un raccoglimento che preserva il desiderio, senza pensare a queste tormentate dislocazioni. Ma questo, in fondo, non significa nulla: un’altra potrebbe viverlo e smentire la mia impressione. Tuttavia, mi pare che Maria stessa faccia resistenza a questo quadro forse eccessivamente idilliaco. La fanciulla di Nazareth sa che avere un respiro aperto all’imprevisto significa esporsi continuamente al soffocamento o per lo meno alla sospensione del fiato, perché si è messo al mondo qualcosa che non si può proteggere del tutto. Sa che il divino che ha fatto nascere è e rimane debole. In tal modo, da quando ha pronunciato il suo sì all’angelo, la sua interiorità deve fare i conti con quelle fenditure che nascono dall’aver vincolato una parte di sé a una trascendenza. D’ora in poi, quello che capiterà a questa creatura ricadrà su di lei, ferirà irreparabilmente le sue pratiche di condensazione di sé e forse arriverà a renderle impossibili. Qualcuno le aveva detto: «una spada ti trafiggerà l’anima». Chissà se già allora aveva immaginato che l’avrebbe trapassata così a fondo… È l’ombra della tragedia sull’incarnazione che diviene visibile, per esempio, nella Visitazione del Pontormo, dove la nascita futura è rappresentata come già intessuta di presagi di morte. Sullo sfondo, fa notare il filosofo Jean-Luc Nancy, si stagliano infatti due uomini dall’aria popolare, «uno dei quali tiene un coltello e una pagnotta, l’altro una bottiglia»[8]. Pane, vino e coltello, per un futuro di oblazione segnato da una morte che sarà violenta e maledetta. Certo è che questa profezia della croce diviene l’emblema di un’anima materna che per essere veramente libera non può più contare solo su di sé.

Julia Kristeva, che conosce quest’esperienza di una maternità difficile a causa dell’impotenza che si deve sopportare, dato che ha avuto un figlio affetto da una grave e rara malattia neurologica, definisce la madre come «una spartizione permanente, una divisione nella carne stessa». Uno dei suoi ultimi testi, Leur regard perce nos ombres[9], scritto con Jean Vanier, filosofo e teologo fondatore de L’Arche, comunità costruita attorno a portatori di handicap, è un appello al mondo, perché le cosiddette “persone normali” modifichino lo sguardo sui più vulnerabili, uno sguardo che lei vede posato sul figlio, ma che le arriva dritto agli occhi. Ecco perché, scrive, la genitrice non è mai la madre. C’è infatti una parte di adozione in ogni maternità, che lei sente pesare gravemente nella sua esperienza. Si chiede dunque come si possa effettivamente costruire questa capacità di adozione nella donna che sta per divenire madre di un altro, un altro che fin da subito non è solo per lei, ma esposto al mondo. Difficile dirlo. Comunque, è certo che quando si ha a che fare con il trascendente, sia esso chiamato divino o no, non è più possibile un tornare a sé che mantenga i confini delineati. Lo spiega bene nel suo testo Stabat mater, tessuto attraverso un doppio registro della maternità, culturale e personale. Attingendo dalla sua singolare esperienza, scrive:

Il pianto del neonato, spasimo del vuoto sincopato. Non sento più niente, ma il timpano continua a trasmettere questa vertigine sonora al mio cranio, ai capelli. Il mio corpo non è più mio, si torce, soffre, sanguina, prende il raffreddore, mette i suoi denti, sbava, tossisce, si copre di foruncoli, ride. Eppure, quando la gioia sua, dell’altro, ritorna, il suo sorriso non fa che lavarmi gli occhi. Ma il dolore, il suo dolore, è qualcosa che mi giunge dal di dentro, non resta mai separato, mi investe subito, senza un secondo di tregua. Come se fosse il dolore la cosa che ho messo al mondo e che, non volendosi distaccare, si ostina a ritornarmi, mi abita in permanenza. Non si partorisce nel dolore, si partorisce il dolore: il figlio lo rappresenta ed esso si installa ormai per sempre. Evidentemente, puoi chiudere gli occhi, tapparti le orecchie, far lezione, far spese, ordinare la casa, pensare agli oggetti, ai soggetti. Ma una madre è sempre segnata dal dolore, vi soccombe[10].

Sono parole molto forti. Esse anzitutto descrivono la strana fusionalità dei corpi tra madre e bambino: il suo corpo non è più esclusivamente suo, prende il raffreddore del bimbo, mette i suoi denti, ride del suo sorriso… Ma è il dolore della creatura, soprattutto, a infilarsi nella carne. Quel dolore non può essere un pezzo del mondo guardato, osservato, misurato e giudicato. È come se venisse da dentro e non mollasse mai la presa dell’anima. Fino a far dire a Kristeva: «non si partorisce nel dolore, si partorisce il dolore». La psicoanalista semiologa mostra anche come non ci sia alcuna via di scampo, nessuna possibilità di un respiro solo proprio. Qualunque cosa si faccia per distrarsi, non vedere, non pensare, non capire, è vana: una madre «è sempre segnata dal dolore», richiamata alla fragilità della vita dell’altro e all’impotenza di non poterla salvare dal male.

Questa spada infilata nell’anima di Maria assomiglia alle tante lame che dilaniano tutti quelli che provano a mettere al mondo Dio. Quando sono donne, la generazione divina è certamente l’esperienza di un sollevamento dal peso del tempo e dello spazio dove sono state previste solo come oggetto del discorso, ma rimane l’esperienza di una rivoluzione nello sguardo che non può più puntare alla ricerca di intimità, finché sulla terra qualcuno sta male. Maria, per esempio, non starebbe in silenzio davanti a quei barconi che arrivano dal mare. Si accorgerebbe delle storie che portano. E ripeterebbe il Magnificat, un canto in cui i destini degli ultimi diventano splendidi.

Soffermandosi proprio sul Magnificat, Ivana Ceresa, teologa mantovana morta di recente, mostra molto bene che non c’è la Maria solo del sì, ma anche la Maria del sì/no, che racconta di un forte cambiamento e trasformazione del mondo iniziato certamente con un respiro profondo, ma portato avanti dalla necessità di prendere sul serio i drammi di quelli che sono più fragili. Ceresa fa anche allargare lo sguardo al contesto di questo canto, mostrando come prenda forma dentro un rapporto di profezia tra due donne che si davano autorità vicendevolmente: Maria ed Elisabetta. Parlando alla cugina, che aspetta un figlio come lei, Maria racconta di un Dio che sa fare da specchio anche ai/alle più invisibili tra noi.

Certamente, il Magnificat è un canto che spiega la gioia di essere stati raggiunti dalla salvezza: «sto così bene, mi sento così tutta, così grande, perché lui è grande»[11]. È la descrizione di un’esperienza di libertà femminile che può finalmente godere del proprio desiderio perché raccolto all’interno di una trama che libera e non sequestra mai l’esistenza. Alla teologa, però, interessa soprattutto far notare come questo sia un canto sovversivo, perché in primo luogo è parola femminile che racconta la storia della salvezza e, soprattutto, è parola femminile politica che colloca questa storia nella concretezza del mondo. Qui, dunque, Maria racconta a un’altra donna che mettere al mondo Dio significa partecipare a una vera e propria rivoluzione, anche solo raccontandola: gli emarginati sono ascoltati, presi finalmente sul serio, i potenti sono rovesciati dai troni, le mani del ricco si rivelano miserabilmente vuote… Non accade solo in Dio, ma in tutti quelli che lo sanno generare. Il nesso non è accidentale: come diceva Simone Weil, non è dal modo in cui si parla di Dio, ma dal modo in cui si parla del mondo, che si capisce se una persona è abitata dal divino oppure no.

Sono proprio questi laceranti vincoli al mondo a giustificare il passaggio simbolico da un registro di interiorità/intimità a un registro di trascendenza religiosa. Senza questi vincoli, senza parole per i drammi del trascendersi, tale passaggio resta problematico, forse solo nominato (anche se nominare non è mai poco!). In questo testo di Irigaray, tali elementi sono solo sullo sfondo. Certo, la filosofa della differenza aveva sottolineato come il silenzio non sia la fine di tutto, ma vada inteso come una riserva di parole, e ha avuto grande attenzione per l’irriducibilità di una trascendenza che si incarna. Tuttavia, manca nel suo scritto quella tensione messa in campo da Kristeva la quale, da non credente, consegna in tal modo qualcosa di prezioso, a mio avviso, per il discorso che vuole coinvolgere Dio.

Non è facile stare con questa Maria. «Io stavo più comoda con la Maria delle Grazie»[12], dice Ceresa parlando della Madonna di cui le raccontava sua nonna, una Madonna generosa che riempiva la sua immaginazione di bambina. A un certo punto, però, non le bastava più e per questo ci ha rivolto una domanda: «Cosa fanno le vostre Marie davanti alla Maria canonica?»[13].

[1]              L. Irigaray, Il mistero di Maria, Paoline, Milano 2010.

[2]              L. Irigaray (ed.), Il respiro delle donne. Credo al femminile, Il Saggiatore, Milano 1997, p. 129.

[3]              L. Irigaray, Il respiro delle donne, p. 149. Vedi anche il suo Donne divine, in Sessi e genealogie, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007, pp. 67-86.

[4]              M. Daly, Al di là di Dio Padre. Verso una filosofia della liberazione delle donne, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 105.

[5]              L. Irigaray, Il respiro delle donne, p. 131.

[6]              L. Irigaray, Il mistero di Maria, p. 31

[7]              L. Irigaray, Il mistero di Maria, p. 55.

[8]              J.-L. Nancy, Visitazione, Abscondita, Milano 2002, p. 20.

[9]              J. Kristeva – J. Vanier, Leur regard perce nos ombres, Fayard, Paris 2001.

[10]            J. Kristeva, Stabat mater, in Storie d’amore, Editori Riuniti, Toma 1983, p. 255.

[11]            I. Ceresa, Mie carissime sorelle. Scritti sulla Sororità, Publi Paolini, Mantova 2010, p. 121

[12]            I. Ceresa, Mie carissime sorelle, p. 147.

[13]            I. Ceresa, Mie carissime sorelle, p. 147.