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per amore del mondo

Tesi di Laurea

Il problema dei valori alla luce della differenza sessuale. Max Scheler, Edith Stein, Luisa Muraro

 All’essere umano è stato permesso,

fatalmente, di colonizzare se stesso;

il suo essere e il suo avere. E se fosse

stata questa la vera ragion d’essere

della sua vita sulla terra, la parola non

gli sarebbe stata data, confidata.[1]

 

A tesi ultimata, a laurea conseguita, leggo un articolo di Luisa Muraro che si conclude con queste parole: “In quel linguaggio permeabile al non pensiero e aperto al pensiero di altri  e di altro, abitava, come in una casa senza imposte, un’idea che non faceva mostra di sé: faceva luce”[2].

Lingua corrente si intitola l’articolo; quindi mettersi in onda, dentro ed in ascolto, ma non si tratta solo di far luce o mettersi in luce, ma lasciarsi illuminare. Ripartire da capo, o meglio, rituffarsi nella corrente prima che altro e altri si siano fatti di nuovo astrazione, sistema? Rinuncio a dire l’essenziale indicibile. C’è qualcosa di forte in tutto questo, che colora, accalora, che autorizza una voglia di racconto. E’ successo all’inizio e continua a succedere. C’era una volta un re………l’ossessiva ripetizione del simbolico che fagocita ma che illumina, che vela ed è velato.

Il tentativo era di coniugare etica e differenza sessuale; in particolare era l’etica materiale dei valori di Max Scheler che mi affascinava perchè parlava di qualcosa fuori di me da scoprire, da incontrare, da abbracciare, i valori appunto; mi faceva uscire da ciò che avevo sempre pensato prima e cioè che i valori non esistono, esistono la psicologia e la sociologia, i valori li creo io o la società, cambiano se cambio io o la società, io e la società ci influenziamo; c’erano i bisogni (i desideri già più difficili da inquadrare) primari, indotti e così via. L’etica di Scheler immetteva la “realtà” in questo circolo, non quella già scoperta o da scoprire secondo parametri già decisi dalle scienze; una realtà fatta di corpi ed essenze, di sentimenti ed emozioni. Si poteva fare filosofia senza scartare a priori un mondo di concrete passioni, di presenze e contatti, di comportamenti. Facevo raffronti, cercavo di costruire percorsi di pensiero che permettessero un inquadramento etico della differenza sessuale. Mi rendevo ben presto conto che la mia era soltanto un’idea. Era l’idea di sistemare l’insistemabile, partendo da qualche concetto, ma la differenza sessuale non ci stava dentro questi concetti di partenza e tantomeno nei sistemi etici che li originano.

Annarosa Buttarelli, la mia relatrice, mi consigliava la lettura e l’approfondimento di due testi, uno di Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre[3], l’altro di Luce Irigaray, Etica della differenza sessuale[4] per avvicinarmi con più metodo al pensiero della differenza sessuale. Con più metodo appunto: lettura attenta dei testi e ascolto delle risposte che la mia differenza sessuale dava alle domande che scaturivano da quei due libri fondamentali. Mi lasciavo orientare dalle domande più che rispondervi, ero chiamato ad una concretezza, al corpo, il mio; qualcosa di così sfuggente ed un po’ angosciante. Per me il corpo non era una porta, non era nemmeno una chiave, tantomeno un inizio. Quindi dovevo partire dalla difficoltà di avere un corpo o perlomeno dalla difficoltà di fidarmi di questo fatto dei fatti, che non ha mai dato inizio ad alcunché di pensabile per me, di arrivare a dire ciò che sono. Dovevo cominciare dal mio corpo in relazione; Annarosa Buttarelli mi aiutava a dare parole alla relazione, ad accettarne il movimento, ad ascoltare la voce, la mia, la sua. Si evidenziavano i miei balbettamenti relazionali velati da nuvolose astrazioni, di contro il suo calore metodologico mi introduceva a logiche diverse, sentieri nuovi da percorrere tutto intero, ascoltando il mio ed il suo sentire, attendendo. Si apriva un buco profondo di senso che mi riguardava da vicino. Riguardava la mia vita e non sapevo dire se guardandoci dentro sarebbe stato meglio o peggio di prima.

L’uomo, i maschi, hanno sempre due finzioni da superare: il fatto di essere ciò che sono annullando l’essere di un’altra; il fatto di relegare poi tutto nell’ovvio o nel “naturale”. Molto spesso queste due finzioni fanno, per la cultura, una verità e non è così facile capire la differenza fra finzione e verità, ma ancor più la differenza sessuale. Ci vorrebbe un triplo salto mortale, con la probabilità di rompersi le ossa. Concretezza del rischio. Il rischio era di veder scivolar via superficiali certezze che mi lasciavano senza parole, da dire, da scrivere; decidevo di correrlo confortato dal fermo e deciso “io ci sono” di Annarosa Buttarelli; un dono di competenza, un regalo dell’inatteso simbolico, della meraviglia della differenza sessuale.

La figura ed il filosofare di Edith Stein ci soccorrevano per tentare di articolare un dialogo fra la filosofia di Scheler e il pensiero della differenza sessuale. Edith Stein è stata il ponte che ha permesso il transito del mio pensiero fra due mondi, forse, inconciliabili; la sua differenza ha difeso la mia, lasciata, nuda, in balia di insanabili contraddizioni. Avevo intuito la mia fragilità nella sua, l’avevo compresa.

Mi toccava prendere atto, a partire dalla mia crisi, dell’esistenza di due modi diversi di essere/stare al mondo, non generalizzabili in una categoria umana universale, con proprie vie di fuga, modalità di espressione, relazione, rapporto con il proprio corpo, rapporto con Dio. Così il percorso di tesi mi si presentava più chiaro: cercare un’ermeneutica del mio cambiamento, attraverso l’ermeneutica del cambiamento della nozione di valore avvenuto in me, al contatto con il pensiero della differenza sessuale.

Mi piace pensare alla mia tesi come al racconto di un percorso fatto di progressive aperture, non nel senso però di progresso unidirezionale, ma in quello di un allargamento di spazi di pensiero e sentimento, di messa in discussione dei concetti di etica, valore, volontà, dovere. Le aperture, è chiaro, sono avvenute in me.

Le prime sono quelle operate da Max Scheler. Da una parte egli supera il formalismo kantiano, attraverso l’introduzione di una nuova definizione dei valori che favorisce l’entrata a pieno titolo della dimensione affettiva nell’etica; da un’altra, lo svelamento dei presupposti indimostrati di un certo razionalismo e pragmatismo attraverso la rilettura di concetti ed azioni quali: a priori, conoscenza, dovere, volere e potere, dischiude all’analisi le molteplicità dinamiche dello svolgersi dell’esistenza.

L’introduzione della percezione emozionale-affettiva dei valori ed il posizionare i movimenti affettivi dell’amore e dell’odio al sommo dell’esperienza etica e morale, scompone e ricompone l’ordine delle relazioni fra gli atti percettivi (sensibili, psichici, affettivi, spirituali), relegandone alcuni (sensibili e psichici) ad una dimensione puramente funzionale, altri (affettivi e spirituali) alla dimensione di veri atti che favoriscono nuove dinamiche di scoperta, riaprendo alla passione ed alla meraviglia.

La materialità dei valori riporta alla questione della responsabilità dell’essere nel mondo, ad una concreta contestualità, ad una sollecitudine non farisaica che, lungi dal chiudere l’esperienza in un cieco determinismo, le donano un limite dal quale ripartire. Tutto ciò significa la possibilità di uscita dalla logica del volere di dominio di un io egocentrico, parziale ed autoritario nelle sue modalità di conoscenza, nonché falsamente neutro.

Edith Stein, per parte sua, opera un ulteriore passo di avvicinamento al reale ed alla concretezza del soggetto. Pur mantenendo il riferimento all’etica scheleriana, la fa scendere però dall’astratto empireo teoretico, dandole una maggiore incarnazione. Fa uscire quindi il soggetto dal magma indistinto dell’unipatia scheleriana, in questo modo aprendo, anche se non esplicitamente, all’impensata concretezza della differenza sessuale, che con lei comincia a raccontarsi teoreticamente, seppure con scarso successo di ascolto nell’ambiente filosofico dell’epoca. Ciò che è più importante è che lei risignifica, partendo dalla sua concreta differenza, il concetto di empatia, inaugurando un percorso efficace verso la conoscenza e comprensione dell’altra e dell’altro, che si fonda sul riconoscimento di una distanza che è irriducibile, pena l’annullamento del possibile effettivo ed affettivo essere con.

Luce Irigaray comincia a parlare con una lingua diversa, filosoficamente provocante, che mutua dalla poesia la forza espressiva dell’allegoria e l’intuizione evocativa e fulminante. La spaccatura e l’asserzione della distanza dalla filosofia precedente, prima ancora che teoreticamente, avvengono linguisticamente. Irigaray racconta coniugando le passione del corpo e degli affetti nella differenza, con l’estesa e multiforme competenza pluridisciplinare. Si pone all’opera nell’improba impresa della costruzione di un’etica della differenza sessuale, opera che, nel suo compiersi, aprirà ad incontaminati paesaggi del pensiero, attraverso un’inaudita freschezza linguistica, che spaccano la logica continuità del filosofare neutro, introducendo discontinuità e asimmetrie che rendono difficile e forse inutile il dispiegarsi di un nuovo sistema etico. Sicuramente viene messa in discussione la logica di costruzione sistematica, affidandosi di più ad un lavoro di epistemologia creativa e di scavo ontologico. Viene a galla un’etica del partire da sé più che della persona, relazionale più che prescrittiva, contestuale più che universale; un etica del dialogo e del conflitto fra materiale ed immateriale, fra corpo e mente, fra donna e uomo, fra possibile ed impossibile, fra meraviglia ed abitudine. Etica dell’insoluto e del dischiuso. Sembra spingerla la consapevolezza della ricchezza del mucoso, del poroso, del dischiuso, del mai chiuso, che la abitano, suo luogo per l’incontro.

Qual è, alla fine, la sua etica? E’ un andare incontro, un farsi incontro di valori, del valore della differenza. Questo valore assomma in sé valori che si relazionano a noi attraverso i sensi, ma che la differenza proietta verso un oltre, in un andirivieni intenzionale, rimanendo però ancorata alla corporeità originaria ed ai suoi ritmi, alla sensibilità; il trascendentale sensibile.

Il testo L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro non autorizza interpretazioni etiche, perché, partendo da un’altra parte, non incrocia mai ordini e sistemi costruiti attorno ad un concetto, quello del neutro, che ignora e vela l’esistenza stessa della differenza sessuale, lancia comunque segnali forti verso la ridefinizione di comportamenti, relazioni, valori e delle parole per dirli. Con questi segnali dobbiamo fare i conti, rendere conto e renderci conto. I valori sono indipendenti da come li chiamiamo, anche se come li chiamiamo, vincola la nostra percezione di essi. La possibilità ed il modo di essere nominati può limitare la loro manifestazione e realizzazione, non eliminarne l’esistenza, (la differenza sessuale insegna), perché la loro apprensione e percezione non avviene esclusivamente attraverso la nominazione; questa, delimita, struttura la possibilità di una loro effettiva elaborazione, che può produrre l’innestarsi di comunicazioni relazionali assiologiche in e fra contesti. Tutto ciò rimette in gioco, secondo me, la “pratica” della risignificazione, anche se molto lavoro in questo senso resta ancora da fare, non solo da parte degli uomini, ma da donne e uomini, che non vuol dire fatto insieme necessariamente e sempre. La parola valori non circola, se non rarissimamente, nei testi di Luisa Muraro. La scomparsa dei valori come “termini”, quindi già definiti, produce uno spazio per “altro”, il che non implica la scomparsa di ciò che ci “preme”, ci vincola, ci attrae, ci orienta, ci apre alla ricchezza di un esistere contestuale, esistere relativo che però non dimentica esistenze altre, presenze altre. Non è tanto una dialettica noi-altri, relativo-universale, ma la messa in movimento di energie relazionali meravigliate che crea circoli virtuosi di senso, che portano alla consapevolezza che “la gioia viene dalla certezza che il reale non è finto, che non dipende da noi per essere.”[5]Tutto è ancora tutto da abbracciare, prima ancora e soltanto di conoscerlo e scoprirlo, perché il “tutto” di prima era solo parzialità; che esso esiste, potendo anche non esistere, di qui la gioia. Gioia di comportamenti relazionali, di “pratiche” affettivamente piene, attente. Penso che l’etica, se etica rimane, debba appoggiarsi, ora ed in futuro, sulla fedeltà al principio che ciò che si pensa e si dice corrisponda a ciò che si è, che vita e pensiero tornino a parlarsi; ma pensare, dire ed essere sono da ridefinire, contestualmente e sessualmente, e la cosiddetta coerenza è così una forma vuota, forma pericolosa. Forse, vivere e continuare a vivere senza la vecchia etica, in un vuoto etico, in una transitoria insicurezza, un vuoto ricco di senso da rinominare, dove la verifica valoriale risiede nel presentarsi alla nostra autenticità (tensione alla completezza di sentire e pensare, che non è unione dei due, ma dialogo in riferimento all’essere non più neutro, alla presenza) di un reale sempre inatteso, oltre la cieca ripetizione. Questo è possibile solo in presenza del lavoro del simbolico, come dice Muraro, che viene prima di ogni etica, di ogni giudizio; purché si tratti di un simbolico non convenzionale ma modificabile dalla presenza e manifestazione di altri ordini, meno rigido e più creativo, aperto.

Rimanendo nella dimensione etica come luogo del manifestarsi evidente di un disagio esistenziale alla ricerca di punti e centri di orientamento, la differenza sessuale si pone come linea di demarcazione, certamente non rigida, che separa un essere neutro alla ricerca continua di un dover essere, da “un” essere sessuato che, come tale, non esiste, manifestando solo un disagio dell’essere, sintomo della presenza di “altro”. Soltanto il fluire del continuum simbolico è il luogo possibile del concretarsi di punti di osservazione eccentrici; di emergenze narranti; di attimi di visibilità baluginanti, punti di attrazione intrisi della debolezza che è intelaiatura del costruirsi del comune racconto, del suo fluire. Neutro? Certamente no, se passa attraverso la carne e le parole di donne e uomini, non solo sopra o sotto le loro esistenze. Sofferenza e guerra sono l’esito della neutralità dell’essere che non si incarna mai, impedendo ogni discorso fatto a partire veramente da sé, dove il sé è la manifestazione del desiderio vivente, l’articolazione del trascendentale sensibile. L’altro/altra non è mai altro, ma soffre e muore, nasce e vive, pensa e parla; non può essere consegnato/a ad una invisibilità che si fa invivibilità; ma non si può non vivere, ecco allora una vita altra, erosiva e premente, fatta di gesti, parole e sentimenti annuncianti una empatia fatta anche di distanze e spaesamento, di tuffi nelle profondità di sensi dell’esistenza originali dove l’incontro è possibile.

“Liberarsi per la donna non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo perché è invivibile (la sottolineatura è mia), ma esprimere il suo senso dell’esistenza.”[6]

 

[1]              Maria Zambrano, Chiari del bosco, traduzione di Carlo Ferrucci, Feltrinelli, Milano, 1991, pag. 88.

[2]              Luisa Muraro, Lingua corrente, in Via Dogana n. 67, dicembre 2003, pag. 4.

[3]              Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma, 1991.

[4]              Luce Irigaray, Etica della differenza sessuale, traduzione di Luisa Muraro e Antonella Leoni, Feltrinelli, Milano, 1985.

[5]              Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, cit., pag.31.

[6]              Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Scritti di rivolta femminile, Milano, 1974, pag. 11.