diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 5 - 2006

Il Taglio del Conflitto

Il pensiero dell’esperienza

Dal 31 agosto al 3 settembre 2006, a Roma, presso l’Università degli studi Roma Tre, si è celebrato il XII Simposio della IAPh, Società internazionale delle filosofe, tema generale: Il pensiero dell’esperienza. Il Simposio si é aperto con tre relazioni, di Francoise Collin, di Angela Ales Bello e di Luisa Muraro, qui riprodotta.

 

Un ostacolo che trovo da alcuni anni nel lavoro filosofico (e dunque nell’essere qui) é costituito dalla tesi tipica di un certo poststrutturalismo, secondo cui “donna” e “donne” sono parole il cui significato appartiene alla cultura patriarcale e sarebbe di conseguenza effetto e tramite del dominio sessista. Mi sembra un nuovo tipo di cancellazione delle donne. Nel patriarcato, per avere esistenza, dovevo conformarmi ad un’immagine accettabile dalla società degli uomini, mentre ora sembra che, per disfare il patriarcato, io debba mettere fra parentesi il nome che do alla mia umanità, che é donna.

E’ paradossale, perché il mio interesse per la filosofia é nato nell’atto stesso in cui ho potuto dire che io sono una donna al mio maestro di filosofia. Lo ho già raccontato: erano i primi anni Settanta e un giorno lui mi disse: “Luisa, perché vai con le femministe? tu sei homo“. E appena lo disse, fu chiaro a entrambi che questo nome latino era puramente convenzionale, un abito che mi aveva messo con le migliori intenzioni, e che io in realtà ero quella che ero, nel suo come nel mio sentire, una donna. Dico “in realtà” non nel senso del realismo naturalistico, che proprio da lui, Gustavo Bontadini, ho imparato a disfare, ma nel senso del rendere conto fedelmente della propria esperienza mettendola in comune con l’altro grazie alla parola.

Se credessi nella dialettica, potrei anche prendere in seria considerazione di negare che “io sono una donna”, per attingere, mediante l’antitesi, un pensiero più ricco e comprensivo di quella che sono. Ma non ci credo, anzi non mi fido: temo che per questa strada si arrivi al femminismo senza donne.

La faccenda é più sofisticata di come la espongo, lo sappiamo, ma ciò non cambia i termini della questione come io me la pongo, ed é che io non intendo scostarmi da quel modo di pensare nel quale le cose semplicemente capitano, le donne ovviamente esistono e io sono una di loro.

Sia chiaro che la mia é una presa di posizione politica, non filosofica. Ci sono contingenze storiche in cui l’agire politico precede: costatarlo e accettarlo, io la considero buona filosofia. Secondo me, c’é una lotta da fare per difendere il linguaggio di tipo realistico contro il senso di irrealtà che minaccia la nostra esperienza. Per inciso, é in questa luce che io vedo l’opera di Iris Murdoch, sia filosofica (Existentialists and Mystics. Writings on Philosophy and Literature) sia letteraria. Sul tema del senso di irrealtà che incombe sulla nostra esperienza, si é scritto molto e non mi soffermo, basti un cenno. Consideriamo i ragionamenti con cui i politici europei, sui quali pesa l’eredità di due guerre mondiali con quello che c’é stato di mezzo, giustificano i sempre più facili bombardamenti contro la popolazione civile, dal 1999 in avanti. S’indovina che la loro mente é spopolata di esseri viventi e ragiona come se le case e le città fossero a loro volta spopolate.

Mi si può obiettare che io sto confondendo la postmodernità distruttiva (la guerra) con le decostruzioni operate da un certo pensiero critico. Rispondo che non faccio una totale confusione ma una parziale sovrapposizione, sì. Parlando in maniera figurata, nella mia veduta il pensiero critico della postmodernità “tiene compagnia” ai profondi cambiamenti della civiltà in corso, con tutto quello che questi hanno di distruttivo (salto le analisi storiche che pure sarebbero necessarie), cercando di portare in essi la luce della consapevolezza. E in questa grande vicinanza quel pensiero resta fatalmente contaminato, come capitava una volta ai direttori dei manicomi, quelli bravi, che diventavano a loro volta un po’ pazzi.

 

Invitata a discutere sulla tesi postmoderna dell’inesistenza simbolica delle donne, in passato ho detto che mi sembra una manifestazione di hybris filosofica, ossia una specie di disprezzo verso il senso comune, cosa che i grandi filosofi hanno sempre saputo evitare. Non dunque un conflitto con il senso comune, che potrebbe essere fecondo, ma uno di quei casi in cui il pensiero ragionante non trova la sua misura e diventa pensiero futile.

Ma questo argomento, anche se valido, non va oltre le esigenze di una polemica difensiva. Io stessa non credo che si tratti solo di un abuso filosofico. La cancellazione simbolica delle donne si manifesta anche nella lingua corrente. Mi riferisco in particolare all’Italia, dove, in contrasto con le forme proprie della nostra lingua, si sta diffondendo l’uso di lasciare cadere il genere grammaticale femminile per nomi di cariche e professioni, come avvocata, ministra, sindaca, o, in alternativa, si coniano forme femminili scorrette, come vigilessa, presidentessa. Ci sono donne che sembrano temere il ridicolo del genere femminile, ci sono uomini che non si danno la pena d’imparare le sue forme corrette. I tentativi di arrestare questa deriva verso l’indifferenziato, finora non hanno dato risultati. Il fenomeno in sé potrebbe sembrare di poco conto se confrontato alla guerra o altre distruzioni, come le violenze familiari su donne e bambini, o come le nuove forme di prostituzione. Non lo é invece, di poco conto, perché quello che é pensiero e linguaggio entra in circolo con il reale, come sua interpretazione (perché ricordiamolo, non c’é una realtà in sé, separata e indipendente dal pensiero, ma una realtà che si mostra e si dà da conoscere secondo le mediazioni che trova). Giustamente, secondo me, la scrittrice Clara Sereni, sul quotidiano L’unità, ha creduto di poter stabilire un rapporto diretto tra i titoli al neutromaschile di cui si rivestono le donne che fanno carriera, e le violenze domestiche patite da altre, anonime.

Il problema diventa allora quello di trovare il punto d’arresto, per impedire che la critica risulti un pensare futile e che il campo sia tutto occupato dalla distruzione reale. Io ora sosterrò che questo punto d’arresto é stato trovato dalla pratica politica delle donne di raccontare l’esperienza, e si trova nel fare riferimento all’esperienza con il sentimento e la fiducia di poterla interpretare da sé e di farne così il mondo comune di un’esperienza personale. Aggiungo, senza potermi soffermare, che questa capacità di trovare il punto d’arresto del disfieri, é collegata ad un pensare che non é mai solo ragionante (vigile) ma sempre anche senziente (dormiente), pena la sua insania, secondo una veduta che mi ha ispirato la lettura di W. R. Bion, Learning from Experience.

Il mio argomento consisterà nella lettura e commento di un breve testo, l’ultimo capoverso di un noto saggio di Joan W. Scott, The Evidence of Experience (“Critical Inquiry” 17 (Summer 1991), pp. 773-797), che in italiano si traduce con La prova dell’esperienza, senza escludere l’evidenza, stante la polisemia dell’inglese “evidence”.

Dopo aver analizzato criticamente l’uso della nozione di esperienza, l’autrice, respingendo la conclusione ovvia, scrive: “Non possiamo fare a meno della parola esperienza, pretendere la sua espulsione sarebbe futile” (io sottolineo). Porta poi delle ragioni, ma prima va sottolineata questa schivata [dodge] finale rispetto alla fila di argomenti critici che lei stessa aveva portato, tutti tipicamente strutturalisti (e in parte condivisi da me). Vediamo le ragioni per cui si arresta davanti alla conclusione che sembrava logica di eliminare l’esperienza. Questa parola, scrive, é intrecciata con il linguaggio quotidiano, é incastrata nelle nostre narrazioni, ci serve per parlare di quello che accade. Serve (e qui c’é un richiamo alla pratica femminista) a “reclamare una conoscenza inoppugnabile (unassailable)”, citando da un typescript intitolato Experience, Difference and Dominance in the Writings of Women History di Ruth Roach Pierson.

Implicitamente, qui si pone la questione se questo reclamare una conoscenza inoppugnabile in nome dell’esperienza, sia una pretesa vana o fondata e valida. La risposta di Joan Scott, poste alcune condizioni che qui non esamino, é positiva, si tratta di una pretesa valida, e l’argomento che porta é filosofico, scientifico e politico insieme. Cito: “L’esperienza é sempre, al tempo stesso, già un’interpretazione e qualcosa che ha bisogno di essere interpretato” (“Experience is at once always already an interpretation and something that needs to be interpreted”, Summer 1991, Critical Inquiry, p. 797).

Alla luce di questa nozione di esperienza, il pensiero dell’esperienza é quel pensiero (non necessariamente filosofico, come si é giustamente detto) che s’innesta fra il già interpretato e il non ancora, in un intervallo che é inesauribile (at once always). Sempre già interpretata, l’esperienza domanda sempre di essere interpretata. Non si tratta di un infinito scorrere del tempo dal futuro al passato (come può far credere quel “sempre” inteso storicisticamente) ma di un rilancio qui e ora, il cui movente é la domanda di senso.

Domanda che spesso é non udibile o non sostenibile, purtroppo. Spesso il già interpretato satura di sè il non ancora. Spesso, il soggetto che cerca esistenza, soccombe al già pensato dell’altro. Perciò, quell’innesto del pensiero che dicevo, comporta, spesso o sempre, una vera e propria rottura in una sequenza che di suo andrebbe avanti senza discontinuità dal già interpretato al non ancora, saturandolo e tacitando il soggetto. E’ una caratteristica di tutto quello che é organizzato in funzione di un voler durare; potremmo etichettarla come maternalismo del potere. Una rottura, dunque, rispetto a quello che pretende di essere l’interpretazione giusta, e anche rispetto ai dispositivi simbolici e materiali della “giusta interpretazione”. Lo strutturalismo, per esempio un Michel Foucault, é andato molto a fondo nell’analisi di questi dispositivi. Troppo, mi viene da dire, nel senso che é andato così avanti da rendere impensabile l’accadimento di un pensiero nuovo. Da questo punto di vista, trovo notevole la schivata di Joan Scott, nell’ultimo capoverso di The Evidence of Experience. Ha saputo trovare il punto di arresto della decostruzione che altrimenti rischia di confondersi con la distruzione.

Per finire, torno sul reclamo ad una conoscenza inoppugnabile fatto in nome dell’esperienza. Esso é valido e fondato nonostante che non si dia conoscenza di valore assoluto. Il reclamo ha valore assoluto, glielo dà l’esperienza che domanda di essere significata non da una macchina simbolica già predisposta ma da un vivente senziente parlante. L’esperienza non fornisce prove, la sua evidenza non é una prova. Essa semplicemente chiama il soggetto, diciamo pure che lo fa nascere, lo chiama alla presa di parola e lo sostiene nella sua pretesa di dire qualcosa di vero. E non é un soggetto neutro o neutrale, é un vivente che, grazie al linguaggio, insieme ad altre, altri, rende conto di ciò che a lui, a lei si manifesta.