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per amore del mondo Numero 8 - 2009

Il Punto di Leva

Il passaggio in ombra. Note a margine della depressione che si muta in altro.

Il passaggio in ombra

Note a margine della depressione che si muta in altro.

 

“Qualunque realtà implica, di per se stessa, un limite. Solo ciò che non esiste del tutto non è mai limitabile.”

Simone Weil                                                                     

                                                                                      

  1. Umani barometri nel deserto del reale

 

Non è mia intenzione assumere uno sguardo scientifico sulla depressione, analizzandone i sintomi, presupponendo le cause, proponendo cure. Non posseggo le dovute conoscenze, ma, soprattutto, non è ciò che mi interessa fare nello spazio di questo articolo.

Consultando una qualsiasi delle enciclopedie mediche e non, in circolazione per casa, leggo le definizioni che vengono date a questo, chiamiamolo così per ora, stato dell’animo umano; e mi trovo subito a disagio sentendo come e quanto molte delle definizioni mi risultino riduttive e spicciole. Percepisco quanto venga lasciato in disparte in ciò che stringatamente viene definito come: “stato di tristezza o abbassamento dell’umore”, oppure come “fasi alternate di tristezza ed euforia”, o ancora, come “prostrazione fisica immotivata.”

Vengo però prontamente incuriosita dalla definizione meteorologica che della depressione dice: “Regione in cui la pressione barometrica è inferiore a quella delle regioni circostanti.” Penso alla parola depressione e noto che il “de” privativo posto prima della parola “pressione” assume per me un senso centrale e inaspettato. Rifletto su una delle principali ragioni che mi spinge a scrivere questo articolo: la triste constatazione pienamente sentita che nel posto in cui vivo (Verona, Italia, inizio 2009) è da un po’ di tempo che, sia a livello individuale che a livello collettivo, c’è una sensazione di pressione portata all’estremo, e, giorno per giorno, si intercorrono notizie su una crisi che non si comprende molto bene quando, come e dove sia iniziata e come e quando finirà. Sono anche pienamente consapevole del fatto che parole come crisi e depressione siano usate, ancor più in questi mesi che seguono il crollo finanziario mondiale, spesso in maniera ridondante se non propagandistica, per creare altrettanto malcontento generale e per ingrandire i bacini delle nostre paure da “stato d’emergenza continuo” create dalla retorica spiazzante del potere dei nostri giorni. Non vorrei perciò risultare riduttiva e sminuire o semplificare ciò che molte persone vivono con tanta difficoltà e sofferenza.

 

Cercherò allora di porre delle piccole note a margine di questo fenomeno, provando ad interrogarmi sulle ragioni del malessere e cercando di scovare dei punti di leva, che mi aiutino a portare respiro e forza politica fra le maglie di uno stato d’essere che spesso, essendo visto all’apparenza come improduttivo e scomodo, viene lasciato al silenzio e al dolore vissuto delle nostre solitudini.

E mi convinco che quel “de” privativo posto all’inizio della parola depressione sia lì a segnalare velatamente come alcune fra le sue più chiare espressioni siano il non-volere, il non-sentire, il non-desiderare; e che questa diminuzione in ognuno di noi richiami un tentativo umanamente animale di fuggire ad un troppo che non sappiamo più sostenere, all’interno del quale non sappiamo più come muoverci, nel quale non troviamo più possibilità di respiro.

Penso ancora alla definizione meteorologica di depressione e noto che queste regioni a pressione minore attirano su di sé tutta l’alta pressione circolante nell’atmosfera attorno. Ciò mi riporta alla sensazione dello stato depressivo come ad una falla, a qualcosa che si è rotto, inceppato. Ad una frana o smottamento dentro la materialità incarnata del nostro sentire, che, producendo un dislivello, un vuoto, attira su di sé altri eventi ed energie circolanti pur non desiderandole affatto; alle volte risucchiandole in un oblio apparentemente senza fondo e fine, altre volte, o forse allo stesso tempo, segnalando un bacino grande di ricchezza e molteplicità in ognuno di noi.

Insomma, la percezione è che in fondo si cerchi, più inconsapevolmente che consapevolmente, di togliere pressione, dolore, tristezza, insensatezza a ciò che ci angustia attraverso un baratro inverso che è meno vita, manifestando un particolarissimo meccanismo di ribaltamento il quale mi ricorda tanto ciò che fanno quegli animali che, per paura di essere predati, si fingono morti alla perfezione.

 

Alberto Moravia, all’interno del Prologo del suo conosciuto romanzo, descrive La Noia come una specie di insufficienza, di inadeguatezza o scarsità della realtà.[1] All’interno del libro la noia si configura come incomunicabilità, mancanza di rapporti con le cose, con gli altri e con se stessi; come incapacità di uscire fuori di sé e allo stesso tempo come consapevolezza teorica che saremmo capaci di uscire da noi stesse/i. L’autore racconta molto bene quanto in questo stato niente appaia degno di essere fatto, e come allo stesso tempo si viva una impazienza straordinaria, dove non si desidera fare assolutamente niente pur desiderando fortemente fare qualcosa, soprattutto qualcosa che ci faccia uscire dallo stallo.

Senza perdere il senso topologico della parola de-pressione sviluppato poco sopra, si potrebbe quindi sostenere che nei periodi o nei momenti più bassi della de-pressione si possono incontrare spiagge di noia. In effetti le considerazioni di Moravia si avvicinano molto a caratteristiche che attribuisco allo stato depressivo: l’incapacità di sentirsi in relazione con ciò che è fuori di noi, la sensazione di perdita di vitalità, non solo in noi stesse/i ma anche in ciò che ci circonda. Da cui deriva un impossibile contatto o presa del mondo su di noi. L’incomunicabilità che ci sprofonda in una sensazione di solitudine immensa, sofferta ancor più in quei momenti nei quali si vorrebbe uscire da sé, ma non si riesce. Da qui la continua sensazione dell’impellenza e necessità di un evento, di un qualcosa che arrivi da fuori a ricucire le maglie che si sono rotte dentro di noi. La sensazione che per quanto si provi, estenuati/e, a camminare, l’oasi, la terra rivitalizzante del sereno lasciarsi riposare, sia sempre più in là, come un miraggio. Tanto che, alle volte, per descrivere la propria condizione con una metafora, la si indica come qualcosa di simile ad un deserto.[2] In cui si è persi, e in cui pian piano si perde anche la voglia di bere.

 

  1. Elementi della crisi

 

Dopo aver inquadrato a mio modo lo stato depressivo, andrò ora ad interrogare alcune fra le possibili ragioni che credo abbiano contribuito a determinare la diffusione di questo fenomeno.

La sensazione stridente è che ciò che una volta veniva vissuto e accettato come ricchezza, molteplicità e complessità del vivere quotidiano appaia oggi come un peso che non siamo più capaci di sostenere. La vita contemporanea in effetti richiede al cittadino/a medio, di essere: efficiente sul lavoro, di essere in salute, di essere bello/a e possibilmente ricco/a. In altre parole, quella che al tempo dei nostri nonni e delle nostre nonne (forse ancora in parte al tempo dei nostri padri e delle nostre madri) era considerata necessaria misura nel e del vivere, sembra essere stata sostituita nell’uomo contemporaneo da uno schiacciante e onnipresente imperativo di riuscita “a tutti i costi.”

Importante delineare quindi come la crisi individuale appaia essere inscritta e creata da un cambiamento e da una crisi ad un livello più generale. Il fenomeno ci interroga in tale maniera che tuttora molti fra filosofi, sociologi ed antropologi, cercano di riflettere sulla questione, e sulla domanda centrale di che cosa sia effettivamente questa crisi, da che cosa sia stata prodotta. A questo proposito Miguel Benasayag e Gérard Schmit, all’interno del testo L’epoca delle passioni tristi[3], scrivono: “[…] proviamo a focalizzare l’attenzione su un tema che ci sembra centrale e che consente immediatamente di comprendere questa crisi dell’interiorità originata dall’esterno: il modo in cui l’uomo d’oggi vive e percepisce il tempo, il suo tempo. Tale percezione è profondamente segnata da quello che potremmo definire cambiamento di segno nel futuro. Il futuro cambia segno? Più che un’astrazione sembra un’assurdità. E tuttavia non lo è. Assistiamo, nella civiltà occidentale contemporanea, al passaggio da una fiducia smisurata a una diffidenza altrettanto estrema nei confronti del futuro.”[4] L’epoca moderna della civiltà occidentale è stata vissuta all’insegna di una speranza e di una fiducia indubitabili nei confronti dei poteri della ragione e della scienza, indicando un futuro carico di promesse di cambiamento in positivo, al punto da definirlo messianico.[5] Ma col passare del tempo la fiducia ottocentesca nel dominio della ragione sugli eventi del mondo si è incrinata, e si è iniziato a constatare come la nostra conoscenza tecnica e scientifica non fosse in grado di spiegare alcune delle più grandi questioni della vita. Sappiamo infatti cosa abbia significato il ‘900 in termini di disgregazione sociale (ci basti ad esempio pensare a quelli che sono stati poi chiamati “costi umani” dei conflitti mondiali) e di perdita delle certezze, ed è indiscutibilmente evidente il carattere ansiogeno che appartiene ora al nostro quotidiano, dove si vive un profondo senso di insicurezza, di precarietà, il quale spesso produce anche violenti passaggi all’atto, sugli altri, vicini o lontani, ma anche, ed è il tema di questo articolo, su di sé.

In altre parole questa ideologia della crisi, questa concezione del futuro come un dominio che non ci appartiene, del quale non riusciamo ad intravedere margini, ampiezze e possibilità, è andata a sostituire l’indubitabile fede nell’uso della “ratio” positivista (la quale si era costituita come capacità di dominio e possesso dell’uomo sul mondo, sul tempo, sul corpo umano, sulla natura), ma non ha creato alcuna cosmogonia, anzi, come sottolineano Benasayag e Schmit “oggi, la sconfitta dell’ottimismo ci lascia non solo senza promesse future ma, peggio ancora, con il sentimento, che perfino -evitare l’infelicità- sia un compito troppo arduo per i nostri contemporanei.”[6]

 

La mancata realizzazione di questo sogno messianico ci ha gettati in un mondo all’interno del quale il futuro che ci rappresentiamo appare sempre più incerto, ma, come chiarificano i due autori all’interno del loro testo[7], questo fatto non dovrebbe determinare una conseguente caduta della ragione, il crollo della razionalità, quanto piuttosto potrebbe delineare l’apertura della ragione ad usi e domini diversi e molteplici.

La sensazione di diffusa incertezza è stata invece ampiamente manipolata allo scopo di creare un apparente stato di emergenza continua. Manipolazione istituita dai poteri ufficiali attraverso i mass media, che si avvale di una disarmante retorica la quale narra delle nostre vite come se fossero delle entità costantemente sotto assedio. Sembra quasi siano vissute da altri le nostre vite, da quanto sono “narrate” da altri. Da quanto sembrano costituire numero e cifra per arricchire il punto di vista sul mondo pre-scritto e definito nei minimi termini, fin dentro la materialità dei nostri corpi e fino ai confini dei sensi e dei significati che vorremmo noi, e che saremo in ogni caso chiamati noi a dare alla nostra vita. Vite comuni, “l’uomo e la donna comune”, vengono così chiamati. Vite narrate da altri; questi altri che non sanno mai, e mai sapranno, in realtà della nostra differenza, della nostra muta lotta interiore, del nostro costante (fantasioso e paradossale) divenire e differire da noi stesse/i.

Narrazione all’interno della quale pare che un nemico debba esserci sempre anche se, come per la crisi, non si sa poi tanto bene dove sia e chi sia questo nemico. E se, ad esempio solo per oggi, il nostro nemico non è ciò che è estraneo, ciò che è portatore di valori e strumenti culturali differenti da quelli della cultura occidentale (sia ben inteso, quella dominante), nostro nemico acerrimo sarà allora il clima, l’invecchiamento, la malattia o la povertà.

 

Ogni paura può essere facilmente assorbita all’interno della retorica da stato d’emergenza continuo, ciò provoca però una triste conseguenza: un impressionante impoverimento delle nostre capacità di desiderio e di uso della ragione, delle nostre facoltà di pensiero come delle nostre capacità immaginative. Si potrebbe sostenere che, con la vittoria assoluta dell’individualismo neoliberista e con la sola sostituzione dell’utilitarismo mercantile all’ideologia che aveva caratterizzato l’età moderna, il potere sia diventato una sorta di significante universale tanto quanto “l’economicismo è diventato, nel mondo odierno, una specie di seconda natura.”[8]

Si vive il disincanto del mondo in una sorta di presente perpetuale, estremamente polarizzato, dove si teme il futuro e dove pare si sia persa la consapevolezza civile e storica del passato, del quale non si assume dentro di sé memoria. Come sostiene infatti Raoul Vaneigem: “nell’impero dell’economicismo sopravvivere è, allo stesso tempo, condizione necessaria e sufficiente.”[9]

E’ chiaro quindi come il principale pericolo presente, più che l’imminente avvento di una calamità naturale o artificiale di sorta, sia piuttosto l’espansione di un conformante, povero, pensiero unico.

 

Ma ciò che vale per il pensiero non è certo simmetrico rispetto a quanto accade nella nostre interiorità. Sembra infatti che nell’inconscio collettivo si sia insinuata una sorta di incrinatura grazie alla quale lo stato d’assedio della politica dell’emergenza toglie forza e diritto al semplice atto di pensare. E dove, per continuare a condurre quella che al telegiornale delle 20:00 viene descritta come “una vita all’insegna della normalità”, dai vicini più o meno autenticamente esterrefatti per l’ennesimo fatto tragico di violenza nella casa accanto alla loro, si attua il meccanismo di dissociare ciò che costantemente si vede nei media da quello che si vive nella nostra realtà quotidiana. Proprio fino al punto che poi risulta difficile riconoscere all’interno delle nostre strade, delle nostre case i segni inconfutabili della tristezza e della crisi.

 

E in effetti: come “de-costruire la fabbrica quotidiana della paura e dell’emergenza”[10] quando una delle caratteristiche stesse dello stato depressivo è proprio quella di sentire il futuro come una terra oscura, è quella di sentire di non avere più tempo e spazio? Uno spazio paradossale per giunta: dove tutto appare a nostra disposizione grazie alla velocità dei trasporti e delle comunicazioni, dove sembra impossibile non essere informati, ma dove niente sembra valer la pena di essere vissuto in profondità, e dove ogni tanto ci assale il dubbio di non conoscere nulla in maniera esaustiva ed arricchente.

Come rifiutare l’ingiunzione alla positivizzazione continua delle nostre vite, come spezzare quell’automatismo che ci vorrebbe sempre pronti, capaci, all’altezza di ogni situazione, quando neghiamo costantemente le nostre fragilità essenziali? Come evitare la burocratizzazione dei comportamenti, la delega al legalismo, l’inasprirsi della violenza? In un momento storico all’interno del quale sembra poi che la sopravvivenza sia il valore e non la vita, e dove ci siamo creati attorno tutta una struttura di sicurezza sulla vita, che però deprime e anestetizza le nostre stesse capacità di desiderare con forza una modalità di vivere che rispetti la nostra insostituibile, variegata differenza, le nostre singolari storie ed esperienze.

 

Come scrive Enrico Euli all’interno del suo testo Casca il mondo! Giocare con la catastrofe. Una nuova pedagogia del cambiamento[11], sarebbe forse interessante iniziare a chiedersi da quale depressione in noi fuggiamo quando giudichiamo e pretendiamo di tenere a distanza ciò che ci fa paura o che ci interroga. Sarebbe essenziale anche iniziare a pensare che stare in una posizione depressiva senza nullificarsi o aggredire potrebbe rappresentare un passaggio di civiltà grandissimo.

 

  1. Passaggio in ombra

 

“Saper vedere ciò che cova nelle pieghe del reale

significa anche aiutare questo implicito ad uscire fuori.”

Ida Dominijanni

 

Quando mi trovo a prendere atto della distruzione delle certezze che appartiene al XX secolo come dato di fatto, non voglio certo sminuire quella che è stata la creazione intellettuale, scientifica, tecnica ed artistica di un secolo che, per quanto difficile e tragico, è stato estremamente attivo e ricco di innovazione, nel quale ho vissuto parte importante della mia vita, e del quale io stessa mi sono indubbiamente nutrita. La mia constatazione di questo carattere “disgregativo” del ‘900 è però legata alla sensazione che forse tutto questo lavoro di sminuzzamento e di entrata in crisi rispetto a valori e certezze del secolo passato potesse segnalare ed essere preludio di un cambiamento sostanziale: un rafforzamento dell’essere umano. E non nel senso di un rifiuto delle proprie fragilità, certo che no; anzi proprio nel senso di una più ampia assunzione dei propri limiti e delle proprie fragilità come delle proprie forze e potenzialità costitutive.[12]

Sono consapevole che questo punto è indiscutibilmente arduo da sostenere anche perché gli effetti dei cambiamenti a livello sociale e di concezione del mondo e della vita del secolo passato li stiamo ancora vivendo letteralmente “sulla nostra pelle.” E in questo articolo sto proprio dicendo che noi ne sappiamo certamente qualcosa, e molto, molto di più di quanto riusciamo anche a parole a dire o a sostenere.

 

Allo stesso tempo vorrei provare a fare un piccolo esperimento in cui metto fra parentesi alcune parti di me. E precisamente quelle posizioni più pessimiste o più tristemente ciniche che mi parlano semplicemente di non-senso della vita umana e che inquadrano l’essere umano come un essere essenzialmente gregario e incapace di imparare dai propri sbagli. Vorrei provare ad allontanarmi per un attimo da quella che è indiscutibilmente una tentazione per spiegare la realtà critica che ci troviamo a vivere nei nostri giorni. Faccio il mio piccolo esperimento. Il quale, sia ben chiaro, non toglie la mia consapevolezza della discontinuità della storia, che, per sua stessa necessità di essere narrata, si espone in qualche modo ogni volta “nuda” a voci che sono tutte relative; e che ci chiede sempre, sempre di stare dalla parte del testimone, ancor più di quelli taciti.

Vorrei pensare nel mio esperimento all’avanzare del tempo, a questo susseguirsi di destini, di storie narrate e non. Pensare che per quanto non certo lineare, per quanto ciclica, ripetitiva e innovativa per piccoli scarti, questa contraffazione di ricordi su un punto di vista costitutivamente limitato che chiamiamo storia, possa essere anche un cammino. In questa posizione arrivo ad intravedere come di sicuro il ‘900 sia stato un secolo all’insegna della perdita di certezze, soprattutto a livello idealistico. Ma credo che questo grandissimo lavoro non sia stato ancora seguito da una epoca “più umana”, “più terrestre.”

E che forse l’essere umano per rafforzarsi, per divenire cioè in qualche modo completamente umano, debba ancora passare all’interno di un periodo vissuto all’insegna di una disgregazione e di un vuoto più interiori. Un vuoto che chiami in causa, ponga in questione e porti ad estrema stridenza le contraddizioni legate al nostro attaccamento ai bisogni elementari, alle nostre paure e fragilità essenziali, come anche alle nostre pretese di forza. Che ci ponga soprattutto di fronte al risvolto che la violenza esteriore produce come sofferenza e insensatezza all’interno delle nostre vite private. Sto cercando in sostanza di dire che, in un periodo all’interno del quale ci si continua ad arrovellare sulla perdita degli ideali novecenteschi, ma all’interno del quale non siamo ancora capaci di affermarne (ma soprattutto di incarnarne) di nuovi, io ho sempre più l’immagine metaforica di essere noi presi come all’interno di un grande stomaco. E di come questo forse sia un passaggio (epocale?) necessario.

 

Ecco allora il nucleo e la questione centrale di questo articolo: se c’è questa incrinatura all’interno del nostro sentire, se il nemico interiore[13] è un rapporto che ci lega, che ci tiene anestetizzati in una sofferenza muta, questa ferita non può più rimanere inascoltata.

Che cosa è, in altre parole, tutto questo malessere che stride e che ci chiama alla messa in comune per poter trovare la forza di dirsi? Come digerire, consumare, distillare le nostre frustrazioni, le contraddizioni che giorno per giorno i nostri corpi e le nostre menti segnalano con sintomi tanto vari quanto insistenti?

E’ politicamente ed esistenzialmente necessario chiedersi come sono gestiti i nostri corpi, come e fino a che punto le nostre capacità di desiderio, di pensiero, di parola e di cooperazione risultino indebolite dalla presa annichilente e uniformante del potere dei nostri giorni.

Scrive Tiqqun all’interno di Ecografia di una potenzialità: “La questione epistemologica è qui una questione affettiva che decide del nostro rapporto col mondo; la questione politica è una questione esistenziale che mette in gioco il nostro rapporto col mondo. Lo sciopero umano affronta l’economia mercantile indirettamente: minandone le due basi, l’economia psichica e quella libidinale.”[14]

 

Ed è anche necessario chiedersi in che modo evitare una schizofrenia fra il dentro e il fuori. Come donare forza politica a ciò che viviamo sul piano personale. Come non smettere mai di lasciare la nostra finestra di casa (il televisore non funziona come sostitutivo) aperta sul mondo e, allo stesso tempo, come evitare ed anche lottare contro il potere che attraverso la presa sui nostri corpi e sui nostri desideri arriva a gestire le nostre vite. Esiste quindi una corda invisibile ed oscena fra il nostro dolore privato e taciuto anche con noi stesse/i e il pubblico regime di estenuante affermazione, esposizione, identificazione, rappresentazione. Corda invisibile che forse proprio la nostra sofferenza ci chiama a rompere.

 

Ma è proprio qui che si aprono le più aspre contraddizioni, perché quando in qualche strano vicolo cieco dentro di te una parte di te già sceglie di scollarsi dal tuo potenziale umano, come fare resistenza? E’ adatta questa parola quando si tratta di solitudine interiore, di malanno brutto, di ansia lancinante, di depressione? Per fare resistenza un minimo di forza bisogna averla, e di idee e di passioni condivise. Ma come ho già detto la depressione è una diminuzione della forza personale, una sottrazione di se stessi dolorosissima e alle volte quasi impercettibile. Che lentamente trasforma la nostra sostanza carnale e desiderante, la nostra spinta vitale in una piccola fascia protetta, non detta, tacita, contusa, sconfitta. Comunemente si usa la parola resistenza per indicare che qualcosa ci tiene sotto assedio, sotto attacco, e che io, noi, abbiamo abbastanza forze da opporre alla forza che ci opprime. Come svincolarsi allora da questa idea, visto che molto spesso gli elementi di sofferenza derivano da esperienze e traumi che rimangono per così dire “sottopelle”, impliciti, inconsapevoli? Come fare resistenza se non si riesce a nominare ciò che ci fa soffrire e che ci tiene in stallo? In un angusto carcere dove in più si vive il lancinante senso di colpa del non riuscire a fare niente per trovare la chiave per uscirne, dove continua a riproporsi alle nostre menti il destino tragico di essere le carceriere e i carcerieri di noi stesse/i? Come fare resistenza se il nemico si è interiorizzato e il potere ci tiene in scacco attraverso la presa sui nostri desideri e sulle nostre menti, se il biopotere funziona precisamente attraverso la presa inconsapevole sui corpi che gestisce?[15]

 

Leggendo Il piccolo libro dell’ombra[16] di Robert Bly si comprende come l’immagine dell’ombra spieghi in maniera estremamente efficace cos’è e come funziona l’inconscio.

L’ombra è una sorta di personificazione di quelle caratteristiche, eventi, aspetti, che una persona rifiuta consciamente, ma che inconsciamente possiede; i quali, anche se si temono, possono essere affrontati per poter comprendere in maniera più profonda se stessi/e: “un individuo, una società che rifiuta ogni momento di depressione e riconosce come positiva solo la posizione euforica […], si colloca sui toni della mania. E proietta sugli altri la gigantesca ombra costituita da tutta l’oscurità, il lutto, la fatica, il dolore che non ha voluto riconoscere in se stessa.”[17]

 

L’assunto centrale di Robert Bly è infatti questo: per integrare l’ombra nella personalità bisogna accettare di vivere la depressione. Secondo Bly “mangiare l’ombra” significa esattamente iniziare a svuotare quel “sacco” che ci teniamo dentro, che ci è dato dalla cultura all’interno della quale siamo nati, dall’educazione ricevuta, da tutto l’insieme, anche dolorosissimo, degli eventi e delle relazioni della nostra vita. Fatto necessario è che ciò che è implicito appaia in qualche modo fuori di noi per essere poi riconosciuto. La nostra psiche, spiega Bly è infatti “un naturale proiettore cinematografico: le immagini che abbiamo arrotolato dentro un contenitore le manifestiamo all’esterno e le proiettiamo per altri o su altri.”[18] Ma prima o poi le proiezioni così rassicuranti che gettiamo nel mondo incominciano a vacillare e in qualche modo iniziamo a sentirci minacciati: “La moglie porta su di sé la strega del marito, ma non si comporta sempre come tale; il marito porta su di sé il patriarca negativo della moglie, ma non si comporta sempre come un patriarca […].”[19] La persona che si sente minacciata inizia a mettere in gioco la propria intelligenza morale per far tacere il rumore fastidioso degli elementi che non combaciano e cerca per così dire di “rimettere a posto la maschera.” E’ inevitabile però che ad un certo punto questa lotta per far combaciare la maschera sul volto di un’altra persona (o di una categoria lavorativa, o di un’altra nazione ad esempio) si blocchi. In quel momento ci rivolgiamo a noi stesse/i in maniera nuova: “guardiamo dentro noi stessi e vediamo la nostra diminuzione, ci accorgiamo di esserci rimpiccioliti per anni.”[20]

Ed è così che secondo Bly “[…] quando incominciamo a riprenderci l’autorità rifiutata o proiettata e a mangiarla, Saturno fa la sua comparsa: le nostre passioni si fanno più profonde e la malinconia, che è sempre un segno di Saturno e del recupero dell’Ombra, apporta allo spirito la sua sofferenza e la sua apertura. Entriamo in contatto con i limiti; e i limiti incominciano ad apparirci come una parte di noi stessi e una naturale funzione della vita.”[21]

 

  1. Punti di leva

 “Ci difendiamo da ogni misticismo, e quindi anche da quello del coraggio in sé,

del pensare stoico: ma sappiamo che, alla fine, la serie delle sperimentazioni

risulterà una strada d’amore, amore fisico e sentimentale per i fenomeni del

mondo, e amore intellettuale per il loro spirito, la storia: che ci farà sempre

essere con sentimento, al punto in cui il mondo si rinnova.”

                                                                                                                                                             P.P.Pasolini

 

 

La forza da scovare è all’interno di ciò che è stato ammutolito, forzato al silenzio. La forza da scovare è all’interno di ciò che non torna, che fa resto.

 

Viviamo in una società dove ogni paradosso, insicurezza, incertezza è percepito come elemento di disturbo del reale. Il corpo umano, per prima cosa, e specialmente quello di donna. Il nostro corpo paradossale, il nostro corpo che impaurisce ed interroga, il nostro corpo che straborda gli argini del codificabile, che incute timore per la sua potenza incantatoria. Questo corpo che porta inscritto un mistero sapiente all’interno della sua sostanza espressiva, un mistero che parla della bellezza e della singolarità nell’oceano multiforme del vivente, questo corpo che farà per sempre resto, diviene, all’interno della società mercantile di oggi, un genere “di troppo” il quale necessita di essere così freddamente gestito dalla macchina del Biopotere. Risulta ormai estremamente chiaro come questa ignoranza sui e dei nostri corpi in nome dell’economicismo venga riprodotta e propagandata, come il nostro corpo si riduca a “belletto”, a materiale liscio senza forza di cattura alcuna, da tenere giovane e inconsistente per poter vendere il suo valore sul povero mercato degli affetti contemporanei.  Non ci si preoccupa infatti più di tanto delle sofferenze personali che prendono così insistentemente forma nella sofferenza dei nostri corpi “ma solamente del corpo sociale la cui salute viene valutata in termini economici, ovvero di costi sociali.”[22]

 

E se ripartissimo invece dalla inscritta conoscenza e potenza dei corpi, da tutto ciò che in noi è elemento di eccesso o di diminuzione, di disturbo e di sofferenza muta? La depressione che viviamo ci dice del non senso e della complessità del nostro vivere. Si ha paura di questa complessità, si pretende di tenere a bada quel sintomo che ci interpella[23], di zittire la sofferenza o l’ansia che ci prende allo stomaco perché non sappiamo più dire di noi all’altro/a vicino/a. Ma questo “di più”, questo resto che pretendiamo di non vedere e di non sentire, e che spesso non abbiamo nemmeno gli strumenti per riconoscere e nominare, non scompare. Non è che non esiste perché decidiamo più o meno consapevolmente di non prenderlo in considerazione.

 

Quando, nella piccola storia che è arrivata fino a noi, Isaac Newton si trovava sotto ad un albero, ad un certo punto una mela gli cadde sulla testa. Questa mela gli fece scoprire la legge di gravità, la natura del mondo. La mela è il falso frutto che non è colto, che non è stato conforme a delle aspettative di bellezza o di conformità rispetto ad un modello. La mela che non è stata selezionata. E che cade in testa. Diviene per me il punto di leva di un resto che può sorprendere.

 

Partire dal corpo significa però sapere anche che esso sarà sempre troppo pronto ad essere individualizzato, ad essere esposto, a fare della propria differenza insostituibile una merce di scambio. Perché il regno del denaro per il denaro ci sradica, trasforma i nostri corpi in qualcosa di grottesco, separandoci sempre di più dalla nostra sostanza sacra, dal mistero espressivo della nostra continua metamorfosi. Sarebbe invece importante iniziare a svincolare il corpo mannequin dalla sua esposizione, e creare spazi che permettano la messa in comune delle nostre opacità costitutive.  Sarebbe importante ridonare forza a questo inscritto mistero, iniziare a seguire le linee energetiche della nostra metamorfosi, le quali sanno sempre indicare, all’interno del nostro spazio sacro, anche il nostro elemento spirituale.[24]

Se lasciamo che l’unico valore venga assegnato al denaro, l’elemento corporeo diviene per forza di cose grottesco perché si lascia estremamente ridotto il bacino della nostra trasformazione umana, rimane solo ripetizione mortifera, impoverimento di relazione con il reale.

E’ vitale allora iniziare a ricercare e a sentire quei luoghi e quelle situazioni dove il nostro corpo pare disfarsi di sé per andare intenso nella forma danzante della sua trasformazione; dove il nostro corpo prende una consistenza vibrante nella scommessa, nella ricerca paradossale e giocosa di  un’aderenza alla propria forma di vita. Incuriosirsi di questo gioco e di questa lotta, sentire la chiamata di nuovi divenire, appassionarci della nostra relazione incarnata, del nostro corpo a corpo con il reale.

 

Il potere dei nostri giorni si pone come infinito ed assoluto. Proprio per questo siamo chiamati a sapere che ogni realtà che viviamo implica l’esistenza di limiti, e che, come scrive Simone Weil, “solo ciò che non esiste del tutto non è mai limitabile.”[25] Questo diviene per me un altro punto di leva: non vivere le doline ripetitive del già conosciuto di se stessi, riconoscersi come esseri mai completamente costituiti. Vivere come punto di leva il nostro potenziale trasformativo, perché non c’è esistenza che non porti dentro di sé la sua molteplicità e la sua ricchezza, la quale per prima cosa va sentita, nutrita. Vivere il nostro potenziale trasformativo come punto di leva significa anche sapere che non esiste politica se non di un’intensificazione del non ancora formato, del latente, dell’implicito. E’ quindi necessario curare i potenziali impliciti della nostra relazione con il mondo.

 

E se “la molteplicità dell’esistenza, sempre contraddittoria e complessa, precede (senza mai ridursi ad un’etichetta) il sintomo o il carattere unico che, una volta riconosciuto, ridurrebbe a sua volta la persona ad un elemento essenza (“è un’anoressica”, “uno schizofrenico” ecc.)”[26], è importante allora sapere che nell’elemento trasformativo noi saremo sempre di più, sempre altro, rispetto al potere che ci essenzializza, che pretende di rinchiuderci in una gabbia identitaria e identificativa normando la nostra differenza.

 

Come non vivere però un’ingiunzione all’espressione di sé? Come schivare l’ennesima antinomia, l’ennesimo concetto-contenitore vuoto, che ci costituirebbe come cittadini/e (ma anche, ad esempio, come artisti/e) semplicemente sul binomio oppositivo repressione/espressione? Forse esiste una terza possibilità, che significa considerare il nostro materiale implicito per prima cosa onorandolo[27], vivendolo in una modalità che non sia disgregativa per la nostra psiche o aggressiva quando volgiamo, ad esempio la nostra rabbia, fuori di noi.

 

Ci troviamo così di fronte ad un nuovo orizzonte. Come quando aspettiamo di godere il mistero di un’alba nuova avvolgendoci tutti nello spazio vuoto della notte, e sappiamo che accettare limiti può voler dire anche accettare che ci sia qualcosa che ci sfugge, qualcosa che non conosciamo ancora, che non riusciamo ancora a vedere. Nel medesimo istante, accettare che c’è qualcosa che ci sfugge, ci fa affidare alla molteplicità che portiamo dentro di noi, all’irresistibile multiformità del reale: nello spazio sottile che precede l’alba l’orecchio si tende ai rumori e alle voci dentro e fuori di noi…

 

Entrare nel vuoto, accettare che ci sia del vuoto, non pretendere di essere onnipotenti (lasciarsi cadere nelle braccia di Morfeo o affidarsi spiritati all’esperienza dell’alba…) ha voluto dire per me imparare ad affidarmi ad un processo senza sapere necessariamente dove e attraverso quali mezzi ed eventi questo processo mi porterà e come mi trasformerà.[28] Imparare a sbilanciarsi e cadere alle volte, imparare a sbilanciarsi e a dare corpo alla nostra muta sostanza altre volte. Re-imparare ad avere fiducia in qualcosa che non è rappresentabile, per mettere al mondo idee e desideri, per agire il malessere e non esserne schiacciati.

 

Riuscire a stare nella realtà senza assolutizzarla, sapere che c’è sempre dell’altro, può essere quindi un altro punto di leva per svincolarsi dai condizionamenti del potere, rifiutare la sua pretesa all’onnipresenza. E’ un cambiamento di piano e di orizzonte. E’ sapere che c’è sempre un bacino di autonomia dentro di noi che ci può sciogliere dall’abbraccio antinomico dei giudizi di vero e falso, bene e male, è praticare delle forme di conflitto che non ricalchino sistemi autoritari. E’ riuscire a caricare le nostre azioni di forza creativa e simbolica non solo nella nostra sfera individuale, ma in quella personale che è sempre in potenza anche luogo comune di incontro. E’ sapere che il nostro sentire, quando coincide con quello di altre persone, diviene potenza viva che si gioca al di là dei rapporti di forza. Fuori dalla legge e dalla sua trasgressione, sottraendoci ai meccanismi di sterile opposizione che sembrano ingabbiare ogni nostro tentativo di politica in semplice contestazione novecentesca.

 

E’ scoprire sempre e di nuovo che il nostro desiderio non ha autonomia, che il nostro desiderio è questione intimamente relazionale e, se viviamo la necessità di divincolarci dal nostro impoverimento esistenziale, dobbiamo arrivare fin dentro la frontiera incerta del nostro quotidiano e riscoprire che possiamo usare i nostri sentimenti come strumenti di conoscenza di noi stesse/i e del mondo. E’ lottare anche per uscire poi fuori di noi stesse/i, perché il nostro non diventi un indifferente, piccolo, io capovolto, riaprendo per prima cosa spazi di desiderio che ci smobilitino fisicamente e simbolicamente. Dove la nostra coscienza viva degli imprevisti capaci di scardinare i nostri deserti interiori.

 

 

  1. Veronica e l’albero: un divenire terrestre

 

Prendo ora in considerazione il film La doppia vita di Veronica[29], di Krzysztof Kieslowski. Mi riferisco a questa splendida pellicola perché, nell’interpretazione fatta da Iréne Jacob delle due protagoniste, ho trovato un indizio che è diventato una sintesi stupefacente di due posizioni in me coesistenti. Due posizioni solo apparentemente contraddittorie: la capacità di vivere la propria consistenza umana in forma estatica, e quella di riuscire a stare aderente alla sensazione della propria possibilità e della propria impossibilità più intima, percependo i propri limiti.

 

Il film narra di due esistenze: quella di Weronica e quella di Véronique, l’una si svolge a Cracovia e l’altra a Parigi. Le due ragazze sono fisicamente identiche, tutte due sono amanti della musica, tutte due hanno perso la madre in tenera età e hanno vicino a loro un padre presente e amorevole, tutte e due hanno una disfunzione al cuore. Tema principale è quindi quello del doppio, il quale, grazie alla preziosa arte alchemica di Kiesloswki permea completamente la materialità del linguaggio filmico, tutto costruito su giochi di rifrazione e rispecchiamento, dove la luce diviene atomo principale per inseguire le intensità che vivono i corpi delle due protagoniste. Il tessuto della narrazione svela il legame esistente fra le due ragazze in maniera quasi arcana, attraverso piccoli indizi, ma anche attraverso istantanee detonazioni, scintille di senso. All’interno dell’amalgama narrativo si percepisce gradualmente la possibilità di un piano segreto, coesistente al tempo vissuto delle due protagoniste, che le lega dal primo istante della loro vita. Weronica ha spesso una strana sensazione, le sembra di non essere sola al mondo. Vive allo stesso tempo fuori di sé e talmente dentro alle cose che pare una bambina, la quale non si chiede della pioggia mentre sta cantando in un coro all’aperto e assapora le gocce che le cadono sul viso, o mentre per la strada non si cura di evitare le pozze di acqua che intersecano la sua corsa. E’ luminosa, naïf, estremamente bella. Quando canta, vive il suo piacere con un’intensità tale da andare aldilà dell’umano. Corre lei nel film, incurante di quei minuti dove il suo cuore decide di non seguire il ritmo accorato del suo sentire. Vive ed ama, il padre e la zia, la musica e il suo amante. Tocca le cose che ha attorno e si lascia toccare, e mentre canta ad un’audizione, quando il crescendo sta per arrivare al suo culmine, Weronica tira la corda che tiene unito il blocco dei suoi spartiti, incarnando in maniera perfetta il modo in cui vive la portata della sua forza vitale.

All’inizio del film si sente la voce della madre che chiede a Weronica bambina di indicarle le stelle lungo il perimetro nebuloso della volta celeste. E Weronica adulta sembra vivere un’esistenza vicina ai corpi celesti e alle loro rivoluzioni. Desidera nel senso più profondo e, allo stesso tempo, letterale del termine, spostandosi dal suo centro, andando incontro agli eventi, incapace di proteggersi, vivendo il suo tempo in ogni istante presente, aperta, di nuovo, luminosissima. Weronica corre insieme alla sua vita, vive così tanto portata fuori di sé dagli eventi da non sapere bene cosa volere, e sente, in ogni momento, che c’è un di più al quale non sa dare nome.

 

A Parigi, Véronique sente la corda che la lega all’altra tanto da percepire una tristezza profonda quando a Cracovia, Weronica, cantando alcuni versi del secondo canto del Paradiso dantesco muore. Vèronique sa di non poter più continuare la sua carriera di musicista. Si sente di aver perso qualcosa, sente che qualcuno è scomparso dalla sua vita. Nel momento in cui il suo doppio muore avverte un’incrinatura dentro di sé che la chiama sempre più ad un’urgenza di senso.

Un giorno conosce Alexandre Fabbri, il quale, nella scuola dove Véronique insegna musica ai bambini, propone uno spettacolo di marionette. Alexandre mette in scena la storia di una ballerina, che, proprio nel momento in cui spicca un meraviglioso salto, cade a terra morta. Una donna anziana la copre con un lenzuolo. Dal quale la ballerina uscirà come farfalla dal bozzolo.

Véronique abbandona il proprio sé adolescente, e sceglie; nella sua vita all’interno della quale sa, sente sempre cosa deve fare. Fuma sigarette, ma non porta avanti la sua carriera di musicista e tiene sotto controllo il suo cuore. Vive, limitandosi, una continua altalena di momenti nei quali si lascia andare e altri in cui percepisce la necessità di arginarsi e proteggersi.

La madre di Véronique, nella sequenza all’inizio del film, racconta alla sua bambina con voce dolcissima la materialità viva di una foglia in primavera dicendo: “Ecco la prima foglia. E’ primavera e le foglie spuntano su tutti gli alberi. Guarda qui nella parte più chiara ha come delle piccole vene e una delicatissima peluria.” Vèronique ha avuto “per tutta la vita la sensazione di essere qui e altrove”, percepisce l’esistenza dell’altra sé estatica, adolescente (Weronica), tanto da soffrirne intensamente la perdita. Vive un continuo va e vieni fra la propria condizione estatica e quella in cui si limita, in cui, adulta, sceglie per sé. Si innamora del burattinaio e, insieme a lui, scopre, in un rullino di foto scattate durante un viaggio a Cracovia, l’immagine di Weronica. E piange, soffre il momento in cui il segno inconfutabile del suo sentire si trova impresso, indelebile, sulla carta stampata. La sua seconda vita ha inizio, lascia la costellazione che la legava al suo piano arcano, e sceglie. Cosa sceglie? Cosa assume e cosa perde?

 

Nell’ultima sequenza del film, Vèronique va nella stanza dove Alexandre lavora alle sue marionette. E vede la rappresentazione della sua doppia vita, costruita dall’intuito immaginifico del suo amante. Il quale le racconta: “Il 23 novembre 1966 è stato il giorno più importante delle loro vite. È in quel giorno, alle tre del mattino, che sono nate tutte e due, in due città diverse, in due diversi continenti. Tutte e due avevano i capelli neri, occhi verde scuro. Quando tutte e due avevano due anni e sapevano già camminare, una si bruciò toccando il forno. Qualche giorno dopo anche l’altra avvicinò il suo dito al forno, ma all’ultimo momento lo ritirò: pertanto, non poteva sapere che si sarebbe bruciata. Ti piace?”, chiede Alexandre a Vèronique. Ma nella seconda vita di Vèronique non c’è posto per un amore che non la accetti in tutta la sua presenza, non c’è posto per alcuna rappresentazione della sua vita.

Lasciato il suo burattinaio, Vèronique arriva nel giardino di casa del padre, che subito, senza vederla, la percepisce arrivare. Vèronique porge il viso fuori dal finestrino dell’auto, distende il braccio, tocca, con mano, il tronco di un albero centenario. Accetta il fatto di non conoscere fino in fondo i propri limiti e la molteplicità dei suoi piani di esistenza e, allo stesso tempo, assume se stessa fino a dove e come può. Si collega a terra.

 

***

 

 

Vieni.

Guardiamo nello spazio aperto

Cerchiamo ciò che è nostro

Per quanto lontano.

Questo è certo:

al mezzogiorno e fino a mezza la notte

sempre persiste una misura, comune a tutti

ma pure ad ognuno assegnata.

E ognuno va e giunge dove ha potere di giungere…

Dove è il pericolo, infatti, lì cresce anche ciò che salva

                                                                                                               (Friedrich Hölderlin)

 

 

[1]              “Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, come ho detto insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza”, Alberto Moravia, La Noia, 1965, Milano, Bompiani, pp.7-8.

[2]              Nomino e faccio qui riferimento alle preziose riflessioni che Wanda Tommasi ci ha donato nel suo La scrittura del deserto. Malinconia e creatività femminile, 2004, Napoli, Liguori.

[3]              M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, traduzione dal francese di Eleonora Missina, 2004, Milano, Feltrinelli.

[4]              Cfr. ivi, p. 18.

[5]              A pagina 19 del loro testo Benasayag e Schmit scrivono: “Il futuro non era allora nient’altro che la metafora di una promessa messianica. Nelle nostre culture occidentali non era solo il giorno dopo o gli anni a venire…No, quella di essere il proprio messia, il proprio redentore era davvero una promessa che l’umanità aveva fatto a se stessa: così il futuro faceva rima con la promessa, era la promessa.”

[6]              Cfr. ivi, p. 20.

[7]              Cfr. ivi, p. 21-22.

[8]              Cfr. ivi, p. 44.

[9]              «Survivre est, sous le régne de l’économisme, à la fois nécessaire et suffisant», Raoul Vaneigem, Traité de savoir-vivre à l’usage des jeunes générations, 1967, Paris, Gallimard, p. 90, traduzione mia.

[10]            M. Benasayag e G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, p. 48.

[11]            Enrico Euli, Casca il mondo! Giocare con la catastrofe. Una nuova pedagogia del cambiamento, 2007, Bari, Edizioni La Meridiana.

[12]            Qualcosa anche che rompesse l’ennesima sterile antinomia: forza/fragilità, aprendo a domande reali sul senso di queste due parole per noi.

[13]            Faccio qui riferimento al prezioso testo di Tiqqun Ecografia di una potenzialità, dove, a pagina 38, troviamo scritto: “Per il momento siamo parecchio stanchi. E’ il momento di intraprendere un bello sciopero. Uno sciopero umano che sarà così radicalmente distruttivo da distruggere nel suo movimento il nemico che è in noi; solo allora realizzeremo quanto quest’ultimo vi abbia preso parte e ci domandi indulgenza, quanto sia stato anche utile, quanto abbia collaborato partecipato della nostra coerenza (la coerenza di morte dei figli della dialettica).” Ecografia di una potenzialità è la traduzione italiana di Échographie d’une puissance, saggio che fa parte dei materiali contenuti nel secondo numero del quaderno del collettivo francese Tiqqun. La traduzione e l’introduzione italiana di questo testo è di Paola Guazzo. Ecografia di una potenzialità è apparso nel Gennaio 2005 scaricabile in formato pdf sul sito del gruppo bolognese Antagonismo gay alla pagina http://isole.ecn.org/agaybologna/Tiqqun.pdf.

Oggi Ecografia di una potenzialità si trova, fra altre pagine web, anche sul sito delle leribellule di Roma alla pagina http://leribellule.noblogs.org/gallery/596/ecografia%20di%20una%20potenzialit%C3%A0.pdf .

[14]            Cfr. ivi, p. 38.

[15]            Vivere attraverso il meccanismo della resistenza potrebbe significare arrivare a proporre le nostre azioni solamente attraverso il giogo altalenante di un meccanismo oppositivo. Scrive Simone Weil a pagina 54 del suo testo Manifesto per la soppressione dei partiti politici: “Siamo arrivati al punto da non pensare quasi più, in nessun ambito, se non prendendo posizione “pro” o “contro” un’opinione e cercando argomenti che, secondo i casi, la confutino o la supportino. E’ esattamente la trasposizione dell’adesione ad un partito.” Alla lunga questa idea di resistenza diviene sicuramente alienante come dimostra bene il povero tenore della discussione a livello della politica rappresentativa italiana. Dove sembra proprio che il prendere partito sostituisca l’operazione di pensare con la propria testa. Ma sapendo noi che la politica non si ferma sulla soglia dei partiti rappresentativi, si sente proprio la necessità di rendere la nostra resistenza più creativa.

[16]            Robert Bly, Il piccolo libro dell’ombra, traduzione dall’originale di Augusto Sabbadini, [1988] 2003, Novara, Red Edizioni.

[17]            Cfr. p. 14 della Prefazione di Claudio Risé al testo Il piccolo libro dell’ombra di R. Bly.

[18]            Cfr. ivi, p. 38.

[19]            Cfr. ivi, p. 53.

[20]            Cfr. ivi, p. 55.

[21]            Cfr. ivi, pp. 59-60, corsivo mio.

[22]            Cfr. M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi,  p. 67.

[23]            A pagina 27 del testo di Tiqqun sopra citato troviamo scritto: “La sofferenza che perde il sonno a mentire, a sé e agli altri, per conformarsi a uno stereotipo contraddittorio – la buona madre e la diligente lavoratrice, la donna liberata e la sposa fedele, la compagna e la lavacalzini, l’intellettuale e la bella figliola…. – è pensata come oscena. Fare e disfare la tela di un tessuto sociale impregnato dell’ignoranza dei corpi, del piacere, dei bambini, dei sentimenti è un lavoro che non conosce ferie né ricompensa. Ciò che obbliga così tante donne a galleggiare nello strato più superficiale dell’esistenza, fra paura e frivolezza, non trova ancora orecchio che lo intenda, nessuna lotta per sfidarlo.”

[24]            Io credo che nel sacro ci sia un niente di divino. C’è nel sacro uno spazio, un legame, un amore. Che sono, ma, in effetti senza poter essere nominati. Se non con metafore, libere immagini arcane, canti e danze. Il sacro è il sorriso del gatto senza gatto. Il gatto è divino come si sa. Ma non si vede. C’è, ma è un nulla, uno spazio che tiene, un legame aperto. Il sacro è un niente di divino che è dappertutto.

[25]            Simone Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, [1957] 2008, Roma, Castelvecchi Editore, p. 35.

[26]            M. Benasayag, R. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, p. 83.

[27]            Cfr. al Piccolo libro dell’ombra di Robert Bly, pp. 80-84.

[28]         Il lavoro terapeutico non dovrebbe quindi mirare solo alla soppressione dei sintomi, ma dovrebbe lavorare sulla conoscenza della molteplicità inerente ad ogni persona per capire il posto che vi occupa il sintomo. Sappiamo infatti ormai da tempo che gli psicofarmaci agiscono sui sintomi, ma da soli non sono in grado di modificare le cause che innescano la depressione.

[29]            La doppia vita di Veronica, (titolo originale La double vie de Véronique), di Krzysztof Kieslowski, sceneggiatura di K. Kieslowski e K. Piesiewicz, fotografia di S. Idziak, musiche di Z. Preisner, montaggio J. Witta, produzione L. De La Fuente, durata: 97 minuti ca. (colore), paese Francia, Polonia, Norvegia, copyright 1991 Sideral production.