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per amore del mondo Numero 5 - 2006

Mitiche

Il mito-Marilyn

Alla voce Marilyn, utilizzando un qualunque motore di ricerca su Internet, troviamo migliaia e migliaia di possibili connessioni. Google dà, in 38 secondi, 3.540.000 titoli con altrettanti possibili approfondimenti di testo.

Che cosa può mai aver potuto strutturare così tanti richiami e citazioni, insomma, un tale interesse? Tanto più che, a oltre quarant’anni di distanza, la fama di Marilyn è immutata e il numero delle sosia sparse per il mondo non si limita ad altrettante star come Madonna, ma continua ancora a crescere.

La sua intrigante figura è diventata l’icona che alimenta molto più di una leggenda. La leggenda  della povera ragazza di nome Norma Jean Baker Mortenson proveniente da una famiglia disgregata, dove, tra alcolismo e difficoltà economiche, la sola evasione reale era quella della malattia mentale e che, invece, rapidamente riuscì a conoscere il successo, i soldi, gli amori altolocati o presidenziali, come si conviene ai divi di Hollywood, e poi la morte a soli trentasei anni, a causa di un letale cocktail di barbiturici; questa leggenda di una ragazza così non avvince come il mito di Marilyn.

Il mito di Marilyn[1] è anche qualcosa di più non solo della leggenda, ma della sua stessa icona, icona amata dalla luce[2], e icona di una fiamma nel vento del desiderio, icona dalle tonde labbra rosse, perennemente dischiuse sul bianco squadrato dei denti, che trattengono l’inutile parola e consentono solo il respiro,  come alito di vento che perennemente rinfresca il caldo corpo senza veli del calendario che la rese famosa, ancor prima che l’occhio della cinepresa inseguisse la sua fragile insicurezza per bloccarla nella dolcezza di uno sguardo infantile, che avrebbe reso rassicurante ogni  possibile scandalo.

 

  1. Dunque, non leggenda, e nemmeno solo icona, ma mito costruito sull’icona, che narra un’estetica e una politica dell’esistenza.

Cominciamo da quest’ultima: la politica non è solo la modalità in cui si governano “i molti”, dalla radice etimologica dell’aggettivo pollós, pollè, pollón, che è la stessa di polis, e che in oi polloi indicava la folla e la moltitudine, la maggioranza. La politica non indica solo come i pochi o i molti stanno insieme sotto un governo o un potere di qualcuno o di qualche forma organizzativa. La politica, infatti, non è solo gestione di potere o sottomissione a un potere, la politica è anche il modo in cui, semplicemente, i molti stanno insieme, si rappresentano e si danno una rappresentanza. Non a caso, la moderna e antica rappresentanza politica sono state sempre anche la rappresentazione simbolica di un soggetto ideale: il popolo o una parte di esso o, persino, la  rappresentazione di un potere.

La rappresentazione del rapporto uomo-donna, in tutta la reciprocità delle sue relazioni di potere, non ha mai avuto rappresentanza politica, ma ha sempre avuto rappresentazione simbolica, e qui i miti hanno assolto a una funzione didascalica.

Basterebbe pensare alla tragica figura di Medea, che rappresenta la potenza femminile arcaica, in grado di “costruire” l’eroe, di salvarlo, e di permettere che la figura maschile si copra di gloria, ma nello stesso tempo in grado di contornarlo di morte. Medea è figura femminile che incute paura, con la sua capacità di assumere su di sé la forza della natura, una forza magica e terribile che non appartiene all’umano e rispetto alla quale l’uomo è dipendente. Medea è al di sopra degli accomodamenti della ragione, che cercano nell’autonomia i surrogati alla separazione dall’origine, ed è prima di quella ragione cannibalica che si esprime nella tecnicizzazione, e che, producendo i mezzi per realizzare gli scopi, si mangia i fini stessi. Medea, è regina di un popolo che, come nella scena di apertura del film di Pasolini, pratica il cannibalismo senza metafora, l’esercizio del sacrificio umano è seguito dalla consuetudine di un nutrimento comune. Regina di un popolo arcaico, Medea è totalmente autonoma nella sua legge primitiva che non ha bisogno di nulla che medi l’angoscia della separazione dall’origine. Non ha bisogno di nessun addomesticamento della violenza naturale; dopo essere stata tradita è pronta a uccidere, lei madre straziata dal dolore, i figli di Giasone, che sono i suoi stessi figli.

Il mito tragico di Medea rappresenta il rapporto politico uomo-donna dove la potenza femminile campeggia nella sua drammatica ampiezza che non si lascia metabolizzare da nessuna narrazione convenzionale e sociale e da nessun atteggiamento, diremmo oggi, politicamente corretto.

All’opposto, il mito dell’American way of life, rappresentato da Marylin, è il massimo dell’addomesticamento politico e del tentativo di razionalizzare la potenza femminile nei rapporti uomo-donna. Marylin si pone come alternativa sia al ritorno all’arcaico violento e terrificante, sia alla spinta in avanti verso l’utopia di una uguaglianza politica e sociale nutrita di parità. Nessun “principio speranza” e nessuna eredità messianica sprigionano dal suo corpo sensuale, ma nemmeno il torbido e il peccato o il violento aleggiano sul suo seno bianco di luna.

Marylin è solo la citazione di un segno ormai reso innocuo e azzerato.

Ed è per questo che Marylin è mito, è il mito dell’allontanamento dalla potenza dell’origine, e della progressiva dissipazione sociale dell’energia femminile, è il mito dell’azzeramento di un ordine simbolico femminile, dove la sua stessa presenza è ironicamente diventata ormai citazione di se stessa. Marylin è il sogno in technicolor che ha definitivamente sostituito la realtà. Non è il soggetto, ma l’icona del soggetto che diventa fonte di appagamento e che non mette più in crisi e in questione nessun ordine sociale e familiare o anche politico. Nessuna presidenza è travolta dall’adulterio con Marylin. Anzi, come in Quando la moglie è in vacanza di Wilder, il mito Marylin è garanzia contro ogni possibile tradimento. Nel film il distanziamento ironico dalla potenza femminile è tale da risultare praticamente perfetto nell’effetto di citazione che fa il verso al personaggio cucitole addosso da Hollywood. Il corpo reificato e mercificato di Marylin fa cadere il vaso, non di Pandora, ma della patata, simbolo della ottusità. Al contrario di Pandora dal cui vaso si spargono sulla terra tutte le possibili disgrazie, il vaso di Marylin contiene solo una pesante, grande patata. Dal balcone, la patata viene rovesciata sul buffo protagonista che sogna di consumare il suo adulterio sulle note della musica di Rakmaninov, e invece lei, casereccia e rassicurante, propone la musica de “Le tagliatelle” e salva il maschio dal peccato e dall’adulterio rispedendolo alla legittima moglie e così salvando l’ordine simbolico della famiglia e della sua funzione sociale e politica.

Dunque, come ogni mito, quello di Marylin è la rappresentazione simbolica di un’esperienza collettiva storicamente concreta. Questa esperienza, che si organizza assumendo una dimensione politica, nel momento in cui è narrata, ha però già consumato la sua reale fattualità storica. Non è il racconto di qualcosa di soggettivo, ma è la descrizione di un’esperienza plurale, essenzialmente politica, ed è la narrazione di un insieme di relazioni, con pretese di universalità o di universalizzabilità. Quando queste relazioni vengono esplicitate o rappresentate, hanno, però, già consumato tutta la loro potenziale storicità legata all’azione concreta. Mito e politica sono infatti strettamente connessi, l’una si nutre delle rappresentazioni veicolate dall’altro. Il mito di Marylin è la rappresentazione simbolica della femminilità sottomessa dal potere e resa passiva dal suo stesso essersi assunta come puro feticcio in un mondo sempre più mercificato; è la rappresentazione della mancanza di negatività e dell’universale mancanza dei sensi di colpa con la quale il mondo contemporaneo convive amabilmente.

Erich Fromm ci ha rivelato che il significato più pregnante del linguaggio simbolico è nella sua universalità, cui non è affatto estranea un’impostazione politica. Anzi, lo stesso Fromm, nutrito della politicità connessa alla dimensione culturale della scuola di Francoforte, costretta a riflettere, nel clima di crisi della democrazia rappresentativa degli anni Trenta, sugli esiti della  caduta della speranza democratica che aveva trovato la sua espressione più tragica nel nazismo, aveva già chiarito, nel saggio Il mito di Edipo, de Il linguaggio dimenticato[3], la totale valenza politica del mito. Riprendendo l’analisi di Bachofen per interpretare la trilogia di Edipo, aveva affermato che il fulcro di quelle tragedie era la lotta contro l’autorità paterna e che tutto il mito affondava le radici nell’antico conflitto tra il sistema dell’autorità matriarcale e quello patriarcale.

Non è, in questa sede, ancora superfluo ricordare che anche Th. Adorno e M. Horkheimer, nella Dialettica dell’illuminismo[4], affermarono che il passaggio dal matriarcato al patriarcato, “è sintetizzato dall’avvento della religione olimpica, col dio degli eserciti al posto della grande madre”. Come dire che il mito irenico della grande madre fu storicamente soppiantato dal nuovo culto della guerra, in grado di rappresentare gli omerici guerrieri come semidei e di esaltare gli eroi in grado di competere, come Ulisse, con gli stessi dei.

Il mito, pertanto, e in particolare a quello di Edipo, stando dunque ai francofortesi, è evidente che non solo avrebbe segnato una precisa modalità politica: il passaggio del matriarcato al patriarcato, ma avrebbe segnato proprio quella modalità politica  che è alla base della nostra cultura moderna e contemporanea, ossia la democrazia greca e la coeva filosofia. Portato sulla scena del teatro e della rappresentazione, nell’Orestea trova il suo epilogo finale con Minerva, che fa in modo che Oreste non sia più perseguitato dalle Erinni scatenate dal suo empio gesto matricida: la dea della sapienza consegnerà infatti all’Areopago della città la possibilità di esprimere il verdetto. Giustizia non appartiene più agli dei, ma democraticamente alla polis. Come dire che Sapienza o filosofia, e giustizia o democrazia, nella nuova forma che sostituisce le antiche divinità, vincono sulle icone costruite sulle antiche dimensioni e rappresentazioni olimpiche e affidano alla gestione umana e alla modalità democratica il giudizio sugli eventi. Le antiche modalità, gli antichi poteri, dai nomi al linguaggio, dalle rappresentazioni alle scene evocate diventano mito su cui le immagini della tragedia costruiscono e affidano la propria poesia.

Ritornerà il mito ancora sulle scene del teatro e ritornerà a tempi di Shakespeare, a segnare il passaggio da una cultura alternativa a forte componente femminile, quella delle streghe, a una cultura che istituzionalizzerà le regole del gioco (come le definirà Norberto Bobbio), e allora il moderno contratto sociale sancirà lo stato di diritto, sia pur col patto implicito di negare ogni diritto sessuato.

La rappresentazione del nuovo mito sarà affidata al teatro di Shakespeare, che comincia e finisce con delle streghe: Giovanna d’Arco dell’Enrico VI, Sicorace de La tempesta, oltre alle famose streghe del Macbeth, chiudono un’epoca: quella dove il mito di una potenza femminile, condannata ed esorcizzata come stregoneria, avrebbe potuto offrire spunti per una cultura alternava.

Nella rappresentazione teatrale, la catarsi allenta le tensioni degli animi che vedono proiettate nel mito e sulla scena del teatro le stesse pulsioni di sempre. Ma nel linguaggio dimenticato del mito, come in quello del sogno, il significato è palese, per chi possiede il codice adatto[5].

In qualche modo, quindi, la rappresentazione di un mito, al pari della sua percezione palese, chiude un’epoca, la consegna al passato. Il presente vive nuovi riti che ancora non sono codificabili in miti. Quando il mito è portato sulla scena è ormai chiuso l’ultimo capitolo di quella che, a questo punto, non è più possibile come organizzazione sociale e tutto è già consegnato a un nuovo modello che ha già definito il suo ordine sociale e politico.

 

  1. Che Marilyn abbia proprio rappresentato un mito è evidente non solo dalla sua popolarità, ma dalle rappresentazioni che di lei sono state date anche in seguito, anche sulle scene cinematografiche (del ‘93 è La troviamo a Beverly HillsCalendar Girl, un film di John Whittesell che narra di un gruppo di giovani il cui solo desiderio è quello di incontrare Marilyn).

Che sia  un mito che  persino metonimicamente può essere evocato dal suo solo nome, ce lo attesta l’ultimo volume, tra i tanti che solo quest’anno sono già stati pubblicati su di lei. Ho amato Marilyn, di Nantas Salvataggio, di Marilyn parla solo in due pagine. Tutto il resto è il racconto degli amori e di alcune, tante, donne amate dal giornalista. Marilyn è usata metonimicamente dal giornalista per dire che ha amato le donne o, meglio, ha amato l’eterno femminino che sempre Marilyn ha incarnato. Nel libro citato la sua presenza è racchiusa in due pagine-racconto di una intervista soffiata ad una arrabbiatissima Oriana Fallaci. Quelle pagine descrivono una Marilyn al 2 di Sutton Place di Mahattan, già palesemente sotto il giogo di Miller, in un contesto americano che sapeva  perfettamente quanto doveva essere pesante per lei quel rapporto, al punto che la giornalista amica di Salvataggio dice convinta: “Da Miller mi aspetto di tutto. Per esempio che la costringa a fare le valigie e a cambiare casa nel mezzo della notte”[6].

In un piccolo appartamento, tutto sommato modesto per una star, in cui l’unico tocco di raffinatezza borghese era un pianoforte a muro bianco avorio, che si stava scrostando in più punti, Marilyn, come al solito, non fu puntuale all’appuntamento di Salvataggio, che commenta: “Per quello la detestavano sul set”. Ma non lo faceva apposta, e quando finalmente apparve nell’incerta luce del crepuscolo, lui ricorda che lei gli disse, con un candore disarmante: “Sa, non lo faccio apposta ad arrivare tardi. Il guaio è che non so mai cosa mettermi”[7].

Le sue battute, anche sul set, erano sempre disarmanti e lei era capace di passare dall’affermazione più seria alla citazione della banalità più banale. Sicché il suo linguaggio, nell’altalena tra il pensiero e l’ovvietà, faceva apparire l’ovvietà come una citazione e il pensiero pensato come un intercalare del tutto casuale. Ribaltando gli schemi, la sua intelligenza appariva scompigliata, come quella sua veste gonfia per lo sfiatatoio del metrò, nella celebre scena sul marciapiede di Times Square, e lei, con le sue battute apparentemente sciocche, ma vere in maniera disarmante, appariva ancora più palesemente con una ragione naïve, ma profonda.

Ed era proprio quella naïveté, quello spaesamento profondo, tipico non della società americana o del mondo moderno, ma della donna che non aveva mai trovato il suo posto nel mondo, che affascinerà tanto in Marilyn.

Incarnò quella donna che, come aveva scritto già Simone de Beauvoir, confermava con la sua libertà docile la libertà dell’uomo. Capace di subire passivamente il desiderio dell’uomo e capace di lasciarsi assimilare, senza porsi in opposizione a lui, appariva come chi sapeva farsi possedere, consumare, e persino distruggere, ma senza dimenticare il suo stesso desiderio. Alla domanda se fosse venuta a New York per migliorare il suo talento di attrice all’Actor’s Studio, dove erano passati i migliori, da Marlon Brando a Paul Newman, se fosse venuta su consiglio di un grande scrittore, intellettuale, rispose: “È proprio così, ma lei come l’ha saputo? Tempo fa il mio amico Arthur mi ha detto: a cosa ti servono tutti quei soldi, se dentro di te c’è il deserto, la palude della incultura? Ha detto proprio il deserto, capisce? Il deserto è un luogo arido, non cresce nulla. E invece io voglio crescere, imparare le cose che nessuna scuola mi ha insegnato. Meglio essere povera fuori, ma ricca dentro, lei non è d’accordo?”[8].

Non è il rapporto Miller-Marilyn che è paradossale, quello è semmai esemplare e paradigmatico di un tipo di rapporto che la donna, incarnata da Marilyn, aveva sperimentato e che Marilyn era in grado di rappresentare non solo sulla scena, ma con tutta la sua vita e la sua opera. Condannata a recitare la parte dell’Altro/a, permetteva a chi le stava di fronte di adempiere la verità del proprio essere. Di fronte a lei, lui si realizzava come soggetto unico e sovrano, poteva realizzarsi come trascendenza; a lei la parte dell’oggetto, della finalità da realizzare.

Contemporaneamente, però, era lei stessa, anche nei personaggi che interpretò per tutti gli anni Cinquanta, capace di raggiungere un atteggiamento autenticamente morale, perché, per dirla col linguaggio di de Beauvoir, rinunciava ad essere per assumersi come esistenza. Rinunciava persino al possesso, perché il possesso è una maniera di ricerca dell’essere. Rinunciava ai vestiti, nel senso che non li “possedeva”: non sapeva mai che cosa mettersi e arrivava perennemente in ritardo. Solo nuda si sentiva a posto, come le altre. È noto, infatti, come Marilyn si sentisse a proprio agio soprattutto nuda: a casa o in giardino girava senza abiti, dormiva senza niente addosso, o meglio indossando “solo Chanel n. 5”, intramontabile e logora battuta.

Disdegnava le mutande. Animale innocuo, viveva il proprio corpo come la parte più autentica e meno costruita e manipolata del sé: “Il mio impulso ad apparire nuda e i miei sogni relativi non avevano niente di vergognoso o di peccaminoso. Sognare la gente che mi guardava mi faceva sentire meno sola. Penso di aver desiderato che la gente mi vedesse nuda perché mi vergognavo degli abiti che indossavo: lo sbiadito vestito blu della povertà che non cambiavo mai. Nuda, ero come le altre ragazze”[9].

Il suo paradossale bisogno di conformarsi e di essere assimilata la faceva rimanere estranea, una sorta di paria che, arendtianamente, si mantiene ai margini della società e del costume, letteralmente spogliata di tutto, nei soli luoghi ai margini dove poteva sopravvivere senza essere schiacciata dal sistema. Col vestito giusto sarebbe apparsa “sistemata”, e lei non voleva essere il totem del sistema.

Eppure, voleva essere se stessa nella dimensione più autentica della propria soggettività: nel suo stesso corpo, nudo, non costruito. E così appare ai più attenti: “È probabile che si fosse coperta con le prime cose trovate in un armadio, ma questa faccenda non aveva nessuna importanza: quei suoi occhi azzurri tagliuzzati d’oro, la pelle di latte, e quel glorioso seno esposto come un bene dell’umanità protetto dall’Unesco, mi avevano sedotto e quasi drogato. Non però al punto da farmi sorvolare su un fatto inconfutabile: sotto la scorza della bella svampita Marilyn nascondeva una intelligenza naïve ma profonda”[10]. Ma questa non bastò a farla amare al pari del suo corpo.

Su quel corpo naturalmente vissuto e non esibito fu costruito il mito del sesso liberato. Da tabù che era stato tra Otto e Novecento, a metà Novecento, con la teoria orgasmatica di Reich e col rapporto Kinsey, che già, appena uscito nel ‘55, aveva magnetizzato l’attenzione su frequenze, numeri e durate di rapporti, e con un’attenzione a una sessualità che di suo si presentava come maschile, il sesso trovava nella nuova dolcezza magnetica di Marilyn la più antica conferma per una  ancora possibile sessualità benefica e nutritiva, senza competizioni e senza misurazioni, la funzione di lei essendo solo quella di confermare l’altro nella padronanza, a cominciare da quella di sé. E, d’altra parte, il sorriso di Marylin era rassicurante e la sua squillante risata incoraggiante, solo che cominciò ad apparire sempre più fuori contesto, proprio come lei stessa.

 

  1. Alla fine di gennaio del ‘61, quando ormai la sua formazione era conclusa e la separazione da Miller anche, andò, accompagnata da Montgomery Clift, a vedere la prima newyorkese de Gli spostati, al teatro Capitol. “Odiò il film. Odiò la sua interpretazione. Odiò il suo aspetto, la parrucca e il bianco e nero. Odiò la trama. Odiava i ricordi”[11].

Il 5 febbraio la dottoressa Kris la portò all’ospedale Cornell di New York. Fu ricoverata. Le misero la camicia di forza e la riempirono di sedativi. Il suo commento fu: “La notte c’era un via vai di personale medico, dottori, infermieri che venivano a controllarmi. E io me ne stavo lì con le mani legate, incapace di difendermi. Ero un oggetto di curiosità cui nessuno si interessava davvero”[12].

Ormai presente a se stessa, come coscienza separata e finalmente identica a sé, Marilyn percepì tutta la crudeltà che l’aveva portata ad essere oggetto.

L’anno dopo, la fine. Ma sarà anche la fine di un mondo. Il mito della femminilità che Marilyn aveva incarnato, potrà rivivere solo nelle scene e nei suoi personaggi, coinciderà con lei, sarà salvato solo nell’eternità di quel volto e di quel corpo nudo o perennemente inguainato, come nel vestito bianco fasciante de Il principe e la ballerina.

Che quel mito, su cui era stata costruita una mistica, ma a cui erano connesse altrettante mistificazioni sociali, che quel mito fosse al tramonto, lo aveva già denunciato Simone de Beauvoir un decennio prima che Marilyn lo racchiudesse in sé come in un ostensorio. Nel ’49, infatti, de Beauvoir aveva scritto, consapevole anche di tutte le contraddizioni che ciò comportava: “ Le donne di oggi stanno distruggendo il mito della femminilità; e cominciano ad affermare concretamente l’indipendenza che spetta a loro; ma tale volontà di vivere integralmente la condizione dell’essere umano non va disgiunta dalla donna da un travaglio molto penoso. Educate da donne in un mondo femminile sono comunque destinate al matrimonio che in pratica le assoggetta ancora all’uomo; il prestigio della virilità è tutt’altro che al tramonto: ha sempre solide basi economiche e sociali”[13].

L’ironia contagiosa di Come sposare un milionario non è solo indicazione capace del regista: troverà soprattutto in Marilyn l’ammiccante attitudine a fare il verso alla società americana. Nella consapevolezza, però, che ciò che sta per sopraggiungere non è meno problematico e cinico di ciò che è consegnato inesorabilmente al passato, Marilyn si mantiene a margine, come la figura del paria inconsapevole, tra passato e futuro (Arendt), Marilyn si fa mito e consegna un modello di società ad un altro.

Solo l’anno dopo la sua morte, non solo Betty Friedan pubblicherà La mistica della femminilità, denunciando tutte le imposizioni che sono state ingiunte alle donne anche sotto forma di identità benefiche e rassicuranti, ma, in un processo di totale emancipazione, anche le donne, con Valentina Tereskova, andranno sulla luna e, con la Pacem in Terris, Giovanni XXIII saluterà la promozione femminile come un segno dei tempi, proprio nello stesso anno in cui in Italia alle donne sarà consentito l’accesso a tutte le professioni, compresa la magistratura.

 

  1. Dopo Marilyn, un nuovo mito sarà rappresentato sulla scena di celluloide: Totò. Mito dopo la morte ed una vita dissacrata. Ma, come Marilyn è icona del paria inconsapevole, così Totò sarà la maschera del paria consapevole, l’ultima maschera della commedia dell’arte, che porta sulla scena l’indicibile mito del “paria” come categoria chiave del pensiero indipendente e legato alla sana realtà. Come suggeriva Hannah Arendt, il paria è quella condizione esistenziale, che in determinate situazioni, soprattutto in “tempi oscuri”, rappresenta l’unica chance possibile per salvare la capacità di giudizio dal conformismo e dall’adattamento. Il paria, che nel pensiero arendtiano esprimeva un’esperienza che coinvolge tutti, ossia il fatto che l’identità e il riconoscimento sociale si costruiscono sulla perdita di umanità, si incarnerà in Totò. E, come già nel ‘33 aveva detto Arendt, quando l’uniformarsi costituirà già la regola, a costo di perdere la propria umanità, solo pochi, come Totò, il guitto, consapevolmente, saranno in grado di chiedersi: “Siamo uomini o caporali?”. Dopo Marilyn, Totò sarà l’ultimo paria consapevole, l’ultima rappresentazione di una realtà sociale in grado di chiamare per nome le proprie contraddizioni. Diventerà mito solo dopo la sua stessa morte, quando ormai la società non sarà più in grado di reggere la sfida del nuovo modo di stare al mondo: quello tronfio, uniforme, assimilato.

Non è un caso che il mito-Totò esploderà solo molto tempo dopo il Totò delle scene datate, diventerà mito quando, ormai alla fine del Novecento, la politica globalizzata non avrà lasciato proprio nessuno spazio per nessun tipo di paria, consapevole o inconsapevole, e capace di farsi piccolo piccolo pur di non rinunciare alla propria umanità: quello sarà il Totò di Uccellacci e uccellini, ma questa è un’altra storia o, meglio, un altro mito.

[1]              Il mito di Marylin nasce da una biografia: American Way of Life. Cfr. Marylin Monroe a biography, by Norman Mailer, Grosset & Dunlap, 1973

[2]              Cfr. Maria Schiavo, Amata dalla luce, Tre Lune, Mantova 1999

[3]              E. Fromm, Il linguaggio dimenticato, Bompiani, Milano 1962, pp. 188 e segg.

[4]              Th. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1962.

[5]                                                                                                                                                                          Il linguaggio dimenticato, Milano, Garzanti 1973, p. 29.

[6]              N. Salvataggio, Ho amato Marilyn, Piemme, Casale Monferrato 2006, p. 137.

[7]              Ivi, p. 139

[8]              Ivi, p. 140.

[9]              L. Mecacci, Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicoanalisi, Laterza, Bari-Roma 2000, p. 7.

[10]            N. Salvataggio, op. cit., p. 141.

[11]            R. H. Wolfe, Marilyn Monroe, ed. spec. per “La Repubblica”, 2006, p. 343.

[12]            Ivi., p. 344.

[13]            S. de Beauvoir, Il secondo sesso,  vol. II, p. 11.