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per amore del mondo Numero 8 - 2009

Lingua Materna

Il mistero del simbolico

Questi profeti sentono che, se del divino ancora ci può avvenire, è nell’abbandono di ogni calcolo, come pure di ogni lingua e di ogni senso già prodotti. Nel rischio, soltanto nel rischio, di cui nessuno sa ove conduca: Di quale futuro, sia l’annuncio, di quale passato, la segreta rammemorazione. Nessun progetto qui sussiste. Solo, rimane il rifiuto di rifiutarsi a quanto è percepito, quali che siano lo smarrimento o l’indigenza che ne seguiranno.
Luce Irigaray[i]

 

1 Lingua materna, vita quotidiana, etica

 

Di recente mi sono più volte chiesto, se possa esistere un legame tra ciò che il pensiero della differenza definisce come lingua materna e l’etica, se lo spazio per un concetto di politica in un certo senso più assoluto si situasse all’ombra di questo abitare la lingua e se, infine, la lingua materna si potesse definire come un paradigma dell’essere (a far decadere quest’ultima ipotesi sono bastati pochi incontri con Barbara Verzini e uno non meno illuminante con Chiara Zamboni, ma alcuni dubbi comunque restano). La maggior parte dei miei interessi e ricerche si sono focalizzati attorno a tre cardini: la lingua materna, l’Internazionale Situazionista e gli scritti di Giorgio Agamben. Dell’analisi situazionista più che i punti d’arrivo, ormai noti a molti, decisive e da sviluppare sono le pratiche attraverso le quali sono arrivati ad essi, la stessa idea di creare situazioni (nozione chiave della loro avanguardia) ne è in realtà un esempio lampante[ii]. Non parlo a caso di pratiche, perché è attraverso di esse che sono riusciti a scremare idee, passaggi, parole sino ad avere dei concetti, dei significanti strada maestra, delle loro teorie. Lo stesso è successo per alcune donne che, forse non casualmente più o meno negli stessi anni, hanno lavorato su pratiche quali l’autocoscienza, il partire da sé e l’incontro. Durante il mio lavoro di tesi con Chiara Zamboni è stato importante notare come i due movimenti siano arrivati ad un’idea di linguaggio, di un abitare la lingua, molto simile. E l’uso della stessa per scardinare i vecchi principi di una società in declino, ha aperto un nuovo spazio alla politica, a nuovi modi di abitare il mondo e, per me, in definitiva, all’etica.

Il nodo centrale è per il situazionismo questa convergenza tra estetica/politica/etica, intrecciato con un tipo di  linguaggio che viene dal corpo, dai veri desideri dell’uomo e che loro definirono come poesia (del cambiamento, della rivoluzione ecc.). Barbara mi ha chiesto che senso e che tipo di attualità o utilità potesse avere l’accostare un’idea simile alla lingua materna. Ho riflettuto su questa domanda, ho rimesso in questione le mie convinzioni, ma non credo di avere una risposta pertinente, casomai delle suggestioni. La vera risposta, forse, è nella vita di tutti giorni, in cui l’ipocrisia onnipresente, la frottola planetaria, è la normalità e chiunque si chieda cosa possa significare essere umani è un alieno in un mondo che calza stretto, dove il regime economico non sa più che fili muovere per gestire, investire, far fruttare le sue marionette. A mio avviso lingua materna significa anche arrivare a capire dov’è quel punto all’interno della vita quotidiana (nei singoli gesti, in ogni discorso) in cui la menzogna viene meno e si smaschera per quel che è, infrangendosi sui nostri veri desideri. La lingua materna è quella terra dove un linguaggio sterile, tecnico, che non proviene da dentro, non attecchisce, non ha presa su ciò che penso e, quindi, sulla mia vita. Ognuno può attingere alla lingua materna e forse oggi attraverso la sua ricerca (nel cercare di aprirci al mondo come da bimbi, fidandoci di lei, siamo entrati in rapporto con la madre) ci è offerta la possibilità di leggere come attuale il nodo situazionista percorrendolo, però, all’inverso, ossia accogliendo l’idea di un nuovo concetto di etica, di un abitare il mondo che rispetti gli altri e noi stessi, arrivare ad una politica finalmente umana, non solo per creare qualcosa di nuovo, ma, a questo punto, per smetterla di sopravvivere ed iniziare a vivere, per cambiare lo sguardo, per una nuova estetica, perché ci possa ancora essere arte e, quindi, cultura e non quella beffa mediatica, lesiva per l’intelligenza, che il mercato smercia per tale.

 

2- Un debito, un rimosso

 

Il libro “il linguaggio e la morte” di Giorgio Agamben è strutturato in base al seminario del 1979 che l’ha preceduto e nella settima giornata, vengono analizzate le rivoluzioni linguistiche apportate dai primi poeti provenzali e trovatori del XII secolo dove, in prima istanza, l’esperienza del linguaggio, l’evento di parola (io aggiungo l’abitare una lingua) sono descritti come il palesarsi di un desiderio amoroso.

 

Intorno al secolo XII, la topica antica e la sua ratio inveniendi furono interpretate in modo radicalmente nuovo dai poeti provenzali e da questa reinterpretazione ebbe origine la poesia europea moderna [..]. I primi germi di un mutamento di questa concezione dell’inventio, scaturiti da quella radicale trasformazione dell’esperienza di linguaggio che fu il cristianesimo, sono già nel De trinitate di sant’Agostino, dove [..] l’uomo non è già sempre nel luogo del linguaggio, ma deve venire in esso e può farlo solo attraverso un appetitus, un desiderio amoroso, dal quale, se si unisce alla conoscenza, può nascere la parola. L’esperienza dell’evento di parola è, dunque, innanzitutto un’esperienza amorosa [..][iii]

 

Come poi riprenderà e porterà a compimento Dante nel De vulgari eloquentia, questi poeti cercano con la parola di arrivare all’altra/o, mossi appunto da questo appetitus e a me viene spontaneo pensare che il primo desiderio verso l’altro, il primo manifestarsi di una volontà di parola, di un’esperienza di linguaggio si produce e s’imprime in noi nei primi anni. Si comincia a notare che la sfera materna, la donna si presentano come un rimosso della cultura tradizionale maschile.

Più avanti Agamben analizza L’infinito di Leopardi. La poesia in questione viene presa a modello per spiegare il movimento ripetitivo messo in atto dalla parola poetica attraverso l’immemorabilità dell’evento di linguaggio stesso.

 

..l’istanza di discorso è fin dall’inizio affidata alla memoria, in modo, però, che memorabile è la stessa inafferrabilità dell’istanza del discorso come tale, [..] che fonda così la possibilità della sua infinita ripetizione. Nell’idillio leopardiano, il questo indica, gia sempre oltre la siepe, al di là dell’ultimo orizzonte, verso un’infinità di eventi di linguaggio. La parola poetica avviene, cioè in modo tale che il suo avvento sfugge già sempre verso il futuro e verso il passato e il luogo della poesia è sempre un luogo di memoria e ripetizione.[iv]

 

Nella struttura tutta romantica de L’infinito, Agamben vi vede una tensione tra il concetto hegeliano di Questo e il Dasein di Heidegger (dai quali prenderebbero l’avvio le loro speculazioni sul linguaggio), mettendo, quindi, in relazione due delle analisi più proficue e lucide della storia della filosofia, con un’idea di poesia che mima i tratti essenziali della lingua materna, in cui la memoria di uno stato di lingua si può rigiocare, ripetendosi in ogni momento per uno scambio di parola simbolico, un abitus vivendi più fecondo.

A chiusura della settima giornata e del commento ai versi leopardiani possiamo leggere questa frase:

 

Il confronto che è da sempre in corso fra poesia e filosofia è, dunque, ben altro che una semplice rivalità: entrambe cercano di afferrare quell’inaccesso luogo originale della parola rispetto al quale ne va, per l’uomo parlante, del proprio fondamento e della propria salvezza. Ma entrambe [..] mostrano alla fine questo luogo come introvabile.[v]

 

Cos’è questo nodo su cui si confrontano poesia e filosofia? Che sarà mai questo inaccesso luogo della parola per cui ne va della nostra salvezza? Questo introvabile rimanda, a mio giudizio, al fatto che la lingua materna non è immediatamente disponibile, bisogna riconoscerla, ascoltarla, rimanere nella sua voce, ma, innanzitutto, si deve prendere atto che “c’è”, per uscire dall’empasse millenaria che ci attanaglia e che ha reso sterile e nichilista la cultura, l’arte. Il compito a cui siamo chiamati nel futuro prossimo è superare questo rimosso, fondare una nuova etica (quindi una nuova politica) sul disvelamento di questo arcano del linguaggio.

Nell’ottava giornata, oltre a quelle di Hegel e Heidegger, vengono riprese e commentate alcune tra le più importanti teorie del linguaggio; i pensatori maggiormente chiamati in causa sono Platone, Aristotele, Kant, Schelling e Wittgenstein. Anche all’interno del linguaggio, com’era tipico in molti altri concetti presso gli antichi greci, s’instaura una dicotomia: da una parte vi è un linguaggio che viene dal corpo, dalla carne, dall’altra ve ne è uno codificato e accessibile a tutti:

 

…all’aurora del pensiero greco, l’esperienza umana del linguaggio [..] era apparsa scissa in un confronto insanabile [..] fra la voce del sangue [..], che il cuore “ha appreso da solo”, [..] in opposizione al linguaggio che si apprende da altri..il logos, la parola che discute e persuade, [..] liberamente scambiata in pubblico.[vi]

 

Questi enunciati mi pongono in questione, poiché da un lato c’è questa voce del sangue che, come innata, abbiamo dentro e che in qualche modo dovremmo riuscire ad apprendere da soli e dall’altro abbiamo la lingua parlata, il logos, il comune che, invece, conquistiamo nel confronto con l’altro. Banale è notare che la lingua non la si può apprendere soli; immagino quel film “Greystoke, la leggenda di Tarzan”, in cui un Lambert/Tarzan comunica grugnendo con le scimmie, ma ovviamente non conosce la lingua degli uomini, quando questi lo trovano nel cuore della giungla; Semmai credo si possa dire che una “comunicabilità” può esserci naturalmente congenita, ma non una lingua (un nominare un mondo). In parte vera, tuttavia, potrebbe essere la definizione del logos come di un codice che si impara dagli altri; scrivo in parte, perchè credo che non si possa imparare una lingua da un grado zero nel solo fatto di essere gettati in mezzo ad un gruppo di parlanti, serve un di più, quantomeno preliminarmente. Tornando sui miei passi, rispetto a queste considerazioni mi sento di dire che una lingua, una voce che viene dal corpo, che lo accompagna, “c’è” e la impariamo dal primo altro, dalla madre (o chi per essa) e questa è la lingua materna, attraverso la quale vedo un superamento della dicotomia classica tra physis e logos: problema questo, di una voce incarnata e parlata, che, secondo Agamben, è inseguito dalla metafisica di ogni tempo.

 

La Voce [..] è l’impensabile su cui la metafisica fonda ogni possibilità di pensiero, l’indicibile su cui si fonda tutto il suo dicibile.[vii]

 

Che possa essere di nuovo la lingua materna questo “indicibile” che sempre torna nel fantasma di un rimosso o di una colpa? Così sembrerebbe vedendo il commento che svolge l’autore a un passo del coro dell’Edipo a Colono di Sofocle, dove, però, il linguaggio, anziché essere accostato al materno, alla sfera affettivo-simbolica, viene posto in relazione alla morte, pur parlando di un ritorno verso la nascita, l’origine.

 

..un non essere nati, un non aver natura, potrebbe vincere il linguaggio e permettere all’uomo di sciogliersi dalla colpa che si costituisce nel nesso destinale di physis e logos, di vivente e linguaggio; ma, poiché questo è, appunto, impossibile, poiché l’uomo è un nato, ha nascita e natura, la cosa migliore è, per lui, far ritorno al più presto là dove è venuto, risalire oltre la nascita attraverso l’esperienza silenziosa della morte..[viii]

 

Notevole è come nella parte finale del saggio Agamben si avvicini sempre più alla nostra questione, rimanendovi, però, ai bordi e, quasi, descrivendoli con minuzia, mostrando questa figura metafisica della Voce (che è insieme carne e verbo ed in un certo qual modo segna l’esistenza umana) come un significante che contiene in sé molti dei predicati attribuibili alla lingua materna.

 

..questa Voce è il fondamento mistico su cui poggia tutta la nostra cultura, la sua logica come la sua etica, la sua teologia come la sua politica, il suo sapere come la sua follia ..

..mostra sé come ciò che, restando non detto e significato in ogni parola e in ogni tramandamento storico, destina l’uomo alla storia e alla significazione, come il tramandamento indicibile che fonda ogni tradizione e ogni parola umana. Solo in questo modo la metafisica può pensare l’ethos, la dimora abituale dell’uomo..

Il suo luogo è l’ethos, la dimora in-fantile [..] dell’uomo nel linguaggio. Questa dimora [..] è ciò che resta, qui, da pensare.

..pensare la Voce è [..] necessariamente il compito supremo della filosofia.[ix]

 

Parlare ancora in termini di metafisica, di parole con l’iniziale maiuscola o parole scomposte (in-fantile) m’impaurisce e non mi appartiene, ma se riusciamo a leggere oltre l’aspetto prettamente linguistico, a mio parere, la lingua materna è proprio questa costellazione in cui in ogni istante, ogni giorno, nell’evento quotidiano, si rigiocano assieme destino e storia, etica e politica ed attraverso la danza di questi elementi riusciamo a scorgere quel di più di vita, quel che di vita che eccede il mero materiale e farlo brillare di una luce nuova, cercando di afferrarlo per riscattarci dal nichilismo, da questo cancro del pensiero che ci sta facendo sprofondare nelle pastoie della storia e nella carestia emotiva.

Lo spirito mercantile che ci sovrasta (figlio di un animalesco istinto di predazione e di logiche maschili ormai stantie) castra nei viventi la libera circolazione di idee, desideri, potremmo dire, in generale, il divenire. Da tempo sappiamo che la barbarie economica legifera su tutto e nell’ultimo secolo ha affinato al meglio le tecniche biopolitiche che irretiscono le masse, l’opinione pubblica e la cultura. Questa nuova rumorosa religione globale affonda le proprie radici in un linguaggio di codici, stereotipi e povertà di parole neutre: non saprei altrimenti come descrivere il senso di vuoto che provo quando chiudo un quotidiano, ascolto le dichiarazioni dei politici ai tg o leggo i messaggi pubblicitari ai lati delle strade. Per vivere vendo libri in un negozio di una multinazionale e la mia esperienza è quella di trovarmi ogni giorno tra due poli, dove da un lato ci sono mezzi di comunicazione massiva, rivolta a molte persone e perpetrata attraverso vari media, il cui unico e nemmeno troppo velato messaggio di fondo è un invito ad alleggerire i propri portafogli e dall’altro il contatto diretto col pubblico. La possibilità di riscatto, di trovare dell’umano è data da questo incontro, dalla presenza di più esseri parlanti che interagiscono tra loro; è questo spazio quotidiano che devo indagare ed abbracciare per non cedere, per non perdere me stesso e dare un senso a quello che faccio; spazio, quindi, dove tesso e ritesso il mio destino, le mia etica, la mia storia.

 

3 – L’esperienza della poesia

 

Attraverso i secoli la storia della filosofia sembra si sia fermata di fronte al concetto vuoto di un linguaggio che è insieme carne e pensiero, medio fondamentale tra noi e ciò che percepiamo. Personalmente vi vedo una connessione diretta tra questo limite e la caduta nell’imbuto della storia in cui si è cacciata l’umanità. Con stupore e ammirazione ho letto alcuni testi di filosofia della differenza, avido di conoscere se una possibilità altra ci fosse offerta dalla lingua materna ed io credo che l’interesse accordato da queste pensatrici al darsi del linguaggio, alle pratiche discorsive e al simbolico le ha portate a scoperchiare l’arcano che la filosofia occidentale ha rincorso per più di due millenni.

Col procedere nelle mie letture, ad un certo punto, mi ero convinto che la lingua materna fosse in qualche modo un paradigma dell’essere, poiché nelle varie testimonianze di uomini e donne che ho potuto conoscere tramite i testi e nella vita negli ultimi anni, ho notato che, pur instaurandosi su questioni e fatti personali, un comune fra esse c’era sempre, quasi fosse un carattere del dna dell’essere, e per alcuni versi una sorta di percorso epistemologico obbligatorio. Nel suo ultimo libro “Signatura rerum” Agamben dedica un intero capitolo alla definizione del concetto di paradigma e vi possiamo leggere:

 

..Il paradigma non è mai già dato, ma si genera e si produce [..] attraverso [..] un mostrare e un “esporre”. La relazione paradigmatica [..] corre [..] fra la singolarità (che diventa così paradigma) e la sua esposizione (cioè la sua intelligibilità).[x]

 

Le testimonianze che parlano della lingua materna ruotano attorno a questi concetti, dove, appunto, una singolarità si mostra, si espone e porta l’esempio come modello della struttura su cui si muove questa modalità dell’abitare la lingua; ma parlare di “relazione paradigmatica” e simili non fa che ricadere nel gioco della tradizione, di una filosofia del linguaggio che ci allontana dalla lingua materna, perché sta tutta sull’esattezza di una ricerca scientifica, che cerca nel pensiero e nelle “parole” dei padri giustificazione e conferma del suo (supposto) progresso.

Elisabeth Jankoswski ne “la lingua invisibile” ci mette in guardia da questo aspetto quando afferma:

 

Il Novecento è stato in genere caratterizzato dall’importanza data all’espressione il più possibile chiara dei pensieri e sentimenti più reconditi: nella psicoanalisi, nella pedagogia, nella teologia e in altri saperi. Alla ricerca dell’esattezza si sono escluse le forme più fiorite e figurate del linguaggio, perché considerate troppo imprecise. [..] Tutto ciò ha creato un’adesione eccessivamente forte al dire, cioè alla superficie linguistica, e ha portato a trascurare le dimensioni multiple del dire e del non dire.[xi]

 

L’autrice mette in luce come la cultura e i saperi tradizionali abbiano dato maggior importanza alla potenza del pensiero, ed in generale a tutto ciò che risulta dal rigore del calcolo, mentre gli effetti/movimenti di reale derivanti dal simbolico non vengono quasi mai indagati, anche se, io aggiungo, implicitamente citati. Direi, inoltre, che è stata un’attitudine costante nella storia del pensiero “ufficiale”; sono proprio queste “dimensioni multiple” del linguaggio i binari senza meta del simbolico che porterebbero a fare quei salti d’essere necessari per abbandonare le posizioni (d’opinione, di vita) traballanti su cui poggiamo e vedere il mondo da un’altra prospettiva. Sempre nello stesso testo Jankowski richiama alla nostra attenzione questa visione della lingua, parlando del ruolo della madre: diventare madre è il salto d’essere naturale, e simbolico ad un tempo, per eccellenza.

 

..la madre fa diventare completamente buono il mondo per il suo bambino e anche un po’ per se stessa. È lei che trasforma così il mondo per il suo bambino; e questo nuovo inizio apre sempre ogni volta un piccolo spiraglio affinché il mondo lo sia davvero o lo possa diventare. Tale visione del mondo è la prima esperienza di una possibile concezione politica. La visione magica del mondo, sperimentata con la madre, resta dentro di noi come qualcosa di quasi indelebile; e anche poi saremo inclini a credere che sia possibile costruire un mondo come lo abbiamo vissuto nella nostra infanzia, anche se non abbiamo ancora trovato una via politica per arrivarci.[xii]

 

Jankowski sembra suggerire che lo scambio simbolico/magico che intercorre nella relazione madre/figlio nel periodo natale, o comunque della formazione del linguaggio, apra una soglia decisiva nella quale etica e politica si confondono e quasi coincidono. Il mondo che in quel periodo conosciamo attraverso il filtro della madre, della sua presenza, della sua lingua sembra essere fatto a nostra misura; la madre ci protegge dai pericoli, dalle angherie, dai brutti sogni e l’impronta di questo stadio rimarrebbe nella nostra memoria; ricercarla, rimanere nel suo ascolto: questo dovrebbe essere il compito primo di una possibile nuova politica.

Curioso è notare come anche nelle ricerche seguite da Raoul Vaneigem (forse la mente più lucida della stagione situazionista) negli ultimi due decenni il rapporto madre/figlio, il suo preservarlo è uno degli aspetti centrali; nel suo saggio sulla libertà di parola “Niente è sacro. Tutto si può dire”, vi possiamo vedere teorizzate le stesse questioni messe in campo da Jankowski, pur se da vie diverse.

 

..La preminenza di un atteggiamento pieno di umanità possiede l’arte di destare la parola che ne propagherà gli effetti. Ha il dono [..] di ammansire i mostri, di liberare il verbo dal gelo del “calcolo egoista”. L’uomo progredirà nell’ingentilimento del vivente soltanto scoprendo la coscienza e il linguaggio capaci d’identificare i suoi desideri, di esprimerli, di comunicarli, di realizzarli.

..Resta una libertà soltanto a patto che si restituisca alle parole quella vita inscindibile dal vissuto quotidiano, senza la quale una lingua si fossilizza e diventa stereotipo. Rompere con il vecchio sistema di sfruttamento che ci ha dominati finora significa restituire al linguaggio quella vocazione poetica dotata, in origine, del potere d’influire sulle circostanze e sul destino degli esseri.

..Privilegiare ovunque l’apertura è il solo modo di liberare la nostra storia futura dalle scorie della nostra disumanità passata.[xiii]

 

L’accento dall’autore belga è posto più sul tema della libertà e di nuovo la commistione con una modalità altra di essere nel linguaggio si manifesta con insistenza ed, inoltre, credo che l’orizzonte al quale mirano i due autori, ossia quello di una nuova alba per l’umanità, per questa comunità ancora in via di civilizzazione, sia lo stesso; la chiave di volta è a disposizione di ognuno.

La lingua materna è poesia, è quella poesia che ci accompagna nel nostro primo salto d’essere “dove si compie la costruzione originaria del mondo”[xiv]. Per l’Internazionale Situazionista poesia è quella lingua che rivoluziona e redime la società nella sua interezza, per migliorarne la sua cultura, il suo lavoro, la sua vita quotidiana. La mia impressione è che questa dimensione del linguaggio umano, messa in risalto da Jankowski (ma tra le righe quando si legge di lingua materna) e dall’Internazionale Situazionista, assumi il carattere messianico della profezia, dove la possibilità di salvezza (l’arrivo del messia) è nell’evento (Ereignis) di ogni istante; è poesia che eccede le parole, assurge a speranza, divenire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[i]               Luce Irigaray, L’oblio dell’aria, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pag. 160.

[ii]              Per quanto riguarda i testi dell’Internazionale Situazionista rimando a Aa. Vv, Internazionale situazionista 1957-72, Nautilus, Torino 1994. A commento, oltre alla mia tesi, La questione per la lingua per l’Internazionale Situazionista, Università degli studi di Verona, a.a. 2000/2001, consiglio Mirella Bandini, L’estetico, il politico, Costa&Nolan, Milano 1999. Brevemente basti ricordare che per “costruzione di situazioni” si intende la costruzione libera di momentanei ambienti di vita mirati ad un superamento della banalità quotidiana, per arrivare ad uno stadio passionale migliore e più umano, castrato nelle forme di vita alienate e coatte, imposte dalla società del capitalismo avanzato (spettacolo): la situazione è un momento di trasfomazione, un’esplosione di vita deliberatamente messa in atto attraverso strategie appropriate. Tra le altre pratiche vorrei ricordare la deriva e il detournement: la prima potrebbe essere un vagabondaggio senza meta guidato solamente dall’attrazione che l’ambiente circostante esercita su di noi, oppure visitare una città con l’ausilio della mappa di un’altra, l’idea è di un uso psicogeografico della città, attraverso un urbanismo che esprima i reali bisogni e desideri della gente; il detournement, parola da essi coniata per indicare la libera appropiazione delle creazioni, opere (solo parti, proprie o altrui, testi, pittura, musica, ecc.), decontestualizzarle ed inserirle in un ambito altro dove acquistano un nuovo significato. Per poesia non intendono quella della letteratura, ma poesia della vita vissuta, per le strade, tra la gente, poiché solo in questo modo, secondo il punto di vista situazionista, si può parlare ed il linguaggio non rimane lettera morta.

[iii]             Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte, Einaudi, Torino 2008, pag. 84.

[iv]             Ibidem, pag. 95.

[v]              Ibidem, pag. 98.

[vi]             Ibidem, pag. 110.

[vii]            Ibidem, pag. 109.

[viii]           Ibidem, pag. 112.

[ix]             Ibidem, rispettivamente pag. 114, 128, 130 e 115.

[x]              Giorgio Agamben, Signatura Rerum, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pag. 25.

[xi]             Elisabeth Jankowski, La lingua invisibile, in (a cura di) Chiara Zamboni, Il cuore sacro della lingua, Il Poligrafo, Padova 2006, pag. 43.

[xii]            Ibidem, pag. 45.

[xiii]           Raoul Vaneigem, Niente è sacro. Tutto si può dire, Ponte alle Grazie, Milano 2004, rispettivamente pag. 85, 21 e 65.

[xiv]           Michel Foucault, Dits e ecrits, Gallimard, Parigi 1994, pag. 145.