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per amore del mondo Numero 13 - 2015

Caterina da Siena

Il linguaggio poetico di Santa Caterina da Siena

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Il linguaggio poetico di Santa Caterina da Siena

Sono straniera, di origine, e la lingua di Caterina mi arriva da molto lontano, nel luogo, nel tempo e nel pensare. Resto, ciò nonostante, affascinata dal suo ritmo, dalle sue assonanze, dalle sue allitterazioni che mi portano dirette alla poesia tedesca. Resto affascinata dal suo amore, dalle sue immagini inusuali, oggi, forse allora. Resto imbrigliata nelle sue metafore potenti, nella sua passione per la verità e le virtù degli umani.

Il linguaggio può essere strumento quando si riferisce al mondo esterno, quando nella vita quotidiana dobbiamo passarci delle informazioni o quando ci riferiamo al mondo solo immaginato, quando, per esempio, nell’infanzia impariamo con le fiabe a immaginare un mondo tutto fatto di parole ma invisibile e non toccabile con le nostre mani,

quando vuole solo parlare al cuore dell’altro e dell’altra,

quando siamo in due o in più e i nostri discorsi vogliono principalmente tenere l’altro e l’altra in nostra vicinanza perché la loro compagnia ci dona agio e senso di realtà.

La lingua può anche non voler solo comunicare, non voler metterci in relazione con l’altro, non partecipare alla materialità del mondo, nè discutere nè adulare ma essere essa stessa fonte di piacere o di benedizione.

Lo dico, perché da straniera sono abituata ad ascoltare prima la qualità della voce, il timbro, la musicalità delle parole e solo, successivamente, il loro significato. Nella lettura ad alta voce in gruppo mi trovo proprio a mio agio perché mi offre non solo l’informazione del testo bensì anche la melodia del dire.

E’ così fin dall’inizio nella nostra lingua materna. – Julia Kristeva lo chiama linguaggio semiotico – quando “la lingua è indifferente al linguaggio, quando la lingua è enigmatica e femminile, spazio ritmico, scatenato, irriducibile a una intelligibile traduzione verbale; musicale, anteriore al giudizio.”

Allora siamo in quella dimensione del linguaggio magico poetico o mistico filosofico nel quale avvengono delle misture di parole inconsuete, suoni che salgono alla bocca da una profondità temporale mai vissuta prima.

Questa è una parte della lingua materna, la fase pre-linguistica che prepara già tutte le possibilità della lingua verbale e anche la sua continua eccedenza.

Non per ultimo incontriamo la lingua materna in tutta la sua materialità nella nostra poesia. Essa è il timbro lirico, la cava di materiali, e la generatività del linguaggio. Anche il “semiotico” di Julia Kristeva è il livello musicale della poesia. è ciò che il bambino articola con il suo balbettare prima di imparare le parole durante il processo d’apprendimento del linguaggio. Lei attribuisce grande importanza a questa modalità di significazione. Dalla sua biografia sappiamo che questo aspetto della lingua le deriva anche dalle preghiere ortodosse di suo padre i quali, prima di esprimere un pensiero logico, praticavano una meditazione in lingua sull’essere nel mondo.

La lingua della poesia e la lingua dei sacri testi hanno questa caratteristica in comune:

dispensano in se stesse qualcosa.

Nella lingua, con la lingua e attorno alla lingua di questi testi accade qualcosa.

Le parole della poesia entrano in un tempo qualitativo che non è nè un tempo del passato, nè del presente, nè del futuro

È come un tempo eterno senza inizio e senza fine, senza soggetti e senza oggetti, una pura presenza, un tempo dell’amore.

La lingua della poesia e la lingua dei sacri testi entrano in vibrazione con i suoni dell’universo. L’esperienza del sacro nella parola ci riporta all’inizio, al nostro inizio.A quel intervallo fra la parola e il senso dove tutto è ancora musica.

Con la contrizione del cuore (p 118)

La perfetta pazienza (p 118)

Le virtù vive (p 119)

Con la colpa del peccato (p 121)

Non vale la vita eterna (p 121)

Per menarlo al macello (p 121)

Comandamenti e consigli (p 123)

 

L’oralità della lingua di Caterina

Anche se aveva imparato a scrivere preferì dettare il Dialogo.

Raimondo da Capua ha trascritto ciò che Caterina gli dettava e poi ha anche tradotto dal senese il testo del Dialogo in latino, “parola per parola, senza aggiungere nulla di suo”. (introduzione p. XXXVI).

Ed è questa la via per avere un ritmo e un immaginario che arrivino direttamente dalla lingua orale e dalla lingua ascoltata, senza la mediazione della scrittura.

L’oralità si distingue dalla scrittura in modo qualitativo. Non si tratta, infatti, di un discorso orale trascritto semplicemente. La scrittura che nasce come scrittura sceglie già fin dall’inizio delle caratteristiche che sono utili a un pensiero più astratto, più concettuale. Il discorso orale trascritto, invece, nasce in una dimensione senza riferimento a un codice scritto. La persona che parla non immagina il riferimento a una parola stampata ma immagina la situazione. Il suo riferimento resta la realtà concreta che si percepisce con tutti i sensi. Ciò che dice nasce da un discorso memorizzato nel tempo, presente alla propria mente e al proprio cuore. Inoltre, sgorga da una sorgente inconscia, in parte, dalle visioni e dai sentimenti che si fanno strada nelle parole. Il discorso orale è sempre presente, attuale, il pensiero del momento che si costruisce sulla base delle esperienze passate ma non può non porsi in viva relazione con ciò che succede in quel momento perché tutto il resto ormai è più distante per una questione di impossibilità di ricordarlo esattamente senza l’aiuto di un testo scritto.

In questo contesto nascono anche delle metafore molto vivide, come per esempio:

Nella valle dell’umiltà (p 10)

Il cane della coscienza (p 12)

Vomicano el fracidume de’ peccati

verità eterna, mare pacifico (p 75)

il veleno dell’invidia (p 90)

Il pensiero dell’oralità è totalizzante (Ong, p.87). L’arte orale è generalmente “enfatica e partecipativa piuttosto che oggettiva e distaccata” (Ong, p. 75). La scrittura crea, invece, un distacco fra autrice ed espressione. Il mondo orale tende ad esprimere polarizzazioni fra il bene e il male, fra virtù e vizio, fra malvagi e uomini e donne sante. Alcuni esempi di espressioni enfatizzate sono le seguenti:

Tu, abisso di carità,

pare che impazzi delle tue creature,

come se tu senza loro non potessi vivere (p 67)

Dettare a memoria i propri pensiero vuol dire anche ritornare spesso sulle stesse espressioni. Si chiama stile formulaico quando si riprendono in vari contesti le stesse metafore, le stesse espressioni, le stesse unità verbali, come per esempio nei seguenti versi che sono ripresi in vari capitoli del Dialogo:

dolce e amoroso verbo(p 62)

amare me che so’ somma Verità.

O pazzo d’amore

ebro d’amore verso la salute nostra (p54)

La ridondanza della lingua orale non è solo una caratteristica strutturale dovuto al procedere della mente ma ottiene anche degli effetti tipo mantra.

 

Il mantra

“Non c’è parola che non sia un mantra, dice la sapienza orientale.

Il Mantra è una potente e breve formula sonora spirituale che ha la capacità di trasformare la coscienza.

Tutte le grandi religioni hanno prodotto potenti formule spirituali per poter richiamare questa Realtà Ultima. Queste formule fanno parte di una più vasta serie di preghiere anche se il Mantra non è una vera e propria preghiera; con la preghiera, infatti, noi chiediamo qualcosa, mentre con il Mantra cerchiamo di avvicinarci al divino. Il Mantra ha anche una funzione calmante a livello mentale ed è uno dei modi più semplici per manifestare la presenza del divino.

Sono le nostre parole della lingua materna che sono il mantra primo che abbiamo sentito, che ci hanno donato. Parole dell’ordine del “si”, del benvenuto alla vita.

La lingua della madre celebra il mondo.

Celebrare il mondo, amare il mondo è una forma di religione universale.

Caterina è una poeta dell’amore. Le sue innumerevoli espressioni poetiche ne sono la testimonianza:

 

Sinestesia

Con sinestesia si indica il fatto che alcune persone sentendo una parola o un suono percepiscono delle immagini o degli odori o dei colori o delle forme. Probabilmente questa capacità umana è innata ma viene cancellata, cioè rimossa con l’avanzare dell’infanzia, ma che rimane in una forma inconsapevole.

E stato fatto un’esperimento con un oggetto tondo o un altro spigoloso. La parola inventata “maluma” e la parola inventata “takete” sono stati attribuiti la prima all’oggetto tondo e la seconda all’oggetto spigoloso.( Vedi: Sprache und Psyche: (http://ieao.de/plansprache/psyche.htm)

 

Fonosimbolismo

Suono e significato appaiono indissolubilmente connessi tra loro ai membri più ingenui di qualunque comunità linguistica esistente.

Si tratta di un legame naturale oppure un rapporto convenzionale?

“Il termine simbolismo fonetico si riferisce a una serie di fenomeni di varia natura e tipologia nei quali ad un suono o una sequenza di suoni si riconosce il valore semantico in modo diretto e non mediato dalla grammatica.”

Si parla anche di iconismo linguistico e di onomatopea.

Storicamente, si credeva che ci fosse un legame naturale fra la parola e il significato, e quindi tra il linguaggio e il mondo rappresentato.

La teoria linguistica moderna è basata sul principio dell’arbitrarietà del segno: nelle lingue, il legame tra il significato e il significante non è motivato in modo diretto e naturale, ma è arbitrario e convenzionale.

Le due visioni opposte sulla natura del linguaggio si possono superare quando si parte dalla posizione della lingua materna. La lingua materna è sia arbitraria che anche naturale. In assoluto il linguaggio della società è arbitrario in quanto ogni gruppo umano ha creato nel tempo il suo proprio linguaggio, diverso da quello di una altro. Ma nell’infanzia quando avviene l’introduzione del neonato nella società la madre partecipa la sua lingua come un fatto naturale. I suoni della lingua materna sono già significato e le parole sono inizialmente nomi che non possono essere pensati senza il loro contesto e la loro funzione.

Il linguaggio materno fa uso prevalente del fonosimbolismo. Certo sarà un simbolismo non universale ma particolare. Ogni lingua sviluppa il proprio simbolismo fonico e con la lingua materna tutte e tutti noi sviluppiamo una sensibilità fonica.

Per i parlanti italiani i fonemi sibilanti /s/ e /ʃ/ sono associati con l’idea di «movimento sinuoso», essenzialmente perché compaiono come suoni iniziali di parole come serpente, scivolare, sciare, sciogliere; nel gruppo /fl/ si può individuare un valore iconico di «mollezza», come testimoniano vocaboli come floscio, flaccido, fluido (cfr. Dogana 1983: 199).

/l/ può facilmente evocare l’idea di «liquidità» o di «luce», (Matilde di Magdeburgo, La Luce Fluente della Divinità)

ancora una volta per la sua presenza in parole come flutto, fluido, liquido, luce, brillare, lume, barlume (analogamente, in inglese float, flow, gleam, glitter), mentre /r/ rinvia a impressioni di «movimento rapido», «rotolamento», ma anche di «durezza», ben espresse nei lessemi italiani duro, rapido, ruvido, rotolare, vibrare, tremare, ecc.

Sono infine da ricordare associazioni fonosimboliche di tipo psicologico e psicanalitico, in particolare le connotazioni rispettivamente di «mascolinità» e «aggressività» per /r/ e di «femminilità» e «dolcezza» per /l (cfr. Fónagy 1991: 500 segg.).

In altre lingue, per esempio il finlandese, il fonosimbolismo sarà di un altro genere, comunque esiste ugualmente. “Rakkaus” per esempio non sarebbe “amore” per la sensibilità fonica di una persona di lingua romanza.

Per ciò si può dire che anche il fonosimbolismo è una convenzione di ogni cultura anche se con la lingua materna noi la apprendiamo come naturale.

Nell’età adulta perdiamo, in parte, questa sensibilità fonosimbolica ma la letteratura in generale e la poesia in modo specifico ci fanno tornare a quel antico sentire. Certo, se la critica letteraria insiste troppo sugli aspetti del contenuto perdiamo l’attenzione per la forma fonica, e perciò per il significato inconscio del testo. Anche alla scrittura si può imputare la disattenzione verso la forma fonica della lingua.

Si, il fonosimbolismo rivela una specie di inconscio del testo.

 

L’inconscio della lingua

Per Maria Zambrano che voleva essere un carrion (Quasi unautobiografia”, in “aut aut”, n. 279, 1997, pp). era importante essere una scatola ritmica. Il ritmo è un momento qualitativo che porta verso la verità. La parola all’inizio è ritmo e il ritmo orienta verso la verità. La parola che ha ritmo è anche fertile.

Quella musicalità la troviamo a ogni rigo nel Dialogo come per esempio in questa frase dove tutto veleggia con la f e la v:

tu lo spegnesti col vento della superbia e vanità di cuore, del quale facevi vela a venti che erano contrari alla salute tua (p 94)

Così pure nella linguistica dei Dogon del Mali centroafricano la parola di verità ha “olio”, è ancora densa di significato, cioè situazionale e ritmica.

La lingua materna all’inizio è ritmo e canto e filastrocca. Non apprendiamo solo le parole. Prima la madre ci avvicina alla musicalità della nostra futura lingua e nella musicalità è contenuta la traccia sia grammaticale che di significato.

 

La forma poetica

Tutto il testo del Dialogo di Caterina da Siena è ricco di forme poetiche di ogni genere ma usa prevalentemente allitterazioni e assonanze vocaliche e assonanze consonantiche. Sono particolarmente espressive nelle parti dove si addensano i contenuti per lei più importanti.

Particolare l’uso delle allitterazioni in p/v:

Sappi che ne l’ultimo dì del giudicio, quando verrà il Verbo del mio Figliuolo con la divina mia maestà a riprendere il mondo con la potenzia divina, egli non verrà come poverello, sì come quando egli nacque, venendo nel ventre della Vergine e nascendo nella stalla fra gli animali, e poi morendo in mezzo fra due ladroni.(pp. 98)

Un altro esempio in p/r (la r della forza e potenza):

Non verrà così ora in questo ultimo punto, ma verrà con potenzia a riprendere egli con la propria persona e non sarà alcuna creatura che non riceva tremore, e renderà a ogni uno il debito suo (p 99)

Forma contenuto e stile coincidono felicemente per trasmettere il senso del suo dire, non solo in modo razionale ma in forma musicale che accende l’anima per farla sintonizzare sulla verità non verbale.

Particolare l’uso delle allitterazioni in l (liquido e scivoloso) e s (movimento sinuoso):

Allora Dio, vollendo l’occhio della sua misericordia verso di lei, lassandosi costrignere alle lacrime e lassandosi legare alla fune del santo desiderio suo, lagnandosi diceva: Figliuola dolcissima, la lagrima mi costrigne perché è unita con la mia carità ed è gittata per more di me e mi legano i penosi desideri vostri. (p 45)

Un altro esempio in v/p:

Ma questo vasello debba essere pieno, cioè portandole tutte con affetto d’amore e con vera pazienzia, portando e sopportando i difetti del prossimo vostro con odio e dispiacimento del peccato. (p 38)

L’alliterazione è una forma poetica molto usata nella tradizione germanica e nordica ,in genere, meno in quella italiana, ma è tipica dei testi religiosi. Sono una forma di invocazione e sono usate nelle formule di magia.

Inoltre sono la traccia di un antico parlare, il parlare della madre nei primi anni di vita, di cui non abbiamo coscienza ma che si conserva nella prosodia e nell’affetto con il quale rivestiamo le vocali e le consonanti. Le prime consonanti restano un faro nella vita delle nostre parole: così la m di mamma e la p di papa e la b di bambino, cioè le bilabiali, che sono le prime consonanti che si staccano dalle labbra usate prima solo per succhiare.

dolore della pena che per le colpe loro aspettano (p 95)

La d sembra esprimere dolore e la p sembra esprimere pena in questo contesto.

La forma consonantica non appare arbitraria ma tutt’uno con il significato in una unione mistica che ancora oggi io stessa percepisco chiaramente come, per esempio nell’ulteriore brano preso dal Dialogo tutto sull’allitterazione in t:

E questo facesti tu, Trinità eterna, che l’uomo partecipasse tutto te, alter ed eterna Trinità. Unde gli desti la memoria acciò che ritenesse i benefizi tuoi, nella quale partecipa la potenzia di te, Padre eterno; e destigli l’intelletto, acciò che conoscesse, vedendo, la tua bontà e partecipasse la sapienza de l’unigenito tuo Figliuolo; e destigli la volontà, acciò che potesse amare quello che l’intelletto vide e conobbe della tua verità, partecipando la clemenzia dello Spirito santo. (Dialogo, p. 43)

 

La lingua di Caterina da Siena mi era diventata tanto cara da volerla, a mia volta, cercare di parlare in una qualche poesia che inserisco qui di seguito:

Umanità dissestata

Amaritudine di cuore e ragione

gravezza del corpo

amore che vorrebbe sfociare in movimento

senza allontanarsi dall’acqua

dalle sorgenti

gli inizi sempre riprovati

le nascite in gioia

il salto indietro e avanti

e dove ancora

senza lume della vera direzione

La cuoca sta preparando già il pasto della sera

ci metterà nei lettini degli infanti

per sognare

per rinascere al desiderio

mio e tuo

dell’ammirabile mondo

per intonarsi sulle corde del vivente

lungo gli irti sentieri del presente

Sempre ed ancora

 

 

Note:
I miei riferimenti principali risalgono a:
Jack Goody, Il potere della tradizione scritta, Torino 2002.
Walter J. Ong, Oralità e scrittura, Bologna 1986
Julia Kristeva, La rivoluzione del linguaggio poetico (1974), Venezia: Marsilio, 1979;
Caterina da Siena, Il Dialogo”, Edizioni Cantagalli (a cura di Giuliana Cavallini), Siena 1995..