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per amore del mondo Numero 9 - 2010

Filosofe dal passato

Il dono della vergine giusta

Appassionata della vicenda storica di Ipazia d’Alessadria, seguo con interesse il dibattito di questi giorni suscitato dal film Agora di Amenàbar, finalmente sugli schermi italiani. Il film, a mio parere, è capace di trasmettere con rigore quasi filologico il senso della vicenda storica della filosofa. Me lo conferma l’intervento di Stefano Cardini[1] in risposta a Carlo Conni[2] sul blog www.phenomenologylab.eu, quando avoca al personaggio cinematografico di Ipazia il carattere precipuo dell’azione del giusto.

 

La filosofa, astronoma e matematica neoplatonica – scrive Cardini -, mentre là fuori l’antica Alessandria in cui è cresciuta brucia, s’ostina a ricercare un modello più esplicativo del moto degli astri … Strano esempio di razionalità, si potrebbe sostenere. Eppure proprio lei sembra essere rimasta l’unica, ad Alessandria, a riuscire a distanziarsi dai propri sentimenti (e dalle proprie ragioni) quanto basta per non dimenticare mai di avere di fronte chi ha di fronte; tenendo quindi sempre in sé viva la possibilità di riconoscere empaticamente i motivi (incluse le buone ragioni) degli altri… Quel che cambia, e che c’induce a vedere in Ipazia più che negli altri l’azione di un giusto, è l’ordine dei motivi (e delle ragioni) dai quali la filosofa s’è lasciata determinare: norme di verità e giustizia colte nella loro universalità (validità per ognuno); le sole norme determinanti per l’habitus nel quale essa è stata cresciuta, e di cui l’esercizio della matematica, dell’astronomia e della filosofia erano considerate parti non-indipendenti di un’universale paideia.

Le fonti storiche su Ipazia ci parlano e insistono su questa particolare caratteristica di Ipazia.

 

Era di natura più nobile del padre

In primo luogo le fonti testimoniano una particolare predisposizione di Ipazia alla pratica filosofica. Ipazia viene infatti definita dal filosofo neoplatonico Damascio gennaiote‰ra (più nobile) del padre[3]. Il significato di questa affermazione di Damascio è da decodificare attraverso il rimando ai dialoghi platonici. Nel IV libro della Repubblica, trattando dell’elemento animoso dell’anima, il quale è disponibile ad allearsi sia con la ragione sia con l’anima concupiscibile, e che per questo deve essere rettamente indirizzato dall’educatore, Socrate afferma: “Non è vero che quanto più uno è nobile (gennaio‰teroı) di cuore tanto meno è capace di arrabbiarsi per la fame, il freddo, qualsiasi altro simile disagio che gli viene da chi secondo lui fa questo giustamente?”[4] Di tale natura dovrà essere colui che si accinge alla filosofia: “una persona di buona memoria, tenace e amante di ogni genere di lavoro”[5], una persona disposta a sobbarcarsi le fatiche fisiche che comporta lo studio e l’esercizio della filosofia. Nei dialoghi platonici è il giovane Teeteto, divenuto in seguito famoso matematico e cittadino rinomato per il suo coraggio, a impersonare l’ideale di questa natura perfetta. Anche per Damascio, riproponendo l’ideale socratico, Ipazia si presenta quale realizzazione dell’ideale del perfetto filosofo e offre un modello per i filosofi di ogni tempo. Soltanto tenendo presente Socrate come termine di paragone possiamo quindi capire in che senso Damascio definisca Ipazia “dialettica”, là dove egli torna a puntare l’attenzione sulla caratteristica peculiare della sua natura:

era pronta e dialettica nei discorsi, accorta e politica nelle azioni[6].

Come Socrate, Ipazia realizza pienamente l’ideale della virtù politica, la quale sola permette di accedere al “resto della filosofia”[7]. La questione dell’imprescindibilità della virtù pratica per poter accedere alla vera filosofia è chiarita meglio più avanti nella Vita di Isidoro, dove Damascio attinge al modello di filosofa realizzato da Ipazia e lo usa come discrimine tra “erudituncoli” e “veri filosofi”:

“infatti la virtù che viene praticata all’interno della vita politica nelle azioni e nei discorsi politici esercita l’anima ad acquisire più vigore e tramite l’esperienza rafforza maggiormente quanto di essa vi sia di sano e perfetto; invece quanto si annida di falso e fittizio nelle vite umane, tutto questo viene messo a nudo e reso più pronto alla correzione. … Perciò gli eruditi che stanno seduti in un cantuccio e filosofeggiano con aria grave e in modo altisonante circa la giustizia e la temperanza, quando siano costretti dalla necessità ad uscirne per agire compiono azioni senza senso e di cui vergognarsi. Poiché ogni discorso qualora manchino le opere, sembra vano e vuoto”[8].

A cinquanta anni dalla morte di Ipazia, e con l’obiettivo di una nuova rinascita culturale guidata ancora una volta dalla scuola filosofica di Alessandria, la via che Damascio propone ai suoi contemporanei è quella dell’impegno politico: è necessario che i filosofi tornino a occuparsi dell’educazione dei futuri politici e a esserne, perciò, gli interlocutori privilegiati. Nella storia della scuola di Alessandria, Damascio ha un modello cui attingere e da portare all’attenzione di quante e quanti sono ancora disposti a scommettere sulla vera filosofia: quel modello è Ipazia. In lei Damascio ammira e mette in luce proprio la grandezza che viene dalla virtù politica, la quale sola permette di accedere alla vera filosofia e di realizzare così quell’ideale, già prospettato da Platone, dell’incontro tra filosofia e politica.

 

Il modello socratico – platonico versus la chiesa gerarchica degli episcopi

Al tempo di Ipazia, in Egitto e a Costantinopoli, vi fu un’affermazione del valore dell’azione politica di contro alla svalutazione di cui era stata fatta oggetto in quasi tutta la tradizione filosofica dopo Platone[9] e, contemporaneamente, in linea con quella che all’epoca viene considerata la genuina tradizione socratico-platonica, un forte ridimensionamento del valore accordato alla politica istituzionale. La contrapposizione tra il genere di vita sostenuto e praticato dagli ambienti filosofici ellenici e il genere di vita emergente nell’ambiente cristiano ortodosso era radicale: la via verso il basso degli uni era la via verso l’alto degli altri. A questo proposito è emblematico l’epigramma del poeta alessandrino contemporaneo di Ipazia, Pallada dedicato a Temistio, filosofo e oratore che accettò alte cariche pubbliche e fu perciò criticato dall’ambiente degli elleni; l’epigramma sostanzia le accuse che a Temistio furono rivolte da questi ambienti e dalle quali si difese attraverso diverse orazioni pubbliche:

Sedevi in alto sulla volta celeste e ti venne desiderio d’un cocchio d’argento. Oh incommensurabile onta. Da grande qual eri ti facesti ben piccolo. / Ma ti prego, rifai la via in su, quella appunto che in giù tu credesti portasse, giacché, credendo di ascendere, in realtà sei disceso[10].

Gli episcopi cattolici miravano a istituzionalizzare e concentrare stabilmente il potere e l’autorità nelle mani di pochi: gli episcopi fedeli al credo di Nicea. Di fatto, il luogo della politica così come del sacro veniva a essere l’istituzione ecclesiastica e l’autorità politica e spirituale non doveva più derivare dal carisma e dalla coerenza di vita e pensiero, ma dalla posizione occupata nella gerarchia. Di fronte all’emergere del nuovo ordine, però, gli elleni e le ellene non si sentirono costrette a rifugiarsi in un passato mitico e idealizzato: si richiamarono piuttosto alla tradizione e le conferirono una nuova forza e un nuovo valore alla luce della presente necessità politica. Gli ambienti degli elleni di Costantinopoli e Alessandria, nei quali, vale la pena di ricordarlo, vi erano anche uomini e donne di religione cristiana, misero in campo un ideale di vita e di politica antitetico a quello proposto contemporaneamente dagli episcopi: piuttosto che sul potere che viene dall’essere anello di una scala gerarchica, puntarono sull’autorità che viene dall’intelligenza sul mondo e dal coraggio nell’esporsi. Ipazia incarnò per questi ambienti la realizzazione più integra di questo ideale. Per i contemporanei Ipazia rappresenta la Vergine giusta che ritorna e che, comparendo sulla terra, annuncia il ritorno della mitica età dell’oro.

 

Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna[11]

Questa lettura delle fonti su Ipazia non ha precedenti nella storiografia che della filosofa si è occupata. Ho azzardato questa ipotesi nel mio libro Ipazia d’Alessandria del 1993. Questa lettura si basa su un attento lavoro filologico, illuminato dalla ricostruzione della vicenda storica di Elisabetta I proposto da Frances A. Yates[12] e ha come perno la lettura della biografia filosofica dedicata dal filosofo neoplatonico Damascio a Ipazia. Le storiche che dopo di me hanno letto queste stesse fonti – mi riferisco a M. Dzielska[13] e Silvia Ronchey[14] hanno liquidato con una certa fretta l’una[15] con una certa supponenza l’altra questa lettura, entrambe non tenendo a mio parere in debito conto la fonte citata[16]. In primo luogo è il poeta Pallada, a parlarci della vergine Ipazia. Il poeta dedica alla filosofa questo epigramma:

Quando ti vedo mi prostro (proskunw`≠), davanti a te e alle tue parole, / vedendo la casa astrale della Vergine, / infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto / Ipazia sacra, bellezza delle parole, / astro incontaminato della sapiente cultura (paideu‰sew~)[17].

La donna terrena viene riverita come una divinità (a questo allude proskunw`≠) e diviene immagine della vergine astrale. Ipazia è in tal modo riconoscibile come “l’astro incontaminato della sapiente cultura”, simbolo di rinnovamento e di continuità su cui si concentrano le aspettative e le contraddizioni di un’epoca inquieta.

Nel filosofo neoplatonico Damascio l’identificazione di Ipazia con la Vergine divina è meno esplicita e, oserei dire, più iniziatica, inaccessibile a quanti si fermano a livello degli a‰pai‰deutoi lo‰goi.

Scrive Damascio:

 

Oltre che nell’arte di insegnare, (Ipazia) giunse al grado più alto della virtù pratica, essendo cioè giusta e saggia continuò a essere vergine per tutta la vita, ed era così bella e avvenente che anche uno di coloro che solevano frequentarla cadde innamorato di lei.

Egli non era in grado di dominare il suo amore, ma offriva anche a lei lo spettacolo della sua passione.

I discorsi rozzi, dunque, dicono che Ipazia lo liberò dalla malattia attraverso la musica; la verità, invece, proclama che già da tempo i rimedi offerti dalla musica avevano fallito, e che, invece, lei stessa presentandogli una delle pezze usate dalle donne per il mestruo, + gettatagliela + e mostrandogli il simbolo della generazione impura, disse “questo, dunque, ami o giovane, niente di bello”. … Egli, vergognoso e smarrito a causa dell’indecente dimostrazione, si turbò nell’anima e assunse un atteggiamento più assennato. Poiché tale era la natura di Ipazia, era cioè pronta e dialettica nei discorsi, accorta e politica nelle azioni, tutta la cittadinanza, a buon diritto, la amava e la ossequiava (proseku‰nei) grandemente, e i capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti andare prima da lei[18].

 

L’interpretazione del passo è complessa per la densità di riferimenti filosofici che sono presupposti per capire il vero significato del testo.

Partiamo dal primo capoverso: questo passo – così come quello che lo segue – è tutto giocato su un effetto di paradossalità e di rovesciamento: chi si reca come studente alla scuola di Ipazia “per farsi istruire in questioni erotiche”[19] impara da lei a dirigere e ordinare i suoi impulsi sotto la guida della ragione e, quindi, a procedere gradualmente verso l’amore di ciò che è bello e alla conoscenza dei più alti misteri; da qui, poi, tornerà alle occupazioni terrene, amandole per il bello che saprà riconoscere in ognuna e, tuttavia, capace di mantenere il giusto distacco da esse. Quel giovane e audace studente, invece, devia dalla strada che la maestra gli indica e infatti (secondo capoverso) risulta non essere più “in grado di dominare il suo amore”, offrendo anche a lei “lo spettacolo della sua passione”.

Lo spettacolo della sua malattia è sotto gli occhi della maestra: l’errore del giovane crea disordine, disagio; è fonte di sofferenza per lui e di fastidio per lei, poiché in questa situazione la sua parola non può aver corso, la sua autorità docente non ha luogo.

Ma qual è questo errore? In che cosa consiste la colpa del giovane se è stata proprio la nobile natura di Ipazia a suscitare in lui quell’amore? E’ qui che si gioca il paradosso. Questo giovane, sinceramente spinto dal desiderio di apprendere l’amore del bello, è stato pressoché costretto a innamorarsi della straordinaria bellezza incarnata dalla sua maestra: la vergine Ipazia, dice infatti Damascio, era così bella e avvenente (kalh‰ te ou»sa kai‰ eueidh‰ı) che persino uno dei suoi studenti cadde innamorato di lei.

E’ proprio la natura di Ipazia, di questa donna “bella e avvenente” (kalh‰ te ou»sa kai‰ eueidh‰ı), a costringere il giovane a amarla. L’errore del giovane non sta quindi nella scelta dell’oggetto verso il quale indirizzare il suo amore – in verità egli non ha scelta -, ma risiede, piuttosto, nella sua disposizione verso quell’oggetto, nel suo impulso sfrenato: l’errore è il suo desiderio di sedurre la maestra. Ma la sua maestra è vergine, non è seducibile.

L’impeto del giovane trova qui un ostacolo insormontabile, l’espressione sregolata della sua sessualità si deve confrontare con una misura, un limite. Il gesto pedagogico e civilizzatore di Ipazia è possibile solo a partire dalla non sollecitabilità del suo corpo, dall’iscrizione simbolica della sua inviolabilità[20], dalla sua verginità, appunto.

Da Damascio, però, veniamo a sapere anche qualche cosa di più e cioè che la vergine bella e avvenente che si presenta al cospetto dello studente innamorato non è altri che Dike, la vergine dea della giustizia. In che modo lo veniamo a sapere? Sempre per via filologica. L’espressione che Damascio usa per indicare Ipazia, infatti, presenta una corrispondenza quasi testuale con un passo dei Racconti egiziani o la provvidenza di Sinesio in cui viene evocata la vergine giusta:

`

i‰k, so‰ te ou»sa kai‰ eidui¿a[21]

 

la chiama Sinesio (“Dike, sapiente e acuta”, ossia “colei che nella sua saggezza sa ben controllare i momenti opportuni”). Le sue parole, così come quelle di Damascio, sembrano richiamare volutamente l’esordio del Critone, ove Socrate racconta all’amico, che è venuto a trovarlo in carcere, un sogno sopraggiuntogli poco prima del risveglio:

 

Io vidi come venirmi dinanzi una donna bella e di piacevole aspetto (kalh kai eueidhı), in candida veste; e mi chiamava per nome, e mi diceva: ‘o Socrate, nel terzo dì da questo, a Ftia tu giungerai, ricca di zolle’[22].

 

Kalh‰ kai‰ eueidh‰ı (bella e avvenente) definisce Platone questa donna divina che ridiscende tra gli esseri umani per chiamare presso di sé Socrate, l’uomo giusto che la terra corrotta costringe all’esilio.

Kalh‰ kai‰ eueidh‰ı (bella e avvenente) definisce Damascio la donna che, giunta al grado più alto della virtù pratica, divenuta, cioè, giusta e saggia, ha assunto natura divina, è divenuta una dea: la dea Dikh, l’amata vergine giusta.

E’ molto probabile che Damascio avesse sotto gli occhi il passo del Critone e lo evocasse consapevolmente. Tuttavia, la corrispondenza tra la formula da lui usata – Kalh kai eueidhs – con l’espressione di Sinesio, – i‰k, so‰ te ou»sa kai‰ eidui¿a – induce a un’ipotesi diversa. Non è inverosimile, infatti, che i due filosofi, appartenenti alla medesima tradizione di pensiero cui Ipazia dette una nuova linfa, attingessero a una fonte comune o, comunque, si riferissero a un modo di dire entrato nell’uso corrente.

 

 

 

 

 

E ora il mio occhio ti ha visto

 

E’ ancora Sinesio che ci aiuta a fare un passo avanti nella lettura del complesso passaggio di Damascio, a proposito del gesto che io definirei “civilizzatore” di Ipazia. Per ben comprendere quanto Damascio riferisce a proposito dell’episodio della miracolosa guarigione del giovane malato d’amore per la maestra, è necessario dare ascolto a ciò che Sinesio dice nel Dione a riguardo della relazione pedagogica maestra – allievo.

In questa opera, che egli dedica alla difesa del suo ideale di vita, Sinesio delinea con brevi ma efficaci tratti il rapporto maestra/allievo che intercorreva tra Aspasia e Socrate. Il rilievo che viene dato alla relazione Aspasia/Socrate – per certo figura dell’attuale rapporto Ipazia/Sinesio – come l’origine del sapere del filosofo, è in perfetta sintonia e continuità con la tradizione platonica: in essa, infatti, la relazione pedagogica viene costantemente considerata la fonte del sapere e proprio questo legame fa sì che vi sia una tradizione.

Questa relazione è, propriamente, un rapporto d’amore che si instaura tra maestro e allievo in virtù della seduzione operata dal primo sul secondo: il gioco della seduzione induce l’anima dell’amato/amante (quale si trova ben presto a essere il giovane sedotto) al movimento ascendente verso la contemplazione del bello e quindi alla conoscenza del bene.

Questo gioco erotico tra maestro e allievo è ben descritto da Platone nel Simposio, soprattutto attraverso l’elogio che Alcibiade indirizza alla volta di Socrate: un elogio che, in verità, è la narrazione di come Socrate abbia insultato il giovane uomo spregiando la sua bellezza e la sua offerta d’amore[23]. Alcibiade, uomo ambizioso e sfrenato nelle sue passioni, si vergogna di questo suo comportamento soltanto davanti a Socrate e solo lui giudica degno oggetto del suo amore. Ma quando, credendosi amato dal maestro, cerca di prenderlo a sua volta nella sua rete d’amore, Socrate gli risponde:

 

Ecco tu vedresti in me una irresistibile bellezza del tutto incomparabile pure alla grazia delle tue forme: se avendola scoperta cerchi di appropriartene barattando bellezza con bellezza, miri a non guadagnarci ben poco alle mie spalle! Via, in cambio di una bellezza apparente tenti di guadagnarci una bellezza vera e calcoli, alla lettera, di scambiare “oro con rame”[24].

 

Questo episodio del Simposio sembra essere l’antecedente letterario/filosofico attraverso cui Damascio tenta di restituire il senso del gesto maieutico di Ipazia. Se ritorniamo al testo vediamo che, per cominciare, secondo Damascio circolavano dei discorsi rozzi, senza cultura (apaideutoi logoi), i quali affermavano che Ipazia aveva liberato il povero innamorato dalla sua malattia attraverso la musica. Si tratta, però, secondo Damascio di una versione edulcorata degli eventi, “perché già da tempo i rimedi offerti dalla musica avevano fallito”. Questa versione che Damascio respinge, dunque, non è tanto falsa quanto piuttosto incapace di vedere fino in fondo la verità e, per questo motivo, essa si merita di essere definita apaideutos (senza cultura, rozza). L’errore di quanti Damascio definisce “rozzi”, e di molti studiosi contemporanei al loro seguito, è sempre stato quello di isolare l’oggetto (il panno che le donne utilizzano per il mestruo) dalla donna che lo presenta e, ulteriormente, di scindere la parola dal gesto. Separati in questo modo, il gesto e la parola di Ipazia perdono la loro forza e il loro significato e sembrano veramente incompatibili con la maestra di filosofia: ella parrebbe, infatti, sconfessare un postulato fondamentale della filosofia greca secondo il quale è la visione di ciò che è bello e mai di ciò che è brutto e deforme a muovere al desiderio del bene, a spingere l’anima verso l’alto. Ipazia sembrerebbe invece mettere in campo ciò che è osceno, senza forma, veramente vergognoso, e da questo dovrebbe dipendere la “guarigione” del suo studente. Ma non sono i fatti a doversi trasformare bensì lo sguardo di chi li avvicina. Lo sguardo modificato muove innanzi tutto dalla consapevolezza, che non c’è negli studiosi ottocenteschi, che quello che Ipazia compie non  un gesto di difesa, ma un gesto pedagogico, volto a sedurre ulteriormente il giovane. Riprendiamo l’ascolto di Damascio.

Un giorno dunque Ipazia compare davanti al suo studente con in mano una pezza di quella che le donne utilizzano per il mestruo, gliela mostra e gli dice “questo, dunque, ami, o giovane, niente di bello”. Dopo questa visione il giovane uomo prova un tale smarrimento misto di timore e di vergogna (u‰p’ aiscu‰nhı kaì qa‰mbouı) per quanto è avvenuto che, immediatamente, la sua anima si converte ed egli si dispone in modo più assennato. Finalmente, cioè, segue docile e obbediente l’amata maestra. Ancora una volta per capire che cosa sta raccontando il testo dobbiamo fare ricorso alla filologia.

Damascio mutua i termini con i quali descrive la radicale modificazione interna ed esterna dell’innamorato di Ipazia dal Fedro di Platone. Socrate, riprendendo a narrare del mito del carro alato, spiega al giovane amico in quale modo avvenga la conversione dell’anima al vero amore.

Il carro trainato dai due cavalli e guidato dall’auriga rappresenta l’anima tripartita: l’auriga sta per la ragione; il cavallo buono, naturalmente incline a seguire gli ordini dell’auriga è l’anima impulsiva e, infine, il cavallo cattivo, sempre portato alla disobbedienza, è l’istinto. Se l’auriga si mostra indeciso, è quest’ultimo cavallo ad avere la meglio e a trascinare anche l’altro in una corsa sfrenata e pericolosa. E’ questo, ad esempio, ciò che accade quando l’anima si trova molto vicina al volto amato:

 

Quando l’auriga alla vista del volto amoroso, tutto infiammato l’animo di quella sensazione, è invaso dalla smania e dal pungolo della passione, il cavallo docile all’auriga, costretto ora come sempre dal pudore, si trattiene dal lanciarsi sull’amato, ma il cavallo sordo alle sferzate della frusta, scalpitando è spinto di forza e, mettendo in grande imbarazzo il compagno e l’auriga, li costringe ad avanzare verso l’amato e a rammemorare i piaceri dell’amore afrodisiaco. E i due da principio resistono, infuriati d’essere forzati ad azioni mostruose e proibite, ma alla fine, non trovando un freno al male, spinti ad avanzare cedono e lasciano fare ciò che gli è imposto. E si fanno vicini all’amato e ne vedono la folgorante visione[25].

 

A questo punto il processo si inverte perché la strabiliante bellezza dell’amato si impone con tutta forza alla vista dell’auriga e così:

 

la (sua) memoria è ricondotta alla natura della bellezza e di nuovo la vede alta su un sacro soglio a fianco della Temperanza, e al ricordo di questa visione l’auriga preso dal timore e dalla venerazione cade riverso all’indietro[26].

 

Non più accecato dai sensi, l’auriga vede quell’oro che Socrate preannunciava ad Alcibiade e questa visione gli dà la forza di imporsi al cavallo ribelle e di trattenerlo:

 

Ora che si sono tratti un po’ più lontani dall’amato, il primo corsiero, vergognoso e smarrito (up’aiscunhı kai qambouı) inonda l’anima intiera di sudore, ma l’altro… di nuova cerca di forzarli ad avanzare…. Quando però, spesse volte sottoposto allo stesso trattamento, il malvagio abbandona l’insolenza, ubbidisce finalmente, tutto umiliato, alla guida dell’auriga e, quando vede il bell’amato, muore dalla paura. Così avviene che finalmente l’anima dell’amante tiene dietro all’amato, vergognosa e riverente[27].

 

E’ dunque questo ciò che è avvenuto al giovane e veemente innamorato di Ipazia, e la vergogna e lo sbigottimento di cui parla Damascio non sono stati motivati dall’indecenza di ciò che ha visto ma dall’indecenza che egli stesso ha mostrato cedendo al suo impulso bestiale.

 

 

 

 

 

“Non è lecito a cosa impura toccare cosa pura”

E’ l’amante, dunque, e non l’amata ad aver messo in campo una a‰sch‰mon e‰pidei‰xewı (Damascio): una indecente dimostrazione di sé, della debolezza della sua ragione. Per questo motivo, tutto vergognoso e umiliato, ritrova la giusta misura nel rapporto con la maestra. Ma cosa ha visto di così bello questo giovane che noi ancora non riusciamo a vedere? Può forse venirci in aiuto un altro passo della Vita di Isidoro, in cui Damascio riporta il racconto di un uomo cui accadde un evento molto simile a quello qui descritto a proposito dell’amante di Ipazia: una folgorante visione di fronte a una statua di Afrodite[28]. All’uomo che contempla la statua di Afrodite improvvisamente appare quella bellezza che l’artista ha contemplato e poi infuso nella sua creazione: l’uomo fortunato ha quindi la possibilità di vedere la vera natura di Afrodite che non è quella volgare e sensuale, normalmente conosciuta dal popolo, ma è l’Afrodite Urania, la vergine non sedotta e non seducibile dagli uomini, colei che sa dar mostra della bellezza e del vero amore. L’uomo prosegue raccontando che questa dea gli è comparsa dinnanzi con i tratti di una vergine guerriera, armata e gioiosa come al ritorno da una vittoria. Questa visione provoca nell’uomo uno sconvolgimento tale che egli comincia a sudare dallo sbigottimento e la sua anima si turba profondamente. A quell’uomo, cioè, accadde proprio ciò che era avvenuto all’amante di Ipazia.

Al suo giovane allievo Ipazia compare in qualità di dea dell’amore, la vergine Afrodite. La vergine astrale assume qui uno dei suoi mille volti e nomi. Ma di quale Afrodite si tratta? Il giovane innamorato è evidentemente confuso: nel mondo ingiusto da cui proviene non ha imparato a riconoscere che una forma dell’amore dell’uomo verso una donna: l’amore, cioè, simbolizzato dall’Afrodite volgare, l’amore per i corpi belli, nel quale domina il desiderio che non trova un limite nel suo oggetto d’amore. Di questo amore egli vuole amare Ipazia, ingannandosi forse rispetto alle reali intenzioni di lei e, letteralmente, pretendendo che ella scambi con lui oro con rame.

La vergine Ipazia/Afrodite compie allora un gesto che il giovane non può equivocare: gli compare innanzi in un’azione guerriera; armata del suo sangue mestruale lo fronteggia e lo costringe a ritrovare la giusta distanza da lei, a ritrovare il giusto rapporto di sé con sé.

Misteriosamente, sotto i nostri occhi, la Vergine Ipazia si trasforma con la stessa libertà del simbolo al quale ha associato il suo nome: ella ora è Ni‰kh, ora Afrodite, ora Di‰kh /Dikaiosu‰nh; ogni nome ha una storia, un passato, è una forza tramandata. Se non distogliamo lo sguardo vediamo ancora qualcosa. Infatti questa è un’azione guerriera che non è volta semplicemente a scardinare ciò che non aveva ragione di essere nel modo in cui era; Damascio la presenta soprattutto con i tratti di un’azione medicamentosa, un gesto guaritore, salutare: il giovane malato di un amore così morboso da non poter essere guarito nemmeno dalla musica, viene guarito e restituito alla sua salute mentale attraverso il gesto portentoso della sua maestra di filosofia.

Ipazia/Afrodite ci appare ora nella sua vera natura di maestra – medica delle anime, capace di ristabilire la loro giusta armonia: Ipazia/Igea, la dea della salute fisica e mentale che i pitagorici simbolizzavano con il numero sette. Gli antichi raccontavano che questa dea aveva uno straordinario potere: essa appariva nei sogni o si mostrava in visioni rapidissime e folgoranti che avevano la potenza di restituire, che ne fosse toccato, all’originaria salute fisica e mentale. La dea era riconoscibile poiché appariva con una spiga in mano: attraverso quella spiga – il simbolo della fertilità – il giovane amante riconosce la vera natura di Ipazia.

La Vergine Ipazia che incede stringendo nella mano un panno di quello che le donne usano per il mestruo – il simbolo della generazione impura – si è miracolosamente trasformata: ora ella è la Vergine Igea e nelle mani stringe la spiga di grano, il simbolo benefico, portatore della fertilità.

La donna maledetta e impura che ha assunto su di sé il compito infame di farsi banditrice della materia ingrata e per questo è divenuta intoccabile, miracolosamente si è trasformata nella dea più amata dagli esseri umani, la Vergine portatrice dell’agognata giustizia, inviolabile in virtù della sua natura divina. Improvvisamente, sotto i nostri occhi, come in un processo alchemico, tutto si sta trasmutando e letteralmente il rame si trasforma in oro. O è chi osserva che si trasforma, come forse considera lo studente amante di Ipazia.

“La voce ispirata dice che non è lecito a cosa impura toccare cosa pura”, recita un passo del Fedone[29] molto amato da Sinesio. Di fronte a quanto gli è accaduto, l’amante/amato di Ipazia considera per la prima volta il vero significato di queste parole.

 

 

Ancora sul film di Amenàbar

L’azione con la quale una delle più importanti fonti storiche su Ipazia – il filosofo neoplatonico Damascio – rende riconoscibile la filosofa come la presentificazione terrena della vergine giusta è dunque l’azione mostrata in una delle scene d’apertura del film, quando la filosofa, porgendogli la pezza con il mestruo, guarisce dalla passione amorosa il suo amato allievo (nel film è impersonato dal futuro prefetto Oreste). La citazione filmica del gesto e delle parole di Ipazia è pressoché letterale.

Che Amenàbar ponga al principio della pellicola questa citazione è segno della sua intelligenza sulla vicenda storica di Ipazia. L’azione giusta di Ipazia nei confronti dell’innamorato è infatti l’azione fondativa della sua autorità politica, del suo andare “senza vergogna nel mezzo degli uomini” (Socrate Scolastico). Da Damascio e Sinesio sappiamo quale fosse la natura dell’insegnamento esoterico di Ipazia e a quale presa di coscienza chiamasse gli uomini del suo tempo perché questi potessero divenire suoi alleati nella pratica della virtù politica e nella ricerca del bello e del bene. Il film invece ci porta alla visione di una straordinarietà femminile che lascia alle sue spalle, senza possibilità di confronto, anche gli allievi che l’hanno ascoltata e seguita. Per questo messaggio Amenàbar sacrifica consapevolmente la figura di Sinesio, che dal punto di vista storico non merita certo questo giudizio. Ipazia emerge, pertanto, come l’unica in assoluto a saper compire l’azione giusta. Osserva Stefano Cardini nel già citato articolo: “La scelta del giusto affonda le radici in profondità nell’io e lontano nel passato, suo e della sua comunità animale e umana. È il dono che dopo lungo apprendistato talvolta arriva”. Ipazia è la portatrice di questo dono nella storia e il film di Amenàbar emoziona nel suo essere ponte e punto di trasmissione di questa grandezza che d’un balzo esce dal buio dei millenni per arrivare attraverso la potenza del cinema diritto nei nostri occhi e nelle nostre emozioni più profonde.

 

 

Verona, 18 maggio 2010

 

 

[1]              Intervento del 2 maggio 2010.

[2]              Tempo di libertà. Note sul film Agora di Amenàbar e sul libero volere, 30 aprile 2010.

[3]              Dam, Vita Isidori, 79, 1- 2. Sappiamo che il padre di Ipazia, Teone, fu un importante matematico tradizionalmente indicato come l’ultimo rappresentante del Museo di Alessandria, che ospitò menti eccelse quali Euclide, Aristarco, Apollonio di Perga, Diofanto, Pappo.

[4]              Platone, Resp., IV 440 C.

[5]              Ibid, VII 535 B – C.

[6]                Dam. Vita Isidori, 79, 11 – 16. In altri termini si può dire come riassume bene Michele Martelli, Micromega, 15 maggio 2010: “Possedeva … la virtù greca della parrhsi‰a, cioè la capacità di parlare e agire in pubblico, nella sfera pubblica, e in particolare tra i dignitari e i potenti della città, per discuterne le scelte e le decisioni!”.

[7]              Dam. Vita Isidori, 79, 1 – 4: “Di natura più nobile del padre non si accontentò del sapere che viene attraverso le scienze matematiche e che aveva ricevuto da lui, ma, non senza altezza d’animo, si dedicò anche al resto della filosofia”.

[8]              Dam., Vita Isidori, fr. 324, pp. 257 – 259.

[9]              Su questo punto rimando al testo di A. Garzya, Sul rapporto tra teoria e prassi nella grecità tardoantica e medievale, in Il Mandarino e il quotidiano. Saggi sulla letteratura tardoantica e bizantina, Napoli, Bibliopolis, 1983, pp. 201- 219 e, inoltre, a H. Arendt, La vita della mente, Bologna, Il Mulino 1987 e E. Roncalli, Pubblico e privato in Hannah Arendt, pp. 14 – 53, tesi di laurea anno 1989/1990 Università degli Studi di Milano.

[10]            Pallad., Anth. Pal. XI, 292.

[11]            Virg. Ecl. IV.

[12]            Nel suo bellissimo libro Astrea. L’idea di impero nel Cinquecento, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1990.

[13]            Maria Dzielska, Hypatia of Alexandria, Harvard University Press,1995.

[14]            Silvia Ronchey, Ipazia, l’intellettuale, in Augusto Fraschetti (a cura di), Grecia al femminile, Editori Laterza, Roma – Bari 1994, pp. 213 – 258.

[15]            A questo proposito si veda la recensione di M. Dzielska al mio libro in KOINWNIA, 18, 1994, pp. 216 -219.

[16]            Diversamente da loro, uno dei più importanti studiosi di Sinesio di Cirene, Christian Lacombrade, prese in debito conto questa lettura, e nel corso di una fitta corrispondenza dopo la pubblicazione del mio libro, mi rese omaggio di un suo testo, allora inedito, che recupera e rilancia la connessione che stabilisco tra la fonte neoplatonica e l’ideale politico di Ipazia. Christian Lacombrade, Hypatie, un singulier “revival” du cynisme, manoscritto del 1997. Come Lacombrade anche Gabriele Giannantoni, nella sua presentazione pubblica del mio testo, Roma 15 dicembre 1993 e Carlos Garcia Gual, El Asesinato de Hipatia. Una interpretación femminista y una ficción romántica, “Claves della razón práctica”, 1993.

[17]            Pallad., Anth. Pal. IX 400.

[18]            Vita Isidori, 77, 7 – 17, ed. C. Zintzen, Damascii vitae Isidori reliquiae, Hildesheim, Olms, 1967.

[19]            Si veda su questo il Dione di Sinesio quando parla di Aspasia come e‰rwtodida‰skaloı di Socrate.

[20]            In un articolo degli anni Novanta Flora De Musso e Piera Bosotti (Un sesso da civilizzare, “Via Dogana” n. 1, 1991) parlano del legame tra la “civilizzazione” di alcune forme della sessualità maschile (quali si esprimono ad esempio nei conflitti armati oppure nell’irruenza spesso ostentata di alcuni giovani studenti) e l’iscrizione simbolica dell’inviolabilità del corpo femminile. La consapevolezza che per l’affermarsi della libertà delle donne sia imprescindibile l’iscrizione simbolica dell’inviolabilità femminile è ormai entrata nel senso comune. Questa consapevolezza, per quanto mi è dato sapere, è stata messa in parole da Lia Cigarini della Libreria delle donne di Milano. Su questo punto si può vedere l’articolo, L’iscrizione simbolica dell’inviolabilità femminile, Il Manifesto 20 novembre 1979.

[21]            Syn., De prov. 3, p. 521.

[22]            Plat., Crit. 44 A-B.

[23]            Plat. Symp. 222 B

[24]            Plat. Symp., 218 E  219 A.

[25]            Plat. Phaedr., 253 E-254B.

[26]            Ibid. 254 B.

[27]            Ibid. 254 D – 255 A.

[28]            “Dunque quando vidi questa statua, tutto sudato per lo sbigottimento e lo spavento (upo thambouı kai ekplexeoı) a tal punto la mia anima fu turbata dalla gioia che non ero più in grado di tornare a casa, ma facendo il gesto di andarmene tornavo a guardare questa apparizione, a tal punto l’artista vi aveva infuso una bellezza per nulla molle e sensuale, ma una bellezza dignitosa e virile; ella era armata come se la dea stesse tornando da una vittoria e lasciasse trasparire la sua gioia” (Dam., Vita Isidori, 79, 10 – 11).

[29]            Plat., Phaed. 67 B.