diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo edizione 18 - 2022

Genere e differenza sessuale

Identità di genere e differenza

In questo discorso sviluppo due argomenti. Dapprima ricostruisco la genesi storica del concetto di identità di genere. In un secondo momento descrivo il pensiero politico della differenza sessuale, che è critico nei confronti dell’identità di genere.

1. Parto dall’espressione “identità di genere”. Nell’uso comune che viene fatto oggi di questo termine, c’è un rimando ad una rappresentazione binaria del genere maschile e femminile. Per questa immagine binaria l’uomo e la donna si definiscono per differenza tra loro. L’immagine viene rinforzata dai luoghi comuni più radicati su che cosa significhi essere una donna o un uomo nell’immaginario collettivo. È il modo più abituale di ragionare da parte delle persone.

Il genere maschile e femminile sono costruzioni culturali e sociali, che noi ereditiamo da un passato arcaico (dai miti stessi) e vengono rinnovate costantemente dai media e dal simbolico circolante. Indicano direttamente o indirettamente cosa significhi essere uomo o donna e così diventano normativi dei comportamenti. Ovvero suggeriscono i comportamenti accettabili socialmente, pur senza determinarli. Non ne siamo determinati, tanto è vero che molte di noi hanno fatto dell’altro nella loro vita.

La situazione si complica per il fatto che la nostra stessa lingua italiana è strutturata attorno al genere femminile e maschile. La grammatica ce li impone nel parlare. E questo ovviamente per una storia della lingua che si è formata nei secoli e che rimanda alle trasformazioni delle lingue romanze che hanno lasciato cadere il neutro, che pure era presente nel latino e in genere nelle lingue indoeuropee. La storia di lungo periodo di una lingua soprattutto per gli aspetti grammaticali non è fatta di scelte intenzionali. Così in italiano i sostantivi e gli aggettivi sono solo di genere femminile e maschile. La lingua, che è mediazione inaggirabile, fornisce categorie che organizzano il nostro pensiero. In essa è molto labile il limite tra i miti che la lingua porta con sé intrecciati alla grammatica e le costruzioni culturali. Solo un esempio: la luna è femminile in italiano. In tedesco è maschile, der Mond. Sconcerto: la luna per noi è il massimo della femminilità. Come può essere di genere maschile?

L’uso comune, al di là delle discussioni che ne possiamo fare e le critiche che possiamo portare, continua in questa visione del femminile e del maschile, perché viene toccato da piani profondi dell’immaginario collettivo, della grammatica della lingua e del rapporto storico tra i sessi.

Il femminismo della seconda ondata, in cui io mi sono formata, ha messo subito in crisi questa visione delle donne come femminili. Donne? Donne sì, ma senza coincidere con il femminile. Ognuna si comporti secondo il proprio desiderio, avendo tuttavia chiara consapevolezza che gli stereotipi del femminile e del maschile non sono solo gabbie costrittive, ma obbediscono ad una visione gerarchica del rapporto tra i sessi. Si è trattato fin da subito di un passo politico legato alla libertà delle donne. Non a caso è piaciuto a tutte l’Orlando di Virginia Woolf che ironizzava sul passaggio dal maschile e femminile del povero Orlando, che vive dall’interno la paradossalità di una trasformazione da uno stereotipo all’altro. Tuttavia è stato chiaro che la libertà delle donne  non è solo questo passaggio divertente da un Orlando maschile ad un Orlando femminile, ma ha bisogno di pratiche politiche.

È stato molto diverso il modo di accostarsi alla questione della normatività dei generi da parte del mondo anglosassone. Negli anni Settanta e Ottanta è arrivata dal femminismo anglosassone la proposta teorica, che, sulla base della distinzione sex e gender (sesso biologico e genere come costruzione culturale identitaria), indicava come impegno femminista quello di lottare politicamente per trasformare il piano del linguaggio stereotipato. Portare dei cambiamenti a livello linguistico su che cosa significasse essere donna, rompendo con la normatività del simbolico dominante patriarcale.

Di fatto l’alleanza politica che attraversava i femminismi, in questo caso quello europeo continentale e quello statunitense, ha fatto sì che non ci siamo fermate più di tanto sulla differenza filosofica di fondo che emergeva e che era notevole e che ha portato poi la cultura anglosassone ai paradossi che sta vivendo ora. Non appartiene per niente al nostro percorso di pensiero che la dimensione della sessualità sia riducibile al sesso biologico, anatomico, al sex oggettivo, “naturale”, “visibile” empiricamente. Calcolabile nei cromosomi. Né che il genere sia solo una costruzione linguistica culturale storica, del tutto impermeabile alla nostra esperienza soggettiva del nostro corpo sessuato. Mentre la proposta teorica della maggior parte del femminismo anglosassone è stata proprio questa: il sesso naturale slegato dalla costruzione culturale identitaria, stereotipata. Da una parte sex dall’altra gender. Natura contrapposto a cultura, dove la lotta politica consiste nel trasformare le costruzioni storiche linguistico-culturali. Certo ci ha accomunato fin da subito la lotta politica contro gli stereotipi, ma la posizione teorica a cui mi sono attenuta a partire dal pensiero della differenza è che il corpo sessuato è inscritto di parole e dunque non è oggettivo. Infatti è corpo vivente, non un corpo oggetto fuori di me. E d’altra parte l’esperienza del corpo ha effetti sul linguaggio. Tra corpo sessuato e linguaggio c’è porosità, cioè si influenzano reciprocamente. Quel che è fondamentale è come si dispone questo legame, che parte da un’esperienza soggettiva del corpo vivente non reificabile oggettivamente.

Perché separare così nettamente il sesso biologico dagli stereotipi linguistici? Nessuno nel femminismo continentale europeo ne aveva sentito la necessità. Perché? Penso che di fondo ci sia ancora una volta una questione di lingua madre. La lingua anglosassone non ha il femminile e il maschile nei sostantivi e negli aggetti. La luna, in quanto sostantivo, non è né femminile né maschile. La finestra non ha sesso. Il sesso appartiene solo agli animali e ad alcuni vegetali. Dunque è biologico. Luna e finestra non sono vegetali o animali. Quindi non hanno niente a che fare con il sesso.

Sappiamo che la lingua inglese, non avendo come possibilità quella della declinazione femminile e maschile, si trova poi nella necessità di significare elementi femminili e maschili attraverso dei segni linguistici non grammaticali, che devono costellare i sostantivi. Così succede che la parola “donna” in inglese sia – come tutti gli altri – un termine neutro, né maschile né femminile. E dunque linguisticamente la “donna” non ha sesso. Il sesso è qualcosa di aggiunto, estrinseco al nome. Per questo che culturalmente la donna è facilmente sganciabile dal sesso biologico. Nelle nostre lingue romanze invece è l’opposto: tutto è sessuato dal barattolo della marmellata alla listerella di legno del tavolo. C’è un legame interno nella nostra lingua materna tra un nome e la sua sessuazione.

Come dico spesso – e ovviamente non solo io – la grammatica porta con sé una metafisica.

Sappiamo che l’alleanza tra il femminismo americano e quello europeo era ed è molto forte. L’impegno politico comune è maggiore delle differenze. Tanto che allora non si è data troppa importanza a questa differenza teorica rispetto a sex e gender, che però nel frattempo ha fatto molta strada. E ne sentiamo oggi le conseguenze. Per cui, ad esempio, nel mondo anglosassone una donna, per dire di essere tale, si sente di dover aggiungere a volte: sono una donna di sesso femminile. Il che nella nostra lingua è un assurdo.

Il dibattito sulla parola gender è andato avanti e si è articolato, tanto che oggi ci sono alcune interpretazioni del termine gender contrapposte ad altre. Ci troviamo davanti a diversi significati in contraddizione o in slittamento semantico tra loro. Tutto questo ha creato non poche confusioni. Aumentate dal fatto che la parola gender è carica di elementi teorici diversi dal carico che porta con sé la parola italiana genere, anche se una è la traduzione dell’altra.

Sapendo di non poter dipanare completamene questa matassa, porto qualche elemento in più. Vediamo alcuni altri usi della parola gender nel dibattito anglosassone ereditati dalla cultura italiana, a partire sempre dalla distinzione sex e gender che abbiamo già visto.

Alcune studiose hanno introdotto il termine gender all’interno di una concezione euristica per cui gender viene adoperato per svelare la presenza di pensiero di donne in aree di ricerca considerate fino ad un certo momento neutre, come ad esempio la storia. E qui faccio riferimento al famoso saggio di Joan Scott, Genere. Un’utile categoria di analisi storica. Ma anche nella scienza si è adoperato la medesima parola gender per mostrare in chiave femminista la differenza di ricerca portata dalle donne nei laboratori. In questo senso è importante il lavoro di Evelyn Fox Keller Sul genere e la scienza. Queste studiose hanno voluto mostrare come, raccontando di nuovo la storia e il modo di fare scienza, cercando altri documenti, altre fonti rispetto a quelle maschili falsamente neutre, le donne siano state presenti e abbiano portato un sapere in sintonia con la loro esperienza. Da parte delle storiche, delle filosofe della scienza, delle teologhe e così via, il genere (per queste studiose gender) viene adoperato come una categoria euristica, che coinvolge la soggettività di chi l’adopera. I due testi che ho citato sono emblematici in questo senso.  

Coloro che hanno introdotto questa categoria per svelare la presenza delle donne e la loro fertile modalità d’essere nella storia, nella scienza, nella teologia e così via, lo hanno fatto e lo propongono sul piano teorico in rapporto ad un coinvolgimento soggettivo, che viene ritenuto indispensabile. In altre parole, occorre mettersi in campo in quanto donna che fa questa precisa e specifica ricerca, mostrando come tutto ciò la tocchi e la trasformi. Proprio questa dimensione euristica soggettiva segna la differenza rispetto all’uso della categoria di gender (o genere), usata descrittivamente oggi in particolare nelle scienze sociali, dove viene considerata come uno strumento concettuale oggettivo.

In un certo senso la ricerca nelle scienze sociali e più in generale nelle scienze umane che adopera gender (o genere) in modo oggettivo, ricade negli stereotipi più immediati e acritici della parola “donna” e “uomo” perché non problematizza la categoria linguistica che usa. “Donna” e “uomo” vengono infatti semplicemente adoperate per categorizzare dati riguardanti la differenza tra donne e uomini in diversi campi di ricerca disciplinare: oltre a tutte le ricerche di sociologia empirica penso anche a quelle in medicina. In particolare penso alla medicina di genere che oggi giustamente è sempre più presente: ad esempio, è stata adoperata per differenziare oggettivamente la risposta immunitaria delle donne rispetto agli uomini nella pandemia. In questa ultima accezione il termine genere (e gender) viene adoperato per indicare ricerche accademiche che richiedono l’oggettività della ricerca empirica, e che possono essere effettuate indifferentemente da donne o da uomini, perché si tratta di raccolte di dati su comportamenti o specificità di donne e uomini, senza che questo comporti un coinvolgimento soggettivo sessuato. Questo indica che è diventata una categoria del tutto neutra.

Le discipline umanistiche come la sociologia, la psicologia etc. hanno uno sterminato serbatoio di ricerche di questo tipo. Anche perché i finanziamenti europei alle ricerche universitarie privilegiano le questioni di genere, dove però il termine è mutuato dall’anglosassone e porta con sé le distorsioni oggettivanti che ho appena descritto.

Niente di male in queste ricerche, se non che sono neutre perché scompare del tutto il valore euristico sessuato che implica un coinvolgimento soggettivo personale come è presente nella proposta teorica di Joan Scott e Evelyn Fox Keller.

Oggi gender ha anche un’altra accezione che è quella che più propriamente si esprime nella espressione sempre inglese di transgender, come messa in crisi dei generi, cioè del binarismo stereotipato. Mi interessa politicamente perché l’uso che ne viene fatto è di decostruire – nel mondo anglosassone – il dispositivo del genere culturale (gender) ovvero dell’identità. Il che è vicino alla decostruzione che il femminismo della seconda ondata ha operato. Ma è meno chiaro verso cosa il transgender si orienti. È tutto da comprendere ma è una ricerca in fieri, che nasce da radici culturali diverse dalla mia, ma che guardo con attenzione per l’aspetto esistenziale di sperimentazione soggettiva che in alcuni casi ha e propone.

   2. Presento ora alcune linee fondamentali del pensiero della differenza per dire da dove parlo e qual è la mia collocazione, che è critica nei confronti della teoria che si fonda sulla distinzione sesso e genere, sex e gender, come è critica nei confronti della identità di genere.

Prima però vorrei dire perché mi interessa questo incontro e il ciclo proposto dal Circolo della rosa. Il pensiero della differenza ha in comune con altri movimenti politici l’aver messo al centro un pensare e agire che è in circolo con il significante aperto della sessualità.

Ci sono differenze precise sia concettuali sia d’esperienza con il movimento LGBTQI, ma esiste in comune la scommessa di sviluppare il pensiero a partire dalla sessuazione. Questo permette di aprire la possibilità di alleanze politiche sulla base di una chiarificazione sia delle parole concettuali adoperate sia delle pratiche messe in campo.

 Diotima è nata esattamente con l’intenzione di far interagire pensiero e sessualità. Questo è stato il suo inizio e il suo sviluppo. Per questo mi interessano quei movimenti che operano la stessa mossa se pure secondo strade diverse e magari conflittuali. Certo sento con loro un’affinità molto maggiore che con pensatori neutri, o che al massimo ammantano il loro discorso con la declinazione di maschile e femminile degli articoli (le studentesse e gli studenti, la ministra e il ministro), ma per il resto nessuno squilibrio legato alla sessualità.

Con Diotima e con il pensiero della differenza sessuale siamo partite anche noi con una critica contro il binarismo stereotipato dell’essere donna contrapposto a uomo, affermando la nostra posizione di trovarci a patire la differenza sessuale in termini soggettivi. Un patire che sentono le donne. Dunque asimmetrico. Patire nel senso passivo per cui subiamo lo stereotipo di quel che si dice delle donne nella circolazione dei media e nel senso comune. Ci pesa incredibilmente addosso. Ricordo una donna a Padova in una conferenza pubblica che mi diceva, nella discussione, di essere diventata donna quando un uomo l’aveva fatta diventare donna. C’era un risvolto così profondamente sessuato e non libero nelle sue parole, che io non ho saputo dirle niente. Ma il peso di quello che lei diceva me lo portavo su di me. Mi toccava profondamente anche se non apparteneva affatto alla mia esperienza. E per questo ho sempre sentito che l’orientamento verso la libertà femminile è il perno che può trovare la sua genesi e mediazione solo a partire da altre donne e non dagli uomini. E che combattere per la libertà femminile è qualcosa che può riguardare anche quella donna che avevo conosciuta a Padova come anche altre donne. Altre, tra le quali mi pongo anch’io per la mia parte non libera, che porto dentro di me e che è tutta da interrogare.

Ora il patire la differenza sessuale, come abbiamo scritto nel primo libro di Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, ha, oltre al lato passivo di subire (patire) gli stereotipi, anche il lato attivo di una passione per la differenza. La differenza come interpretante libero della realtà, dove l’essere donna non è un contenuto significato, ma un significante vuoto, inteso come passo d’inizio per una sperimentazione vivente di quel che significa essere donna, che non so in anticipo e che mi guida come un qualcosa davanti a me di cui non conosco il contenuto e che mi impegna tutta la vita.

Parto dunque da quella che considero la prima mossa del pensiero della differenza. Carla Lonzi scriveva in Sputiamo su Hegel: «La donna non è in rapporto dialettico col mondo maschile. Le esigenze che essa viene chiarendo non implicano un’antitesi, ma un muoversi su un altro piano. Questo è il punto su cui più difficilmente arriveremo a essere capite, ma è essenziale che non manchiamo di insistervi» (p. 54).

Questo concretamente cosa comporta nella nostra vita? Che le donne non trovano il senso di sé stesse nella differenza (o nella complementarità) con gli uomini. Né trovano il senso di sé nelle definizioni di genere: la donna è così, mentre l’uomo è colà.

Dunque, seguendo Carla Lonzi, non c’è rapporto dialettico con il mondo maschile, ci si muove su un piano a-dialettico, asimmetrico, dunque autonomo.

A questo Carla Lonzi aggiunge: “Facciamo tutte le operazioni soggettive che ci procurino dello spazio attorno. Con questo non vogliamo alludere all’identificazione: essa ha un carattere compulsivo maschile che sfronda la fioritura di una esistenza e la tiene sotto l’imperativo di una razionalità con cui viene controllato drammaticamente giorno per giorno il senso del fallimento o della riuscita” (p. 57).

Nessuna identità o identificazione in quanto donna, ma l’azione pratica di fare spazio attorno. Ma come? Come muoversi in una dimensione autonoma, non dialettica, asimmetrica, in un certo senso autoreferenziale, e senza più significati a disposizione sull’esser donna?

Fondamentale è la relazione politica con alcune altre. Non tutte. Quelle che sentiamo che hanno una intenzione politica della differenza. In contesti storici che si vanno creando via via e di contesto in contesto. Senza organizzazioni istituenti e per il desiderio di trovare elementi che portino alla comprensione del mondo e alla comprensione di se stesse in rapporto al mondo. In genere dunque piccoli gruppi per leggere la vita e il senso della soggettività in divenire in relazione con altre donne.

In questo senso le pratiche politiche tra donne costituiscono la condizione di possibilità di “fare tutte le operazioni soggettive che ci procurino spazio attorno”. Le pratiche politiche aprono uno spazio per esserci in relazione senza doversi definire in modo identitario o in un significato fisso. Sono le pratiche politiche (la relazione, la disparità, il partire dall’esperienza e metterla in parola) a permettere di aprire lo spazio di scoperta del significarsi soggettivamente in un processo di sperimentazione di sé e del rapporto con le altre e con il mondo, che dura in effetti tutta una vita. Insisto sul fatto che le pratiche politiche sono le condizioni di possibilità per poter intraprendere un viaggio sperimentale, non identitario, in fieri, sottraendosi alle definizioni e ai significati. In altre parole, pratiche relazionali per opporci al fatto che nessuna o nessuno può dirci che cosa debba essere o non debba essere una donna e per poter andare liberamente su una strada che non sappiamo dove ci porterà.

Noi siamo qui, siamo soggetti incarnati. Abbiamo una posizione precisa dalla quale parliamo. Una posizione asimmetrica, dunque squilibrata, non binaria. Il binarismo  presuppone che noi guardiamo la situazione dall’esterno, da fuori, con uno sguardo di sorvolo come se si potesse vedere il nostro singolare essere donna dall’esterno messo a confronto con altre posizioni. Ma questo non è possibile. Essere incarnate significa che non c’è nessuno sguardo oggettivante da un “fuori”. Nessuno è nella posizione di un Dio che tutto guarda, e che è onnivedente perché disincarnato. Noi siamo in relazione e “ne siamo” di queste relazioni, ne partecipiamo dall’interno con il nostro corpo. L’incarnazione significa che non possiamo uscire da queste relazioni che ci costituiscono e che dunque il binarismo è qualcosa di astratto nella sua simmetria oggettiva.

Parlo dunque a partire da questa posizione incarnata. A partire dall’esperienza. Essere donna è la posizione simbolica dalla quale io parlo, che non ho scelto. È una posizione relazionale sin dagli inizi, che ha a che fare con la relazione con mia madre. Sono nata infatti – come tutti – in quella che io chiamo una culla di parole, che è intessuta con il mio corpo. Dagli inizi nostra madre ci ha pensati, ancor prima che noi nascessimo, e ci ha pensati con fantasie e immagini della creatura a venire, che eravamo noi. E poi ha continuato a pensarci, interagendo con la nostra singolarità nel momento del venire al mondo.

Dunque ho, come tutti, una storia e una genealogia. Mia madre desiderava una bambina e nascendo sono andata incontro al suo desiderio, senza volerlo. Mia madre mi diceva: sei stata una bambina buona fino a dieci anni. Poi non più. Mi sono chiesta più volte cosa significasse che poi non lo sono stata più. Evidentemente non ho più corrisposto inconsapevolmente al desiderio di mia madre.

È questo il momento in cui la vita di quella figlia che sono stata, avvolta dalle parole della madre, ha fatto uno scarto.  

Ma è esattamente così che è capitato per la maggior parte di noi. Ognuno, ad un certo punto della vita, ha seguito la propria via desiderante, e in modi diversi ci siamo sottratti ai desideri dei genitori, abbiamo battuto altre strade impreviste. Abbiamo seguito una via di libertà che ci ha posto in conflitto con loro. In disaccordo, ma per sperimentare qualcosa di nuovo e di diverso che ci corrispondesse.

Così, io capisco bene gli adolescenti che entrano in conflitto con la prima culla di parole in cui sono nati – pensati, voluti, immaginati da una madre e poi da un padre. Scelgono strade diverse dai sogni e dalle parole dei genitori, che danno loro il senso della libertà.

Ora, dico, e sottolineo quello che sto per dire, che è stata una fortuna che quella culla di parole ci sia stata, anche se poi ci siamo sottratti ad essa. È una culla di parole che ci ha dato radici, dalle quali poi ci siamo staccati per andare da un’altra parte. Ringraziamo di averle avute quelle parole, perché questo ci ha permesso di combattere per una via di libertà e di sperimentazione soggettiva. Invece, senza parole affettive che ci radicassero, senza l’immaginazione di una madre sul figlio a venire, poi non avremmo avuto la base per scoprire quale fosse il nostro desiderio singolare, mettendolo a fuoco attraverso il differenziarci dal desiderio dei nostri genitori su di noi e cercando altro.

Per fortuna che abbiamo una storia alle spalle, abbiamo radici, e non ci costruiamo nel vuoto. È proprio questa condizione radicata che ci ha dato la possibilità di seguire il desiderio. In psicoanalisi viene detto che l’incapacità di una madre di pensare la creatura a venire, immaginandola, è una delle cause della psicosi del figlio. Meno drammaticamente, il voler cancellare queste radici, come se non fossero esistite, significa impedirsi di elaborarne gli aspetti di sofferenza che hanno implicato per noi, oltre a quelli di sicurezza e fiducia. Significa non cogliere che il nostro corpo è un corpo segnato da parole affettive prima di tutto della madre.

Andando alla conclusione di questo discorso, entro in polemica con due posizioni, che sono presenti nel femminismo, e poi con una terza che riguarda il movimento Lgbtqi.

La prima è questa. Sono del tutto contraria a considerare il corpo come riducibile solo al sesso biologico, naturale. Proprio per il fatto che noi nasciamo al mondo e alla parola contemporaneamente, trovo sbagliata la riduzione dell’essere donna a sesso biologico. Il corpo non è qualcosa di oggettivo fuori di noi con un certo sesso e noi saremmo da un’altra parte. Noi invece siamo corpo vivente aperto e in relazione agli altri. Nasciamo in relazione. Non siamo corpo nudo, oggettivo, con un sesso, chiuso su sé stesso. A partire dal corpo vivente relazionale la sessualità non è riducibile ad un organo, al sesso, ma al piacere di tutto il corpo in relazione costitutiva. La sensualità è eccedente il corpo sessuato.

Passo alla seconda critica. È altrettanto riduttivo quel femminismo che porta la politica sul livello delle normazioni linguistiche, e riduce il sesso alle definizioni linguistiche, ritenendo che il conflitto più importante stia sul piano delle definizioni per allargare e moltiplicare le inclusioni.

Io – e non solo io – parlo di porosità tra natura e cultura, a partire da un corpo vivente che è dalla nascita relazionale e inscritto di parole affettive prima ancora che ne prendiamo consapevolezza. La sessualità è solo uno degli aspetti della sensualità e del piacere, che è molto di più e che rende porosi gli stessi confini tra i corpi.

Il modello eterosessuale tradizionale sacrifica proprio questo infinito godere sensuale del corpo vivente nel suo complesso, concentrandosi su una parte del corpo oggettivato.

Non critico soltanto queste due posizioni femministe, radicalmente diverse e di fatto complementari, ma anche una posizione teorico-politica di fondo dei movimenti Lgbtqi. Quella che parte dalla critica all’eterosessualità normativa – incarnata dall’uomo bianco adulto occidentale. Il fatto è che pur criticando tale modello – sul che io sono d’accordo – poi l’errore di questa visione Lbgtqi è di prenderlo come perno per definire le differenze. In altre parole, a partire dall’uomo bianco adulto eterosessuale viene definita per differenza la donna bianca eterosessuale, lesbica, l’uomo gay, trans in trasformazione da uomo a donna e da donna a uomo, e poi queer, intersessuale e così via. Si tratterebbe di differenze ognuna sullo stesso piano. Non solo, ma tutte queste differenze sarebbero delle minoranze, rispetto all’uomo bianco, adulto, eterosessuale. Sulla base del fatto di essere minoranze, sono accomunate sul piano politico dalla richiesta di tutela rivolta alle istituzioni pubbliche ed espressa in una serie di diritti. I diritti chiesti da minoranze per tutelare sé stesse nella loro “minorità”.

Non solo il femminismo della differenza ma certo gran parte del femminismo rifiuta il fatto che le donne siano una minoranza come rifiuta il concetto di tutela. Uno slogan femminista molto noto è stato: “Dalle donne la forza delle donne”. La nostra forza non viene certo dall’istituzione pubblica.

È proprio il concetto di minoranza e l’autopercezione di sé in quanto minoranza ad essere invalidante. Sbagliato. Piuttosto si tratta di portare alla visibilità e allo scambio nel mondo di tutti quella che è la ricchezza della propria esperienza misurata con quella degli altri. Scommettere politicamente per creare una forma di vita condivisa. E da qui fare delle richieste alle istituzioni, certo, ma in base alla ricchezza simbolica che si sa di portare al mondo comune. Un mondo che è più ricco proprio per la presenza e la cultura espressa dalle donne in relazione tra loro.  Così io penso ad un possibile mondo più ricco per la presenza di soggetti dell’area Lgbtqi. Ma questo va mostrato da parte loro indicando il di più che possono portare per un bene comune. È questo il consiglio che mi sento di dare loro.

 Questo è quello che ho imparato dal pensiero della differenza e che mi sembra riprendibile dal movimento LGBTQ. Si tratta di creare uno stile di abitare il mondo, di trasformarlo, con forza creatrice. Questo passo politico, messo in atto dalle donne del femminismo della differenza e della maggior parte del femminismo, può essere ripreso con vantaggio anche da altri. È invece una forma di mutilazione definirsi  minoranza e chiedere tutela, piuttosto che portare una ricchezza d’esperienza in modo che diventi circolante e da questo ricavare forza che poi venga riconosciuta nella forma del diritto.