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Scritture

Hoda

 Avevo incontrato Hoda Barakat, romanziera libanese che vive a Parigi e scrive in arabo, nel febbraio 2002, al Convegno delle Letterate che si teneva a Venezia.   Era l’unica scrittrice straniera invitata; ma siccome anch’io mi sento straniera e in ogni caso so parlare in francese, il nostro incontro superò i convenevoli e divenne la premessa di un’amicizia duratura.

Mi sembrò necessario, poi, leggere l’unico suo romanzo allora tradotto in italiano, “I malati d’amore” (edizione in arabo 1993, traduzione italiana di Samuela Pagano, Roma, Jouvence, 1997), che comincia con il vaneggiamento di un uomo che ha appena ucciso la propria moglie.  Seguì poi la lettura degli altri suoi due romanzi.

 

Elemento costitutivo di ciascuna di queste opere narrative è un luogo –la città di Beirut – e la focalizzazione su personaggi  maschili. In un caso si tratta di un adolescente la cui identità sessuale è incerta e vagante; negli altri due si tratta di un uomo. Quel che risulta da questa costruzione è comunque del tutto antitetico a una visione “maschile” del mondo, e anzi l’adolescenza nel primo libro (La pierre du rire, Paris, Actes-Sud, 1996, edizione in arabo 1990) sembra essere il punto di vista privilegiato proprio perché in essa non sono state ancora decise le prese di posizione virili, e i dogmi fondamentalisti delle identità cristiane e islamiche. Quel che risulta è che alle donne, ai bambini e agli adolescenti è concessa una sorta di innocenza: ma quando un ragazzo diventa uomo  nel momento storico della guerra civile libanese per lui l’unica strada aperta sembra essere quella della sopraffazione e del delitto.

 

 “La pierre du rire” (tradotto dall’arabo da Nadine Acoury), primo romanzo scritto da Hoda Barakat, è anche il suo più crudele, quello che non presenta conciliazioni possibili e che ha per tema la guerra civile. Due sentenze  iniziali dal filosofo e mistico Ugo di San Vittore sono la premessa necessaria a un superamento del materiale storico incandescente:

 

“L’uomo che dedica tutto l’amore alla propria terra natale non è che un acerbo apprendista; l’uomo per il quale ogni terra è cara quanto la propria è già un uomo forte; perfetto è l’uomo per il quale il mondo intero è una terra dimenticata. L’anima delicata fissa il proprio amore su di un solo luogo. L’uomo forte diffonde il proprio amore in tutti i luoghi. L’uomo perfettamente padrone di sé è colui che ha visto questo amore estinguersi.”

 

Da questa epigrafe risulta chiaro che solo dopo averla perduta Hoda Barakat può parlare della sua patria, il Libano.

 

Lo fa con una visione panoramica che comprende il popolo minuto, gli intellettuali, i giornalisti e gli ideologhi, i trafficanti arricchiti e quelli miserabili, i “martiri” e le loro vedove, i sovvertimenti sociali e familiari in una città divisa in due. Mentre la guerra infuria tutti cercano di stordirsi; si nota una sorta di sempre maggiore  leggerezza e inconsistenza del vivere mano a mano che i personaggi si liberano del proprio bagaglio morale di fedeltà e di tenerezza affettiva. Alla fine l’uomo nuovo prodotto dalla guerra è il trafficante senza scrupoli, o il miliziano che gode di ottima salute perché scarica la propria violenza nell’assassinio sistematico mentre altri vivono la propria vita problematicamente  come nemici di se stessi e del proprio corpo. Il romanzo termina violentemente con il convertito alla religione della violenza apparentemente soddisfatto di sé e integrato nel sistema del crimine. Ma alle ultimissime battute Hoda Barakat ha modo di lanciare il suo grido di rimpianto e di dolore, che contiene il ricordo di ciò che il suo protagonista  Khalil è pur stato: un innocente, un mistico, un innamorato devoto, un adolescente  inquieto ma non colpevole:

 

“L’auto si allontanò. Khalil lasciava il quartiere. Si sarebbe detto che si elevasse al di sopra dell’asfalto. Come sei cambiato da quando ti descrivevo nelle prime pagine! Ora tu  sai più cose di me.(…) E Khalil disparve. Era diventato un maschio che ride. E io sono rimasta una donna che scrive. Khalil, mio amato eroe. Mio eroe amato…”

 

L’ironia affilata, la passione che si purifica, l’amore per la vita e per la bellezza sono al centro di questa scrittura che cura la frase come una trina ma che ci fa ascoltare una voce via via dolce e violenta come uno sprechgesang, una voce solitaria ancora capace di dirci il vero.