diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo numero 17 – 2020

Filosofe

Hannah Arendt. La nascita come antidoto al terrore ideologico

  1. La centralità della nascita e il rovesciamento della prospettiva heideggeriana

 

Se il panorama filosofico del Novecento ha incentrato la sua riflessione sul tema della morte – al punto che, per usare un linguaggio heideggeriano, lo statuto essenziale dell’essere umano può essere definito come un “essere-per-la-morte” – il pensiero femminile contemporaneo, grazie alle riflessioni di grandi pensatrici, come Hannah Arendt o María Zambrano, ha ricentrato la riflessione filosofica sulla nascita, evidenziando l’evento natale in chiave positiva, con letture straordinariamente feconde e ricche di suggerimenti filosofico-politici.[1]

A operare un vero e proprio rovesciamento di prospettiva del panorama novecentesco, fu proprio Hannah Arendt, l’allieva di Heidegger che, prendendo le distanze dal suo maestro, contrappone all’evento luttuoso della morte il miracolo della nascita, recuperandolo dall’oblio filosofico. Nel tentare un primo approccio al concetto arendtiano di natalità, la tentazione più facile sarebbe quella di accostarlo alla definizione heideggeriana di vita umana come “cominciamento” (Anfang) nel senso di origine e inizio insieme, ovvero come un punto di partenza[2]. Tuttavia, è necessario notare come in Heidegger, l’orizzonte della morte assuma una netta prevalenza su quello della nascita, al punto che «l’inizialità heideggeriana andrebbe, forse, intesa piuttosto come una sorta di termine iniziale, vale a dire come un concetto primitivo in cui il contenuto di terminalità è comunque più forte dell’inizialità»[3]. Se dunque, per Heidegger, l’esistenza rimane racchiusa all’interno di due estremi, quello di inizio e quello di morte, è quest’ultimo termine a prevalere all’interno del pensiero del filosofo tedesco, al punto che esso si configura come l’unico in grado di dare un senso alla vita.

Ponendo al centro la natalità, e recuperando questo termine dall’oblio filosofico, Arendt si discosta pertanto nettamente dal suo maestro: se per Heidegger l’uomo è un “essere-gettato-nel-mondo”, e la nascita non è altro che un evento al passato, privo di un inizio concreto di una vita relazionale, per Arendt la natalità diviene la condizione cruciale dell’esistenza stessa. Mettendo al centro la nascita, Arendt recupera infatti anche la relazionalità originaria con la madre e il padre che hanno generato l’essere umano, in contrasto con una posizione, come quella heideggeriana che, vedendo nel morire la peculiarità della singolarità umana, priva l’uomo da ogni legame con l’origine, con il pericolo concreto di una deriva solipsistica: come fa notare Silvano Zucal «nella sua analisi dell’esistenza che vuole, nel contempo, essere un’ermeneutica dei fenomeni della vita reale, del Dasein, Heidegger non incrocia una “vita partorita”, ma una vita “gettata nel mondo”».[4] La posizione heideggeriana appare così agli occhi della pensatrice tedesca come premonitrice dell’esito politico del maestro: «Heidegger [le] appare come il pensatore di un esistenzialismo individualista che, considerata la sua diagnosi dell’“essere-per-la-morte”, doveva quasi per necessità cercare rifugio in una superstizione naturalista (nazional-popolare) per ricomporre in qualche modo il mondo di un’esistenza volta alla morte e che – seguendo la sua diagnosi – si stava disintegrando»[5].

In contrasto con la posizione heideggeriana, l’evento natale si rivela dunque, per Arendt, un vero e proprio antidoto contro ogni forma di totalitarismo, poiché ripropone la dimensione originaria dell’“inizio”, che va sempre considerata anche nella sua relazionalità, e che si rivela l’unica in grado di iniziare qualcosa di inedito all’interno di un mondo già configurato, divenendo così un chiaro indizio di «un nuovo mondo nel mondo esistente»[6].

 

  1. La nascita come premessa a ogni atto libero

 

In Arendt l’evento natale si rivela così come l’unico in grado di segnare un nuovo inizio e di prospettare nuovi orizzonti di rinascita e speranza, come esplicita la pensatrice tedesca anche nella conclusione del saggio Ideologia e terrore: «Ogni fine della storia contiene necessariamente un nuovo inizio; questo inizio è la promessa, l’unico “messaggio” che la fine possa presentare. L’inizio, prima di divenire avvenimento storico, è la suprema capacità dell’uomo».[7]

Il fenomeno biologico del venire al mondo, in questa prospettiva, si manifesta come segno di speranza, come promessa di un nuovo inizio, un incipit che, fa notare la pensatrice tedesca riprendendo Agostino, coincide con la libertà del singolo. Arendt mostra infatti come il pensatore cristiano, oggetto della dissertazione della sua tesi dottorale e riferimento costante all’interno di tutto il suo pensiero[8], sia stato il primo autore ad aver indagato le implicazioni filosofiche del concetto classico di libertà, fino al punto di teorizzare una teoria della libertà connessa alla nascita:

 

In Agostino non troviamo solo la discussione della libertà quale liberum arbitrium, decisiva per la tradizione, ma anche un’idea di libertà di concezione del tutto diversa, esposta, per una circostanza significativa, nell’unica opera politica agostiniana, De civitate Dei […] Qui la libertà si concepisce non come dote umana interiore bensì come caratteristica dell’esistenza dell’uomo nel mondo. L’uomo non “possiede” la libertà in quanto egli stesso, o meglio il suo venire al mondo, è equiparato all’apparire della libertà dell’universo; l’uomo è libero perché è un inizio, così creato quando l’universo esisteva già: [Initium] ut esse, creatus est homo ante quem nemo fuit.[9]

 

Agostino mostra qui come la nascita, evento unico e irripetibile, sia la premessa a ogni atto libero. È proprio in questo nuovo inizio, che troviamo la coincidenza tra umanità e libertà: «Dio ha creato l’uomo per introdurre nel mondo la facoltà del dare inizio: la libertà»[10] e lo scopo della creazione fu proprio quello di rendere possibile un novo inizio. La nascita è dunque il segno che l’uomo s’inserisce nel mondo con tutto il suo carattere innovativo, ri-costituendolo e ri-generandolo. All’interno di questa prospettiva, la libertà si identifica così come «la dote spirituale in nostro possesso in grado di dare inizio a qualcosa di nuovo»[11]: come intima capacità umana, la libertà indica dunque la capacità di cominciare e segna un inizio dove nessuna logica deduttiva ha alcun potere.

 

  1. La logica astratta e omologante dei regimi totalitari

 

La «tirannia della logicità»[12] inizia infatti con la sottomissione della mente a un processo senza fine, dove l’uomo rinuncia alla sua libertà interiore. Solo la possibilità di un nuovo inizio è in grado di mettere fine a una logica coercitiva che fa leva sul terrore, dove non trova spazio alcuna attività di pensiero:

 

Come il ferreo vincolo del terrore è inteso a impedire che, con la nascita di ogni nuovo essere umano, un nuovo inizio prenda vita e levi la sua voce nel mondo, così la forza autocostrittiva della logicità è mobilitata affinché nessuno cominci a pensare, un’attività che, essendo la più libera e pura fra quelle umane, è l’esatto opposto del processo coercitivo della deduzione.[13]

 

Questa logica astratta, priva di un legame con la realtà, è quella propria del regime totalitario, dove ogni relazione con l’esperienza viene distrutta dal pensiero ideologico: quando gli individui perdono il contatto con i propri simili e con la realtà che li circonda, essi smarriscono anche la capacità di esperienza e di pensiero[14]. Se i regimi totalitari fanno leva su questa coercizione interiore, che non è altro che quella «tirannia della logicità» a cui si oppone la capacità di dare inizio a qualcosa di nuovo, l’evento natale, in quanto unico e irripetibile, si rivela come il solo in grado di sottrarsi al culto della morte proposto dai regimi totalitari:

 

Ogni forma di totalitarismo non è solo, per Arendt, un sequestro della libertà dei singoli, un’invasione brutalmente coercitiva sul vissuto e sulle coscienze degli individui. Esso, ancor più, propone il culto della morte, anzi il mondo del totalitarismo è una produzione sempre più sofisticata di “metodi di fabbricare la morte”. Perché esso ha in odio in assoluto la nascita e la sua imprevedibilità innovativa[15].

 

È proprio nell’aspetto inedito e inaudito legato alla nascita che ritroviamo la capacità di interrompere quella «coercizione logica»[16] che è propria dei regimi totalitari, che inizia con la sottomissione supina a una logica senza fine e omologante e dove viene meno la capacità di pensare, rendendo gli individui disponibili a seguire qualsiasi imposizione dall’alto. Emblema di questa incapacità di “pensare da sé” -espressione che Arendt riprende da Lessing, e che ben definisce la singolarità della sua posizione – è il ritratto che la pensatrice tedesca restituisce di Eichmann come “uomo banale”, un individuo semplicemente incapace di esercitare il proprio senso critico, così come emerge nel suo libro Eichmann in Jerusalem. A Report of the Banality of Evil [17], che raccoglie i resoconti del processo al funzionario nazista, svoltosi a Gerusalemme nel 1961. Il libro –che, nel giro di poco tempo, farà nascere un vero e proprio scandalo filosofico-politico- mette sotto accusa soprattutto le analisi sui comportamenti passivi di alcuni leader dei consigli ebraici di fronte alla deportazione[18]. Ciò che denuncia Arendt è che, nel discutere di questi temi, e soprattutto nel proferire una denuncia morale dei crimini nazisti, si trascura quasi sempre di segnalare che il vero problema morale non è dato dal comportamento dei nazisti ma di quanti, come Eichmann, si adeguarono al regime, senza essere convinti delle proprie azioni. È la mancanza di pensiero e l’incapacità di riconoscere le differenze a perpetrate i peggiori crimini, poiché, seguendo una logica astratta, si tende a eliminare, nella misura del possibile, ogni disomogeneità. Scrive Arendt in Le origini del totalitarismo:

 

Le comunità politiche evolute, come le antiche città-stato o i moderni stati-nazione, insistono così spesso sull’omogeneità etnica perché tendono a eliminare nella misura del possibile le differenze naturali sempre presenti, che suscitano odio, diffidenza e discriminazione. La diversità e l’individualità, di cui lo “straniero” è simbolo allarmante, indicano le sfere in cui l’uomo non può agire e trasformare e in cui, quindi, ha tendenza a distruggere[19].

 

  1. L’unicità dell’evento natale come antidoto al terrore ideologico

 

È la negazione delle differenze, che troviamo nei regimi totalitari, a essere messa sotto accusa. All’interno di questa prospettiva, la nascita ci ricorda l’unicità di ogni singolo individuo, che si manifesta mediante il palesarsi dell’inedito, seguendo sempre l’attesa dell’inizio del nuovo, in un atteggiamento che permette l’aprirsi dell’inaspettato. L’evento natale si rivela in grado di aprire uno spazio vuoto dove a manifestarsi non sono le attese o il sapere di chi dona, ma la luce di un altro io, che manifesta così la propria unicità. In contrasto con una cultura che ci ha abituato a ridurre tutto all’identico, è dunque necessario imparare a fare spazio per accogliere ciò che è altro da noi, tenendo sempre in considerazione il negativo, come esplicita Luce Irigaray trattando il tema della nascita:

 

Dobbiamo seguire costantemente il nostro cammino verso l’apertura di un “non-quello”, un “non lì”, un “non-ancora”, un “non-conoscibile”, un “non-appropiabile” e così via. Lo spianarci la strada deve sempre tenere in considerazione il negativo, anche per ciò che concerne quello che noi sentiamo o di cui facciamo esperienza, e non solo per ciò che sta al di fuori di noi. Mentre avanziamo, dobbiamo imparare a fare spazio[20].

 

È su questo “fare spazio” che è necessario insistere per comprendere anche la prospettiva arendtiana relativa alla nascita. Annullare lo spazio tra gli individui, fa notare la pensatrice tedesca, significa annullare lo spazio vivo della libertà, ed è su questo punto che fanno leva i regimi totalitari:

 

Il regime totalitario non si distingue dunque da altre forme di governo perché riduce o abolisce determinate libertà, o sradica l’amore per la libertà dal cuore degli uomini, ma perché distrugge il presupposto di ogni libertà, la possibilità di movimento, che non esiste senza spazio[21].

 

Si tratta di quello spazio vuoto che permetterà di ospitare l’altro, in una apertura feconda in grado di mostrare l’essere umano nella sua unicità. La nascita, come mostra Arendt, si mostra così come una radicale inizialità, come l’unico evento in grado di rompere ogni totalitarismo, poiché si rivela capace di interrompere quella coercizione interiore che è la tirannia di una logica puramente astratta, priva di un legame con l’esperienza.

 

  1. La minaccia di un nuovo “totalitarismo”

 

Dopo aver vissuto, sulla sua pelle, le tragedie del Novecento, Arendt intravede le minacce di un moderno “totalitarismo”, dettato dal tentativo dell’uomo moderno di sottoporre al proprio dominio i processi naturali[22]:

 

Dal momento che abbiamo dato avvio a processi naturali fatti da noi […] non soltanto abbiamo accresciuto il nostro potere sulla natura (ovvero siamo diventati più aggressivi nel trattare con il dato delle forze terrestri), ma per la prima volta abbiamo portato la natura nel mondo dell’uomo vero e proprio, cancellando tutte le barriere difensive che le civiltà anteriori alla nostra avevano eretto tra sé e il «manufatto» dell’uomo[23].

 

I rischi di questo comportamento dell’uomo all’interno dei processi naturali sono evidenti, ed espongono l’umanità intera a pericoli mai affrontati in passato, poiché nascono dalla pretesa di sottoporre al proprio dominio ciò che, per sua natura, sfugge a ogni tentativo di possesso. Agire all’interno della natura, cercando di eliminare quell’imprevedibilità che non può, in alcun modo, essere elusa, può dunque rivelarsi estremamente pericoloso. Si tratta della stessa ansia di dominio che ritroviamo nelle pagine di Luce Irigaray, un’altra pensatrice che s’interroga sulla frattura creatasi tra il mondo creato dall’uomo e quello naturale. L’uomo afferma la filosofa belga, «turba il ritmo della crescita naturale. [Egli] ara la terra e la obbliga a produrre con la forza ciò che non attua da sé stessa: accelera i tempi di produzione, importa dei semi da altri luoghi»[24]. Nell’epoca moderna l’uomo, imponendosi per la prima volta come padrone della natura, dopo esserne sempre stato il servo, si è esiliato da sé stesso, vivendo nell’inquietudine più profonda in un luogo generato dal suo stesso dominio, dove lui si ritrova a vivere come esule.[25]

Ponendo al centro il processo naturale della nascita, Arendt non solamente recupera l’evento natale dall’oblio filosofico -in contrapposizione a un panorama, come quello novecentesco, che aveva riconosciuto alla morte un assoluto primato- ma riconosce anche il ruolo imprescindibile che l’imprevedibile e il nuovo giocano all’interno della nostra esistenza. L’imprevedibilità insita nella nascita si rivela così un antidoto non solo contro ogni tipo di totalitarismo, ma si mostra anche in grado di sottrarre l’uomo contemporaneo dal tentativo di dominare i processi naturali attraverso la tecnica, con tutte le nefaste conseguenze- oggi drammaticamente sotto i nostri occhi – che un tale atteggiamento provoca.

 

Parole chiave: Hannah Arendt, nascita, morte, ideologia, terrore

 

[1] Una approfondita lettura della nascita come categoria filosofica in grado di aprire a molteplici prospettive, si trova in Silvano Zucal, Filosofia della nascita, Morcelliana, Brescia 2017; qui p. 7.

[2] Cfr, Alessandra Papa, Nati per incominciare. Vita e politica in Hannah Arendt, Vita e Pensiero, Milano 2011, p. XII.

[3] Ibidem.

[4] Silvano Zucal, Filosofia della nascita, cit., p.318.

[5] Antonia Grunenberg, Hannah Arendt e Martin Heidegger. Storia di un amore, Longanesi, Milano 2009, pp. 266-267, in Silvano Zucal, Filosofia della nascita, cit., p. 319.

[6] Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1988, p. 179.

[7] Hannah Arendt, Ideologia e terrore (1953), in Le origini del totalitarismo, tr. it, di Amerigo Guadagnin, Einaudi, Torino 1999, p. 656. La citazione di Agostino è tratta da De Civiate Dei, libro 12, cap. 20.

[8] Cfr. Hannah Arendt, Il concetto d’amore in Agostino. Saggio di interpretazione filosofica (1929), a cura di Laura Boella, SE, Milano 2004.

[9] Hannah Arendt, Tra passato e futuro (1961), Garzanti, Milano 1999, p. 222. La frase di Agostino è tratta da De Civitate Dei, XII, 20.

[10] Ibidem.

[11] Hannah Arendt, La via della mente (1971), Il Mulino, Bologna 1987, p. 522.

[12] Hannah Arendt, Ideologia e terrore (1953), in Le origini del totalitarismo, cit., p. 648.

[13] Ibidem.

[14] Ivi, p. 649.

[15] Silvano Zucal, Hannah Arendt. La nascita come inizio e come “rivoluzione”, in Filosofia della nascita, cit., p. 324.

[16] Ivi, p. 326.

[17] Hannah Atendt, Eichmann in Jerusalem. A Report of the Banality of Evil, The Viking Press, New York 1963; tr. It. La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1963.

[18] Cfr. Simona Forti, Prefazione, in Alcune questioni di filosofia morale, Einaudi, Torino 2006.

[19] Hannah Arendt, Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, in Le origini del totalitarismo, cit., pp. 417-418.

[20] Luce Irigaray, Nascere. Genesi di un nuovo essere umano, Bollati Boringhieri, Torino 2019, pp. 141-142, corsivo nostro.

[21] Hannah Arendt, Ideologia e terrore (1953), in Le origini del totalitarismo, cit., p. 638.

[22] Cfr. Silvano Zucal, Filosofia della nascita, cit., pp. 369-370.

[23] Hannah Arendt, Tra passato e futuro, cit., p. 93.

[24] Luce Irigaray, Essere due, Bollati Boringhieri,Torino 1994, p. 80.

[25] Ivi, p. 81.