diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 6 - 2007

Filosofe

Hannah Arendt: Immaginare o raccontare le storie altrimenti

[1]

 

Ogni scelta potrebbe essere accompagnata da una storia. Nel percorso che segue vi propongo due storie che si allacciano con altre: la prima storia parte da me e la seconda si sviluppa sotto la luce di un’espressione di Mary McCarthy che Fina Birulés, anni fa, mi fece notare quando cominciavo a lavorare sul tema dell’immaginazione nel pensiero di Hannah Arendt.

Questa mia storiella tenta di raccontarvi come mai ho scelto l’immaginazione come tema di ricerca e perché ho scelto proprio Hannah Arendt come la più importante compagna di viaggio. Ve la racconto a rischio di guadagnarmi il nome di “narratrice infedele”, [1] per il fatto di omettere passaggi importanti del vissuto. E nonostante questo rischio ci provo: per iniziare colgo il senso positivo d’”imitazione” che un giorno Chiara Zamboni, citando Jeanne Hersch, aprì a tutti noi. Tento di collegare l’immaginazione con quell’imitazione che per Hersch era una modalità d’apprendimento potente, una maniera d’acquisire competenza simbolica. Se attraverso l’imitazione si può risalire alla matrice del pensiero d’ogni filosofo, una matrice che si trova nell’esperienza, immaginare può essere un accompagnamento indispensabile per  cogliere il senso e mettere in gioco quello che imitiamo.

La matrice del mio interesse per l’immaginazione si racconta in questa storia che traccia una figura dal presente. L’interesse viene da lontano, può risalire al momento in cui questo interesse non era altro che un grande desiderio di gioco, quando ignoravo completamente che avrei un dedicato un po’ di anni a studiare filosofia e addirittura a studiare questo argomento. In quel tempo, da bambina, come tutti i bambini, passavo le ore più divertenti a immaginare. Immaginavo storie fantastiche, immaginavo che la mano fosse una pentola o un uccellino o semplicemente la mia interlocutrice. Ma soprattutto immaginavo dialoghi con tutti i miei esseri cari che, per un motivo o altro, erano lontani e così scongiuravo la loro assenza. Tante volte questi dialoghi li facevo a voce alta, come i bambini che cominciano a leggere, al filo del gioco o di qualche mio atteggiamento. Mia nonna di solito rideva e mi diceva: “Ma che pappagallo che sei! Sei proprio una scimmia!” (“Quina cotorra! Quina mona furona!”). Non soltanto parlavo parecchio, ma scimmiottavo, tentando d’imitare i modi di dire e i proverbi dei grandi: delle donne e gli uomini di casa o delle altre signore anziane del paese che frequentavano la casa o che conoscevo tramite le storie della mia bisnonna. Tutte queste voci le intrecciavo, le mettevo assieme nei miei dialoghi, mentre osservavo gli oggetti e gli animali che erano intorno o giocavo da sola. Spesso i dialoghi erano completamente narcisistici, incentrati su me stessa, ma altre volte il moto della scenetta era una scoperta, un trovare ed affrontare un’immagine o qualcosa che capitava sotto i miei occhi per la prima volta. Allora, mimando le voci degli altri e i loro modi di dire presi in prestito, esprimevo una opinione, mi davo ragione o me la toglievo, mi riprendevo, mi dicevo delle cose belle e non tanto; cose che avevo sentito da tutti loro oppure raccontate da altri su quelle espressioni che spesso dicevano e che li rappresentavano. Altre volte, imitando una prozia sboccata e molto nota a casa mia per questo motivo, bestemmiavo, e a quel punto se mia nonna era presente, fermava subito il dialogo immaginario e mi riprendeva veramente.

Questo divertimento infantile con il tempo diventò un’abitudine e un modo di fare, e per come sono andate le cose nella mia vita, tante volte ho considerato che l’unico modo di portare avanti i rapporti nella distanza era continuare a dialogare immaginativamente con le persone care, farmi accompagnare delle loro voci nella perplessità della comprensione, nell’impotenza del capire o nelle scelte importanti. Fino a che un giorno mi resi conto che per me il pensiero, la comprensione e l’immaginazione camminavano veramente a braccetto. Già grande mi sorprendevo quando mi rendevo conto che il mio modo di “pensare” su quei concetti astratti come la libertà, il potere, il desiderio… che costituivano il vocabolario filosofico, implicava un mettere in dialogo gli esempi incarnati di quelle persone che mi popolavano la mente. Mentre leggevo i testi dei filosofi, il gioco della comprensione dei loro pensieri non mi risultava soddisfacente fino a che non giungevo al punto di padroneggiamento giusto perché le loro voci e i loro gesti sgorgassero dai libri e cominciassero a parlare tra di loro su i concetti che avevano adoperato. Si trattava di mettere in scena il gioco delle argomentazioni, perché fino che non li mettevo in un rapporto dialogante immaginativo non ero convinta di cominciare a capire. Forse fu allora quando cominciai a sospettare se, per caso, questo modo di dialogare tra me e me e con gli altri, e di far dialogare nella piazza interiore dell’immaginazione, non fosse uno strumento interessante o valido per la comprensione e il pensiero. C’era un posto per l’immaginazione nelle teorie filosofiche sulla conoscenza?

Andai a cercare qualche traccia dell’immaginazione nei testi di filosofia che stavo leggendo in quei primi anni di laurea. Incontrai i primi riferimenti nel De anima d’Aristotele. Parlava dell’immaginazione come facoltà che creava immagini unitarie, una capacità indispensabile per desiderare; inoltre spiegava l’immaginazione deliberativa come facoltà privativa dell’uomo e necessaria per la conoscenza, affermando che l’intelletto si considera motore soltanto se in questo caso si considera l’immaginazione come un tipo d’intellezione (433b10).

Cercando più meno cronologicamente, incontrai tante critiche all’immaginazione da parte dei moderni come Blaise Pascal o Baruch Spinoza. Voltaire diceva che Nicolas Malebranche la chiamava  la “pazza della casa”.[2] Ogni volta questa facoltà mi appariva più misteriosa, quasi maledetta. C’è una frase di Kant nella Critica della Ragione Pura che mi diede la misura della difficoltà della ricerca: L’immaginazione è l’arte occulta nel profondo dell’anima umana. Il vero funzionamento di quest’arte la natura difficilmente permetterà  che lo conosciamo e difficilmente lo metteremo all’ aperto. (B180)

Malgrado questo mistero che avvolgeva il suo funzionamento, l’immaginazione occupava un ruolo centrale nell’“Analitica trascendentale”. Senza l’immaginazione sintetica riproduttiva, non c’era possibilità di conoscenza. Questa era la facoltà ibrida che mediava tra la molteplicità di quei dati sensibili, ricevuti passivamente dalla sensibilità, e l’unità del concetto che produceva l’intelletto attivo. L’immaginazione era la creatrice d’aspetto, di figura a partire dall’ordine che lei stessa metteva sulle intuizioni, dal quale risultava lo “schema”. Non a caso l’immaginazione era per Kant la “sconosciuta radice comune”. (A15)

Senza perdere dell’orizzonte Kant, andai avanti attraverso i testi d’altri filosofi come Ludwig Wittgenstein o Jean Paul Sartre, ma non fu fino a quando incontrai Hannah Arendt che scoprii la traccia di quell’immaginazione che cercavo. Secondo Arendt, fu la grande scoperta di Kant, secondo me fu riscoperta da Arendt in un senso nuovo e più vicino all’esperienza da dove è nata la storiella che adesso finisce.

E così cominciò un’altra storia:

Quell’espressione che Fina Birulés mi fece notare mentre mi ocupavo della lettura arendtiana di Kant, era della scrittrice americana Mary McCarthy, amica intima ed esecutrice letteraria di Hannah Arendt. Mary, ricordando Hannah un anno dopo la sua morte, scrisse in un articolo sul New York Review of Books che ricordava l’amica assente come una “entusiasta del riciclaggio”.[3]

Da allora questo giudizio di Mary McCarthy sulla sua amica, un giudizio che ritengo impresso in un’espressione felice e molto consona al vocabolario arendtiano, cominciò a darmi spunti di senso e ad improntare consistenza ad un filtro, secondo il mio parere necessario, per confrontarsi con un altro ineludibile e ormai celebre giudizio che Arendt diede su se stessa: “Io non sono una filosofa”.[4]

La storia del riciclare si intreccia con questa dichiarazione d’Arendt. Sia una che l’altra pretendono di parlare di qualcosa (la filosofia) di cui non abbiamo una definizione definitiva. Già Socrate, il pioniere della lista arendtiana dei non-filosofi illustri, metteva allo scoperto il naufragio a cui è condannata ogni definizione concettuale dei termini più comuni del nostro linguaggio quotidiano. Non è “filosofia” un termine di questo tipo, non è “uomo” o “giustizia”, però nello stesso modo l’affondamento accompagna i ripetuti tentativi di corteggiare la sua definizione, fino al punto, che nel momento presente sembra che la domanda in sè non abbia ormai alcun interesse. Tuttavia, mi continua a sembrare interessante constatare che, dopo ogni affondamento d’ogni risposta offerta dagli amanti della saggezza —professionisti o no—, in quell’istante in cui la superficie delle acque si raccoglie di nuovo, galleggiano frammenti tangibili che non sono altro che esempi di pratiche filosofiche concrete.

Questa seconda storia ha a che vedere con il modo in cui Arendt, malgrado il suo non essere filosofa e precisamente perché non voleva esserlo, partecipò al gioco filosofico con una metodologia originale: la sua pratica filosofica mette in discussione le regole del domandare e del rispondere di tutta una tradizione di filosofi e dei loro conseguenti modi d’articolare discorsi. La tradizione di quelli che, facendosi domande su quello che c’è di comune, l’essere, dimenticarono che la differenza è la condizione più propria degli uomini e delle donne. Così, con il loro oblio schiacciarono in un unico concetto maiuscolo tutta quella pluralità che costituisce la prima legge della terra: e se la prima legge si disprezza, come si può pretendere la legittimità per il proprio gioco?

“Riciclare l’immaginazione” ha a che vedere con questo movimento di scorrimento che si riflette nella metodologia arendtiana, con l’eccentricità che significa radicare la domanda nel comune ed essere fedeli all’esperienza, alla sua frammentarietà e al suo urto, con più determinazione ancora, quando “il filo della tradizione si è rotto” e le categorie con cui ci avvicinavamo ad essa sono “in bancarotta”.

Tentando una definizione ad hoc di quello che tanto entusiasmava la nostra pensatrice, “riciclare”, si potrebbe definire come il processo per cui si dà un nuovo “ciclo” di vita a degli oggetti —o a alcune delle sue parti— che, inseriti nella temporalità che concede loro la logica del consumo o del lavoro, erano destinati alla distruzione o all’inutilità. Agli oggetti utilizzati da Arendt nei suoi processi di riciclaggio, magari  il tempo non aveva riservato un destino tanto tragico, ma persino le leggi della moda e dei canoni imposti secondo un’idea di “correttezza” nell’esegesi dei testi, sia filosofici che letterari, scandiscono la temporalità di questi materiali. I materiali che Arendt ricicla sono quei frammenti sedimentati nel fondo di questa tradizione interrotta per farli comunicare di nuovo e con nuovi significati.

Perché a volte “le perle e i coralli” emergono nelle mani dei pescatori come emerse Glauco: con un’apparenza che non ha nulla ha a che vedere con lo splendore che mostrano dopo essere stati purificati, puliti, strofinati e liberati dai resti che li coprivano e abbruttivano. Sono quelle occasioni in cui le perle e i coralli sembrano mostri che invece dimostrano la perspicacia degli occhi di quei ricercatori e ricercatrici che sanno riconoscere il dono dei materiali più preziosi, la loro potente capacità di portare alla luce sensi nuovi.

Così sicuramente, come Glauco, l’immaginazione emerse agli occhi di Hume e di Kant, dopo tutti gli attacchi della prima Modernità. E non in migliori condizioni dovette apparire ad Arendt, soprattutto se pensiamo alla prospettiva politica che animava la sua ricerca. Però, prima di ripercorrere la sua storia, vale la pena ricordare che il processo di riciclaggio a cui Arendt sottomette gli elementi dell’immaginazione è un unico movimento che si dipana in due variazioni che finiscono per caratterizzare il suo modo di creare discorso: una variazione ci porta al recupero dell’“immaginazione spirituale”[5] dei narratori e delle narratrici, e per estensione di tutti noi, a partire da come i poeti mettono in gioco questi elementi dinamici, è la variazione dell’arte. L’altra è la variazione con cui Arendt riabilita  la nozione d’immaginazione e i frammenti legati ad essa dall’opera critica kantiana. Questo è il riciclaggio di un’immaginazione più filosofica, destinata ad accogliere nelle sue rappresentazioni il politico, per questo la chiamo variazione politica.

Molto in anticipo rispetto al Seminario[6] dedicato alla Critica del Giudizio di Kant e all’Immaginazione, Arendt avvertiva la sua intimità con il giudizio. In un articolo del 1953,  “Understanding and Politics”,[7] vincolava il tema del giudizio alla comprensione storica e alla politica, facendo appello a un’apertura del pensiero (Denken) verso ambiti dell’esperienza non suscettibili d’essere ordinati sotto sintesi sensibili effettive secondo principi dell’Intelletto, utilizzando la terminologia kantiana. Con questo il Denken (pensare) superava il Verstehen (capire), cioè dichiarava che la cognizione scientifico-razionale non risultava adatta ad affrontare la nostra esistenza nel mondo comune ed a sopportare la stranezza della pluralità degli eventi e degli esseri in cui è coinvolta. L’esperienza eccede l’esperienza conoscitiva e questo scarto non porta verso l’irrazionalità, ma verso altri processi di ricerca, percezione, creazione ed espressione di senso, come la comprensione e il giudizio. Allora, il pensiero si apre ad un dialogo infinito che impedisce la sottomissione all’opacità del reale e che in contemporanea preme per la propria fragilità e la precaria temporalità che caratterizzano questa realtà. Non è il “semplice sentimento”, (non è neppure l’empatia- assimilazione), né la “pura riflessione” che portano avanti l’apertura del pensiero al dialogo, ma un “cuore comprensivo”.[8]

Questo “cuore comprensivo” di fronte all’ottusità (Kant) contemporanea è precisamente il dono che chiedeva a Dio il saggio ed imparziale Re Salomone: “Concede al tuo servo il dono d’un cuore comprensivo”. Arendt, citando le parole della preghiera di Salomone, esempio della giustizia e dell’imparzialità, coglieva una delle testimonianze più antiche della cultura ebraico-cristiana, un frammento dell’Antico Testamento. In un processo di tipo metonimico, così come lo intende Luisa Muraro, l’accostava ad un noto poema autobiografico di William Wordsworth (1770-1850), “The Prelude”. L’immaginazione attiva era per lui uno strumento di analisi (non nel senso kantiano, ma come strumento di penetrazione della realtà).

Non è che il nome per… la più chiara delle visioni, l’apertura della mente

e la Ragione nella sua massima esaltazione” (L. XIV, 190-192)

Il dono d’un cuore comprensivo, che nel testo biblico aveva poco o niente a che vedere con l’immaginazione, si trasforma; Arendt lo traduceva nel lessico moderno, in un altro modo per dire “immaginare”. Arendt operava così un trasferimento e in poche righe, sebbene ancora non esplicitamente, forniva le note essenziali, le caratteristiche dell’immaginazione che riappariranno nei suoi testi posteriori.

L’immaginazione come dinamica che si gioca nelle coordinate della presenza e dell’assenza, rende possibile la comprensione e la distanza necessaria per portare avanti quest’impegno che tocca a tutti e a tutte noi: dialogare con la realtà in mezzo agli altri, assumere ed accogliere la sua essenza per essere all’altezza dei tempi. Lo rende possibile perché essa può transitare il tempo e lo spazio, l’abisso che separa la non-presenza del “non più” propria del passato e quella del “non ancora” che rimanda al futuro. È capace sia di porre che di colmare la distanza che ci separa da quello che non è presente al nostro sguardo.[9] Immaginare è avere il coraggio e la generosità per uscire dai nostri limiti soggettivi e dai nostri interessi privati ed aprirci all’alterità, al vero inter-esse che è il mondo, confrontarci spregiudicatamente col presente.

E non è un caso che in questo collage appaiano un re che prega e un poeta. Il re per governare deve essere imparziale e capire i segni di Dio e dei tempi,  cosí prenderà le decisioni giuste per il suo popolo. Mentre il poeta, dice Arendt nel saggio su un altro poeta tedesco, Bertold Brecht, è “qualcuno che deve dire l’indicibile, che non deve rimanere zitto quando tutti sono silenti, e che addirittura deve stare attento a non parlare troppo di cose su cui gli altri parlano”.[10] I poeti hanno il dono di dire qualcosa di nuovo su quello di cui tutti parlano perché hanno rispetto del linguaggio e della parola. Immaginare è anche stare ad aspettare l’emergere delle parole, del senso di quello che accade.

Con queste poche righe Arendt slacciava l’immaginazione da una condanna millenaria imposta dai filosofi. Questa narrazione non dispone dello spazio per analizzare la storia della filosofia, ma in modo estremamente schematico, ingiusto, si potrebbe affermare che l’immaginazione è stata assimilata dall’antichità, da Platone —a eccezione d’ Aristotele— alla fantasia, alla finzione, alla doxa  e, in genere, a tutto il contingente. I pregiudizi dell’antichità contaminarono la Modernità e l’immaginazione continuò ad essere una delle nozioni più maltrattate dell’epistemologia e della grammatica politica. Filosofi moderni, come Blaise Pascal e Baruch di Spinoza, o la stessa Simone Weil[11] furono alcuni dei pensatori che insistettero sui pericoli dell’immaginazione in diverse sfere: 1. per essere fonte d’inganno, illusione e superstizione, e in genere, per essere coinvolta in tutte le varianti di distrazione e perversione della vera conoscenza razionale (critica dall’epistemologia) 2. per la sua incapacità di misura, per la sua dismisura e illimitatezza contraria alla geometria della virtù (critica dalla morale) 3. per essere sfuggente e creare mondi dolcificati che impediscono di farsi carico e d’affrontare l’oppressione, la miseria e le ingiustizie politiche (critica dalla politica).

Così, recuperando due frammenti, uno antico e un altro moderno, sullo sfondo d’una argomentazione piena di echi kantiani, Arendt riabilitó una tradizione alternativa, quella dei poeti. Posteriormente, nel testo che scrisse su Karen Blixen,[12] unico per la sua bellezza e per la maniera di esemplificare il suo approccio personale alla questione della narratività, Arendt dilatava la variazione che è stata appena descritta. Senza dubbio, lei stessa era una gran raccontatrice di storie, come testimoniano i suoi saggi e i ricordi delle sue allieve[13]; per Arendt “storie” erano sia le opere d’arte della letteratura che gli aneddoti casuali raccontati dopo cena. Da piccola amava le lunghe passeggiate con suo nonno Max, sicuramente il primo grande “storyteller” che conobbe. Con lui forse gustò per prima volta la magia delle storie. Ma fu sul filo delle parole del racconto di Blixen,  della Sherezade danese, quella che riviveva sempre tutto nella magia dell’immaginazione, da dove nascono le storie che Arendt scrisse quella bellissima battuta: “Senza ripeter la vita nell’immaginazione non si può mai vivere pienamente, la «mancanza d’immaginazione» impedisce alla gente di esistere”. E non soltanto di esistere, perché chi non immagina e chi non ha delle idee proprie può essere predisposto a diventare un gran criminale.

Arendt, nell’Appendice a La banalità del male,[14] scriveva che Adolf Eichmann non era né un Iago, né un Macbeth, che nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che “fare il cattivo” con determinata freddezza, come Riccardo III. Se non fosse stato per il suo interesse privato a pensare alla propria carriera, non sarebbe stato mai crudele. Secondo Arendt, Eichamnn non capì mai che cosa stava facendo; infatti, fu proprio per questa mancanza d’immaginazione che egli potè farsi interrogare dall’ebreo tedesco che conduceva l’istruttoria, sfogandosi. Non si stancava di raccontare come mai nelle SS non fosse andato oltre il grado di tenente-colonnello e che non era stata colpa sua se non aveva avuto altre promozioni. Eichmann non era esistito pienamente, ma la sua esistenza mancata aveva assecondato un grande orrore.

L’esistenza intesa come presenza al mondo, la presenza intesa come forma di stare al mondo tramite l’agire —ma anche ed irrinunciabilmente tramite la comprensione e la narrazione che l’articola— dà la misura dell’importanza  che Hannah Arendt concede a questa immaginazione specializzata nel “fare presente quello che è assente”.

Ci deve accompagnare sempre l’imperativo blixeano: “Sii ligia alla storia”. Lei lo riformula ripetutamente in modi molto diversi e nel modo stesso in cui lo esemplifica nei suoi scritti: da The Origins of Totalitarianism [15] (che è un buon esempio di come l’insopportabile può essere più sopportabile s’inserisce in una storia e come si deve raccontare l’inimmaginabile) fino alle sue Lectures on Kant’s Political Philoshophy.

Arendt rifugge l’ambizione degli altri professionisti della storia –gli storici-, in altre parole l’obiettività, e rivendica una modalità di narrazione che non tradisca la contingenza, l’imprevedibilità, in definitiva, il movimento spontaneo del reale. La “conteuse” imparò che vivere ed essere fedeli alla nostra storia significa sperare pazientemente che la storia emerga.

Avverte ripetutamente di non ridurre il nuovo al vecchio, di mantenere la ricchezza dell’esperienza aperta alla vista, all’udito e alla scrittura. Accettando l’urto della realtà si lascia aperto il giudizio all’interrogazione… tutti sono modi d’avvertire che se ci manteniamo soltanto ligi al nostro interesse strettamente soggettivo o se tentiamo di concettualizzare e misurare la nostra esperienza, corriamo il rischio di chiudere il senso e chiuderci dentro a noi. L’imperativo è dare parole a quello che avviene, imprevedibilmente, spontaneamente. È raccontare storie, un “lógon didonai” quotidiano che a volte per diritto, diventa un’arte.

Così l’immaginazione, in questo riciclaggio, rappresenta assolutamente il contrario di un’opzione- scappatoia o totalizzatrice: l’immaginazione narrativa, con la sua dimensione esistenziale, è un movimento che eccede e va oltre al racconto dell’impossibile o all’astrazione di quello che vediamo dall’altezza da cui guardava Archimede e che hanno imitato i filosofi professionisti.

Da qui parte la convinzione arendtiana che dà il via alla seconda variazione del processo di riciclaggio: il riciclaggio dell’immaginazione kantiana.

In breve, la tesi arendtiana enuncia che il processo immaginativo è intrinseco alla facoltà umana più politica, cioè, al giudizio nella sua modalità riflettente: quel procedere che invece di sussumere la molteplicità dell’intuizione in un concetto, cerca tramite il gioco libero dell’immaginazione segregare una regola per un caso particolare. Questa tesi non viene esplicitata fino alle LKPP, anche se la prima occasione in cui Arendt puntava chiaramente verso le intenzioni che l’avrebbero portata a queste e alla sua stroncata teoria del giudizio,  fu nel 1960, in “The Crisis in the Culture: its Political and Social Meaning”.[16]

Questo è il primo articolo in cui nomina esplicitamente la Critica del Giudizio kantiana in riferimento al concetto di mondo. Un “mondo” ha delle caratteristiche obiettive. Il mondo è allo stesso tempo lo scenario d’apparenze e il focolare degli uomini, ha bisogno della cura attiva di chi vi si trova implicato, insieme alle compagnie, che secondo un criterio di gusto, sceglie per vivere in questo mondo.

In quest’articolo non c’era nessuna menzione dell’immaginazione, però insisteva sulla radice comunitaria del giudizio e sulla necessità d’una modalità ampliata di pensiero (eine erweirtete Denkungsart) che garantisse la validità esemplare dello stesso in quella rappresentazione soggettivo-oggettiva di dialogo anticipato con i co-spettatori. Quel “cuore comprensivo” del Re Salomone si era trasformato ancora nella seconda massima kantiana dell’Illuminismo, la massima del sensus communis, “pensare con una mentalità estesa”, per poi, in un giro metonimico, diventare nuovamente immaginazione. Per sensus communis intende l’idea d’un senso comunitario, cioè, d’una possibilità di giudicare (Beurteilungsvermögens) —radicata nel comune— che nella sua Riflessione prenda in considerazione il modo di rappresentazione di ciascuno degli altri nel  pensiero.[17]

Per Arendt, il giudizio era la facoltà più politica, e assieme al giudizio l’erano il senso comune e l’immaginazione. Supponendo che l’immaginazione fosse la capacità di rappresentarci le prospettive degli altri spettatori, in un altro processo metonimico, chiamava la mens estensa kantina “immaginazione”.

E ancora in una seconda mossa Arendt affermava che per fare diventare il pensiero elastico, si doveva allenare. Lo faceva riprendendo un personaggio tipicamente kantiano, il Weltbetrachter, l’uomo cosmopolita. Quest’immagine era adatta per spiegare che l’immaginazione “deve allenarsi per andare in visita”. E allenarsi per uscire da noi stessi e aprirci agli altri, andare in visita, consiste precisamente nell’accogliere le realtà altrui, raccontarsi e ripetere storie su di essi,. Implica considerare mentalmente degli esempi e poi metterli in dialogo.

Arendt scriveva interpretando Kant: “Sia in estetica che in politica, giudicando si prende una decisione, nonostante essa sia condizionata da un certo grado di soggettivismo, per il semplice motivo che ognuno ha il suo posto da dove osserva e giudica il mondo, si appoggia anche sul fatto che il mondo è un dato obiettivo, comune a tutti i suoi abitanti”.  In questo frammento si può intuire, nella maniera di mettere in relazione arte e politica, attraverso un concetto di cultura preso dalla cultura animis di Cicerone, il posteriore trasferimento che realizza in pieno nelle LKPP.

Una delle voci che si schierarono contro questa sua lettura intenzionata, contro il riciclaggio politico di Kant, fu quella del suo amico e filosofo Hans Jonas, ma soltanto dodici anni dopo, nel novembre del 1972, durante il dibattito nella Toronto Society. Jonas contestava ad Arendt il fatto che ignorasse nella sua lettura kantiana il concetto di bene supremo e che invece prendesse unicamente il concetto di giudizio condiviso con l’intenzione di politicizzare la nozione di mondo. La risposta d’Arendt a Jonas fu breve e tuttavia mise a fuoco con precisione quale fosse il movimento di scorrimento della sua interpretazione anticanonica di Kant. Secondo Arendt, nella Terza Critica non c’era una riflessione sul tema del bene né sul tema della verità perché Kant in questa ultima Critica si occupava della possibile validità o legittimità di queste proposizioni. Appunto per questo Arendt insisteva che era sostanzialmente politico, proprio perché in quest’ultima Critica Kant il tema era la validità di tutto quello previamente stabilito. Questa costituiva una delle basi più importanti per potere trasferire la questione della validità esemplare dell’estetica alla sfera politica. Risulta chiaro che Arendt era cosciente dell’interesse che rappresentava per lei questo trasferimento, ma sapeva anche che era un tema marginale fino a quel momento.

Questa sostituzione della morale, la praxis per eccellenza secondo Kant, con la politica, insieme alla riabilitazione arendtiana della nozione aristotelica di praxis in contrapposizione a quella di poiesis (produzione), furono i presupposti per leggere la Critica del Giudizio in chiave politica.

La prospettiva della mossa era già presente in The Human Condition,[18] dove l’arte (la terra intermedia tra poiesis e praxis) e la politica condividevano qualità fenomenologiche e “poetiche”. Entrambe, secondo Arendt, performano il nuovo e il singolare, apparendo e scandendo con questo apparire la temporalità e gli spazi del mondo. Tanto gli oggetti artistici, soprattutto le belle storie, come le azioni politiche, soprattutto le loro alleanze, possiedono un modo particolare di comunicare e trasmettere senso senza racchiuderlo allo sguardo e all’udito degli spettatori, che si compiacciono della loro apparizione e decidono del modo d’apparire. Perché non soltanto l’artista con la sua immaginazione produttiva decide l’aspetto del mondo: ogni spettatore, ogni spettatrice, prima di prendere decisioni, deve rappresentare nello scenario mentale dell’immaginazione l’irrappresentabile: la pluralità in cui la sua voce e il suo sguardo radicano e che è impossibile sintetizzare in un concetto. Così, entrambe, arte e politica, sgorgano dalla sconosciuta radice comune: l’immaginazione.

E volere rivendicare l’immaginazione, riciclarla, consiste precisamente in una scommessa per rispettare la poliedricità delle prospettive e la polifonia delle voci e i gesti nel proprio giudizio, nella propria storia, nel proprio testo. Essere ligie alla prima legge d’ogni storia: un imperativo che diventa desiderio d’immaginare ancora.

[1]              Questo testo è la base d’una lezione che Chiara Zamboni mi invitò a tenere nel suo corso di Filosofia del linguaggio. A lei è dedicato, per darmi questa bella opportunità e per tutte le accurate attenzioni che hanno illuminato quel periodo di ricerca.

[1]              Luisa Muraro: Maglia e uncinetto, Feltrinelli, Miano 1981, p. 95.

[2]              Sulle critiche moderne dell’immaginazione ne parlo più avanti. Si può vedere Malebranche, N. : Entretiens sur la métaphysique, Œuvres, t.II, p. 670.  Malebranche dice: «L’imagination est une folle qui fait la folle»

[3]              “Hannah Arendt”, New York Review of Books, 1976. Citato nella “Introducción” de Fina Birulés a l’edizione spagnola di Was ist Politik?.

[4]              Hannah Arendt: Was bleibt? Es bleibt die Müttersprache?. Trad. italiana Che cosa resta? Resta la lingua materna. Conversazione di Hannah Arendt con Günter Gaus.

[5]              Hannah Arendt: Between Past and Future. Eight Exercises in Political Thought, New York: The Viking Press, 1968. Trad. italiana Tra passato e futuro (Premessa).

[6]              New School for Social Research, autunno del 1970. Pubblicato come Lectures on Kant’s Political Philoshophy, Chicago: The University of Chicago Press, 1982. Traduzione italiana: Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant. D’ora in poi LKPP.

[7]              Hannah Arendt: “Understanding and Politics. (The Difficulties of Understanding)”, Partisan Review, XX, 1953, n. 4, pp. 377-392. Trad. italiana “Comprensione e politica” in Archivio Arendt. 2.

[8]                Libro I RE, cap. III, vers IX.

[9]              Arendt afferma che è la sola bussola interiore che possediamo.

[10]            Hannah Arendt: “Bertold Brecht. 1898-1956”, New Yorker, 5 di novembre, 1966, pp. 68- 122. Pubblicato in Men in Dark Times, New York: Harcourt, Brace and World, 1968. Trad. italiana Il futuro alle spalle.

[11]            Blaise Pascal: Pensées, 1776, §24-25, §44. Baruch Spinoza : Etica ordine geometrico demonstrata, 1677, Proposizione XIX e ss.  e  Tractatus theologicus-politicus, 1670, prefacio. Simone Weil: Escrits sobre la guerra, Alzira: Bromera, 1997, pp. 49 e 129. Anche “La imaginación colmadora” in La pesanteur et la grâce, Paris: Librarie Plon, 1988.

[12]            Hannah Arendt: “Isak Dinesen: 1885-1962”, The New Yorker, 1968.

[13]            Elisabeth Young- Bruehl: “Hannah Arendt’s Storytelling”, Social Research, 44: 1, 1977, pp. 183- 190.

[14]            Hannah Arendt: Eichmann in Jerusalem: a Report about Banality of Evil, New York: The Viking Press, 1963. Trad. it. La banalità del male.

[15]            Hannah Arendt: The Origins of Totalitarianism, New York: Hartcourt, Brace and Co., 1951. Trad. it. Le origini del totalitarismo.

[16]            Hannah Arendt: “The Crisis in the Culture: its Political and Social Meaning”, Daedalus, LXXXII, 1960 n.2, pp. 28-46. Trad. it. in Tra passato e futuro.

[17]            Immanuel Kant: Kritik der Urteilskraft, § 40.

[18]            Hannah Arendt: The Human Condition, London, Chicago, University of Chicago Press, 1958. Ed. Tedesca Vita Activa oder vom tätigen Leben, Stuttgart, Kohlhammer- München, Piper, 1960, 1967, 1981. Trad. italiana Vita Activa.