diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 9 - 2010

Lingua dell'altro

Godere più lingue

Ho deciso di prendere la parola perché come maestra di scuola primaria mi sento al centro di una operazione rivoluzionaria rispetto al movimento della politica corrente nei confronti della lingua, in ordine al suo uso e al suo posto.

Da dieci anni insegno in classi composte, per metà almeno,  di bambini e bambine appartenenti a culture straniere, fatto questo che ha sempre suscitato in me  grande attrattiva poiché sento che lì ho molte occasioni per imparare qualcosa di inaspettato. Sono in realtà attratta dal mondo dell’infanzia in quanto tale ma l’esperienza forte che hanno saputo attraversare i bambini migranti e la loro portata di ricchezza culturale, a me estranea,  offrono a me stimoli intensissimi.

Una delle opere che mi appassiona di più dentro allo stare in relazione coi piccoli è aprirmi all’ascolto incondizionato dei saperi di cui sono portatori e soprattutto proteggere e sollecitare il lento, spontaneo, inaspettato uso libero delle lingue che conoscono, in particolare di quella che hanno imparato dalla madre. I miei alunni sanno che in classe siamo in grado di parlare in tutto almeno tredici lingue e che questa è una ricchezza di cui tutti possiamo partecipare e godere nel gioco ma anche nelle attività di scrittura individuali o di gruppo. Nelle nostre lingue sono compresi i dialetti italiani ma anche quelli di altri continenti e anche le lingue solo orali. La lingua che, per l’origine delle famiglie italiane, conoscono meno è il dialetto veronese per il quale spesso hanno bisogno del mio aiuto.

Ho imparato dagli studi delle donne, dagli studi di Francine Rosenbaum, etnologopedista che lavora in Svizzera, e soprattutto dalla mia esperienza che la lingua si rivela tutt’altro che neutra rispetto alle esperienze di vita che prova a mediare quindi l’esprimersi nella lingua che abbiamo costruito insieme alla madre e in cui lei ci ha dato fiducia rappresenta la possibilità di esserci davvero, o almeno più francamente, nel contesto in cui ci si trova. Come scrive Eva Maria Thune “E’ stato merito del pensiero delle donne vedere questa forza della lingua materna nella contingenza, in quanto ha spostato l’attenzione dalla visione della lingua materna come struttura puramente linguistico-cognitiva e puramente relazionale verso una visione in cui tramite la lingua materna è fatta salva la complessità della creazione del senso”.[1]

Non penso tuttavia che imparare l’italiano sia inevitabilmente un  tradire sé, per i bambini stranieri, ma impedire che ciò accada è uno dei compiti più complessi a cui io  mi sento chiamata in questo momento storico. I rischi più frequenti sono da un lato la chiusura in un silenzio prolungato, talvolta espressione di rifiuto nei confronti della nuova lingua, dall’altro l’apprendimento dell’italiano a scopo utilitaristico e senza un reale coinvolgimento di sé.

I bambini e le bambine sono osservatori attentissimi e abilissimi nel percepire tra le righe, tra i non detti delle maestre, quale idea possiedano esse della loro cultura e della loro lingua [2] non certo in termini di conoscenza ma di attribuzione di valore, ossia il posto che si intende offrire loro.

E’ il posto che diamo o non diamo loro tutti interi di anima-corpo-lingua-cervello-cultura che importa a loro, come importa ad ognuno/a di noi, che diventa premessa indispensabile di ogni apprendimento. In questo senso sono d’accordo con Eva Maria Thüne quando scrive  che “solo quando c’è una domanda, un desiderio di sapere e di scambio da parte di un altro individuo si crea la possibilità di interazione, di conflitto, di comunicazione e di scambio”[3]

Fare educazione linguistica a scuola significa per me collocarsi nella scia della lingua appresa nell’intensità degli scambi con la madre … illuminare il reale e dare senso, trovare insieme le parole per nominare le proprie emozioni e parlare delle proprie esperienze e relazioni di amicizia senza mettersi al postpo della madre. Le attività linguistiche che cerco di mettere in atto non desiderano contrapporsi o sovrapporsi alla competenza che i bambini già possiedono  ma cercano di mettersi in relazione con, di partire da lì aprendo alla lingua materna e offrendo occasioni, anche in italiano, di godere della sua carica di senso.

 

La lingua che parlano i bambini e le bambine alla scuola elementare prende ancora dentro l’esperienza quotidiana e i suoi patimenti. Ha legame con la realtà dell’esserci e dell’essere in relazione. E’ una lingua fatta di parole che spiegano di dentini che cadono, pulsanti dello sciacquone posti troppo in alto per essere premuti, manine troppo stanche per scrivere una riga di più, pantaloni fuori misura che stanno per cadere, altre volte di parole soffocate dal sentimento di nostalgia nei confronti dei nonni che abitano dall’altra parte del  mondo …

 

 

 

In venti anni di elaborazioni di pensiero e di parola con i bambini e le bambine, anche quando erano quasi tutti italiani, mi sono resa conto che ogni tanto qualcuno/a  illimina  l’aula con un racconto di un vissuto assai sentito – che non si riesce a non far uscire da sé- e che facilmente potrà anche essere rinarrato, imprevedibilmente, tempo dopo, dallo stesso narratore. (più o meno consapevolmente).

Ecco questo, ho sempre pensato, fosse l’accadere, proprio perché spontaneo e magari, per il tempo scolastico, poco opportuno, del fare esperienza di lingua materna. Far scappare qualcosa di sé con grande trasporto, con un dire tutto nostro in uno spazio che – in quel momento- facciamo e sentiamo per noi. Un agio nel dire e dopo il dire. E’ come se ci fosse, dietro quelle parole bambine, un’esperienza che scotta, che non si può sottrarre alla significazione tanto è il peso, la carica di senso che ha per l’essere.

Ma non sempre si dice di un’esperienza nel senso di un agire vissuto.

Potrebbe trattarsi di un sentire, o della descrizione di un oggetto o una persona che apre in me  delle risorse creative che so impiegare nella lingua.

Un prendere la parola a partire da sé scegliendo, con ardire spontaneo ed energico, le parole, ripescando nel desiderio, nella passione che originariamente ha avuto l’imparare a comunicare.

Solo ogni tanto, durante il temposcuola, si verificano contesti a tal punto liberanti. I bambini e le bambine, consapevoli di poter appoggiarsi ad un intensissimo tessuto di relazioni – elaborate ed agite quotidianamente- cariche di senso e fondamentali per la messa in gioco di loro stessi/e e la crescita personale, si lasciano coccolare da racconti in cui le parole aprono, scoprono, indizi importanti della loro esperienza. Esse sembrano sorridere come chi le pronuncia.

E’ una libertà di accedere all’originaria fiducia nella lingua, offertaci dalla madre o da chi per essa, che i/le bimbi/e possono conquistare con il nostro sostegno in un lavorio creativo. Giungere cioè ad una mediazione, nel rapporto con la lingua, tra la libertà assoluta dalle regole e la rinuncia alla significazione di sé. E’ possibile cioè trovare il modo che tutti possano capire   anche accettando che le regole vengano in parte disattese se così posso esprimere qualcosa in modo forte e fedele a me stessa. Provare a piegare la lingua al nostro desiderio cosicché non si spenga la fiducia e l’intraprendenza nei suoi confronti.

 

Con i bambini e le bambine questo lavorio è particolarmente stimolante, da un lato perché sono ancora a ridosso del primo bagno linguistico, dall’altro perché così desiderosi di creare lingua e di dire ciò che, almeno ai loro occhi, è. Riescono cioè più agevolmente di un adulto, a stare in contatto – proprio per il loro divenire, il loro essere in evoluzione- con il piacere, a ‘intrattenere un  dialogo’ costante con esso. Ad unire strettamente dire-piacere-sapere, avvertendo un sapore diverso per tutto quello che imparano con grande immediatezza.

 

 

Ancor  più se sono presenti bambine e bambini di altra cultura, sarà un lungo lavorio nella relazione, nella costruzione della reciproca fiducia, nel sottolineare la fortuna di accogliere una così grande possibilità di conoscenza – oltre alla grande potenza della socializzazione spontanea tra pari – a far sì che piano piano una creatura abbia voglia di spendere di sé accedendo alle risorse creative più profonde e a far vivere in classe la propria lingua d’origine senza troppa timidezza. Così tutti possono imparare da tutti e in un clima di rispetto, infatti è la maestra che spesso impara da loro: lingue, abitudini e scuole altre.

L’arrivo di un bambino straniero in classe – allo stesso modo di un arrivo italiano – rappresenta il darsi di una umanità incarnata, una storia di vita che si inserisce in un intreccio, già presente, di storie di vita e di relazioni.

E l’incanto spontaneo nei confronti dei suoni, della cadenza, della musica di una lingua altra, parlata  da una amica o da un amico, è sempre grande e potente per loro.

 

Ricordo un mio alunno macedone sempre zitto nonostante parlasse italiano abbastanza bene, affidato con la madre ai servizi sociali, allontanato dal padre, meno triste nel gioco libero coi compagni, dagli scarsi risultati scolastici. Un giorno tutti scrivono una filastrocca nella loro lingua d’origine e la sua è bellissima, lunga, con ritornelli in rima che si ripetono. Viene a scriverla alla lavagna, felice di mostrare le sue competenze e di spiegarci le lettere che nell’alfabeto italiano non ci sono, la pronuncia, i segni grafici. Tutti osservano interessati e in silenzio e le bambine moldave intervengono per dare il loro contributo.

Sono ancora così vicini all’origine della loro vita e del loro linguaggio, così ancora dentro gli abbracci di parole materni che consentire loro la libertà di trovare strade espressive nella lingua di preferenza, di volta in volta, è l’unica via possibile. Spesso è  faticoso trovare le parole insieme per significare qualcosa mantenendo il contatto con sé stessi e la propria storia, con la propria multiforme esperienza, per queste bambine e bambini ma solo in questa fatica si può aprire uno spazio di libertà che io spero li accompagni poi per tutta la loro vita.

 

 

Ma è anche – o forse soprattutto – la qualità della relazione che intrattengono con la maestra e i compagni  a riattivare le risorse più profonde di loro stessi, oltre all’uso fisico della lingua del paese d’origine. È il desiderio di esprimersi, di esprimere qualcosa che sta loro davvero a cuore, della loro storia ad esempio, il ricordo di un benessere vissuto, di un contesto goduto a far loro trovare le parole, a far fare loro ‘esperienza di lingua materna’ anche se stanno usando la lingua italiana, per quanto essere riescono a toccare. Ricordo un bambino marocchino che descriveva con entusiasmo, incredibile trasporto e ricchezza di parole, le onde di un mare, il suo mare, che lo abbracciavano emozionandolo e divertendolo ad un tempo.

 

L’altro giorno – compiendo in realtà un errore ma con l’intenzione invece di attirare l’attenzione, di creare aspettativa nei confronti di una storia – coi piccoli di sette anni, alle tre del pomeriggio- annunciai che il protagonista godeva di un insolito nome: Ludmillo. Immediatamente, come luci improvvise, su quello sfondo offuscato ed assonnato, due manine si levano leste: una, di madre slovacca a spiegarmi che sua zia si chiama Ludmilla, un’altra,  moldava, a chiarire che non si tratta di un nome strano in quanto appartiene ad un suo parente. E’ tanto rapido quanto appagante il modo con cui è possibile, in classe,  ricostruire la geografia dei nomi propri.

 

Una graziosa ed intelligente ragazzina moldava nei primi giorni del suo arrivo aveva così desiderio di raccontarci la sua scuola in Moldavia con ricchezza di particolari che lo fece nella sua lingua ma insisteva nel correggere la traduzione della mediatrice linguistico culturale che trovava sempre manchevole di qualche sfumatura o dettaglio per lei essenziali. Questo accade di frequente in quanto la madrelingua è fatta di una materia così diversa da non poter trovare facile traduzione.  In realtà era anche la presenza in carne ed ossa della mediatrice moldava ad aprire uno spazio simbolico così forte e liberante. La presenza fisica in classe di una donna adulta della sua stessa cultura opera simbolicamente un ulteriore  spostamento nel contesto-aula della scuola italiana e conferisce autorità al suo essere portatrice di una lingua e di un  sapere altri e diversi, in modo esplicito e ben visibile.

 

La stessa ragazzina sceglie di scrivere a maggio un testo, incredibilmente corretto, in lingua italiana, in cui riflette sull’unico  anno trascorso nella scuola italiana ed esplicita il senso che ha dato al  suo imparare la nostra lingua: costruire relazioni forti con le coetanee.

Ora vorrei esprimervi tutti i miei sentimenti che sono sinceri quanto i miei compagni e le mie maestre. Con l’aiuto delle maestre quest’anno ho compiuto un grande sforzo per imparare la lingua e sento di essere anche maturata.

La lingua l’ho voluta imparare e adesso sento che mi serve per capire le persone e per poter avere delle amicizie vere. Le amiche che sono state più vicine al mio cuore sono state : V., D. e I..

  1. mi ha aiutato molto con la lingua, essendo moldava anche lei e mi ha “capito” sempre.
  2. è stata una vera amica dal primo giorno e vorrei dirle che la porterò sempre nel mio cuore.
  3. mi faceva ridere sempre e mi divertivo molto con lei.

Ma desidero ringraziare tutti i miei compagni e le mie compagne perché mi hanno sostenuto e  mi hanno dato il coraggio di andare avanti.

Anche le maestre sono state vicino al mio cuore.

Vorrei ringraziare la maestra Federica perché è lei che  mi ha fatto imparare questa meravigliosa lingua che è l’italiano, la maestra T. perché è dolce, buona e ride sempre con  noi e alla maestra A. vorrei dire che mi ha capito come la sua figlia.

Vi voglio tanto bene!”

 

 

A scuola tutti/e imparano da tutti/e, maestre comprese, ed ognuno/a porta la sua lingua, le sue passioni, il suo amore ed è accolto/a  allo stesso modo così alla ricreazione si imparano formule per giocare nelle lingue di tutto il mondo e soprattutto quelle della lingua di casa del migliore amico o della migliore amica e a volte, giocando, le lingue si mescolano anche.

La scuola primaria è uno spazio reale di relazioni rese possibili dagli scambi linguistici ma anche una fucina di quotidiani quasi-miracoli che hanno a che fare con l’essere e con il sapere in evoluzione e che anticipano e talvolta capovolgono le logiche, anche linguistiche, che prendono piede nella società adulta, fuori di lì.

A partire dalla  qualità della vita che trascorriamo insieme quotidianamente a scuola, fatichiamo a comprendere  che si desideri limitare il numero degli amici di altra cultura, per legge, a cinque per classe.

[1]              In Annarosa Buttarelli, Luisa Muraro, Liliana Rampello (a cura di), Duemilaeuna donne che cambiano l’Italia, Pratiche Editrice, Milano 2000,  p. 217.

[2]              Ricordo a questo proposito gli studi sul dialetto compiuti da Mario Lodi e da Tullio de Mauro negli anni Settanta in relazione all’educazione linguistica nella scuola che evidenziavano quanto l’uso del dialetto venisse censurato a scuola e con esso  le competenze linguistiche degli allievi. Tuttavia mi è parso di osservare in questi anni che rispetto alle dinamiche dialetto/italiano l’apprendimento dei bambini migranti mantiene delle similitudini ma apre anche a nuovi e diversi interrogativi.

[3]              In Eva Maria Thüne (a cura di), All’inizio di tutto la lingua materna, Rosenberg & Sellier, Torino 1998,  p.74