diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 5 - 2006

Il Taglio del Conflitto

Filosofare a zig-zag: apologia pro opera sua

 

Colgo l’ occasione presentata dalle compagne di Diotima per riflettere e rispondere ad alcune domande che illuminano tutto il mio percorso di pensiero e di azione. Ringrazio anche le amiche per la cura e l’attenzione che hanno riservato alla lettura dei testi scritti  da filosofe e pensatrici femministe. Questo paziente lavoro di riflessione mi da la sensazione di appartenere ad una comunità che , pur essendo dispersa, è molto vicina ed unita nella ricerca perenne di spazi di libertà.

Questo testo ha una genesi complessa, che s’ intreccia con incontri e scambi avvenuti in vari momenti e in luoghi molto diversi. Dal convegno in cui lo presentai la prima volta[1], a scambi epistolari e discussioni animate con le amiche e le studentesse. Alcuni pezzi vennero pubblicati separatamente, in riviste come DWF,  Noi Donne, ma anche in websites in Svizzera, in Olanda e altrove. Lo considero un testo importante per me e  un vero tentativo di spiegare come sono avvenute certe svolte nel mio itinerario. Solo a posteriori possiamo dirci capace di cogliere la trama dei sentieri intrecciati della propria esistenza.

Se è vero che la scrittura si nutre di assenza, è altrettanto vero che il mio pensiero è un tentativo – testardo e perenne – di costituire dei legami, cioè di far rete. Si potrebbe dire  che si tratta di costruire delle comunità, cioè dei luoghi d’ incontro e di scambio. In Metamorfosi in particolare è costruito intorno ad una serie di dialoghi e scambi, a volte impliciti e a volte no, con le mie coetanee ed i compagni. Ho voluto in ogni modo scrivere a rete, come per mettere e tenere insieme posizioni e momenti che sono sconnessi tra di loro e persone che sono sparse per  il mondo.

Linda Alcoff[2] sottolinea quest’aspetto del mio lavoro: un attivismo che si dedica a costruire comunità reali e discorsive dentro e fuori I miei testi scritti, lasciando ampi spazi agli e specialmente alle altre e quindi provocando incontri molteplici e a catena.  Saper trovare del positivo anche in posizioni con le quali una non è sempre d’ accordo teoricamente è un punto fisso dalla mia etica professionale. E anche una strategia politica, che punta non solo a fare filosofia insieme alle altre donne, e a teorizzare a partire da un sé che è singolare perché sostenuto da uno sforzo collettivo, ma anche a attualizzare una certa visione del discorso. Se il discorso teorico infatti funziona in un’ economia non-lineare, in modo eterogeneo e complesso, allora anche la resistenza politica deve assumere questo stile a zig zag.

Le mie comunità o tribù è vasta e diasporica.  Ci sono le compagne filosofe- quelle della mia età: Butler, Grosz, Gatens (dalla mie fase australiana) e quelle della generazione precedente : Haraway e  Lloyd. E poi ci sono i maestri di sempre: Deleuze e Irigaray, ma anche tanti altri.  Ci sono le amiche assenti e rimpiante perché scomparse troppo presto:  Kathy Acker, Claire Duchen, Teresa Brennan, Naomi Schor.  E quelle magari anche più giovani che invece il male l’ hanno sconfitto e sono andate avanti, come Jackie Stacey.  Sono molto fiera del modo in cui la mia generazione, che ha fatto del cambiamento una questione etica, oltre che politica, ha saputo reinventarsi anche i rituali di festeggiamento, come anche di lutto e di perdita definitiva. Questa dimensione simbolica mi pare di particolare rilevanza, in quanto cerca di collegare il lavoro di trasformazione politica del quotidiano alla ricerca di cambiamenti più profondi, che toccano le strutture stesse della nostra soggettività e del nostro comune vivere.

Per far rete in maniera efficace, è importante anche saper prendere acqua, e quindi fidarsi di strutture aperte, flessibili. Anche questo è un modo per resistere al dogmatismo e preferire invece spazi e zone di scambio e di transizione. Per tessere le mia rete oggi, ho deciso di adottare uno stile per me inusuale, sebbene in gran voga di questi tempi: ho scelto, cioè, di mescolare il teoretico con il personale.

 

  1. Cominciamo dal teorico – la mia passione per la filosofia.

 

Mi sono formata all’interno delle filosofie auto-riflessive della generazione del maggio del ’68. Generazione, questa, che attaccò in modo radicale non solo l’istituzione della storia della filosofia, ma anche i sistemi di pensiero, fino ad allora intoccabili, che avevano fondato e guidato la teoria critica prima, durante (sebbene in esilio) e dopo il fascismo europeo: vale a dire il marxismo e la psicoanalisi. Sono stata introdotta alla filosofia post-strutturalista francese da coloro che li hanno fondati e, come tanti della mia generazione, mi è stato relativamente facile applicarli all’analisi della cultura contemporanea. Col tempo ho però cominciato a leggerli anche come lavori di teoria sociale e quindi di filosofia autentica e non solo critica.

Nel ritorno a queste teorie, quello che è in gioco è un momento, un gesto di enorme creatività che consiste nel ri-scoprire le radici sovversive sia del marxismo che della psicoanalisi, rispettivamente sotto la spinta di Althusser e Lacan. Mossa resa possibile dalla separazione dei testi dalle interpretazioni ufficiali che venivano fornite dalle istanze istituzionali che ne garantivano la giusta linea, cioè rispettivamente i partiti comunisti europei e l’associazione internazionale di psicoanalisi. È proprio la critica dei poteri, materiali e discorsivi, delle istituzioni a costituire il momento chiave di questa generazione. La sua radicalità risiede nello scardinare le fondamenta stesse del soggetto, liberandolo/a dalla linearità di un telos in cui ragione, giustizia e rivoluzione hanno sempre l’ultima parola.

Profondamente ispirati da Nietzsche, i post-strutturalisti sono politicamente all’estrema sinistra della scena: de- costruiscono e costruiscono approcci genealogici in aperto contrasto con il dogma del materialismo storico. Considerano l’inconscio non come la scatola nera o il demone oscuro di un soggetto intriso di sensi di colpa e costituito come “mancante”: piuttosto, come il generatore di atti interni di disobbedienza gratuita e atti esterni di insurrezione gioiosa. Nell’Abécedarie, Deleuze (1994) parla della sinistra europea degli anni ’60 e ’70 in termini molto pragmatici, ma anche appassionati. Prende le distanze dagli elementi utopici del credo gauchista, specialmente dalla nefasta illusione universalistica di una “nuova umanità”. Consapevole del fatto che tutte le rivoluzioni sono destinate a fallire, Deleuze enfatizza, invece, il processo del “divenire”: cioè la ricerca sociale, politica e personale di un cambiamento radicale e di una trasformazione che diventa costitutiva di ciò che chiamerei la affettività politica di sinistra. Applicando a questa discussione il suo schema concettuale di “diventare-minoritari”, Deleuze definisce la sinistra in termini di una specifica sensibilità, di un diventare-minoritario che si scontra costituzionalmente con i difensori dello status quo, gli specialisti del codice razionale; i giudici e gli amministratori delle verità e i feticisti della chiarezza.[3]

Questo era l’equivalente europeo del movimento hippy, del flower-power californiano; è la saga ripetuta di un’Europa che si regge sul privilegio costitutivo, ma sa anche svelare le divisioni interne e la produzione infinita di differenze peggiorative. Ma è anche una storia tutta nuova che aspetta di essere raccontata ed esiga una ricezione critica adeguata.

L’anti-americanismo militante di Lacan è probabilmente la migliore espressione del come i pensatori critici europei cercano di trovare una via di mezzo fra le due super-potenze della Guerra Fredda (Clément, 1991; Roudinesco, 1997). “Dove c’era l’Ego, ci sarà l’ID”- è la risposta di Lacan al dilagante conformismo della psicologia dell’ego di stampo americana (Lacan, 1966). Lacan attacca esplicitamente gli elementi politicamente conservativi della società psicoanalitica, così come è diventata nella sua versione anglo-americana. Sopravvissuta in esilio, infatti, la psicoanalisi si è ripiegata su se stessa, nella rigida obbedienza alle idee Freudiane dell’origine, rinunciando alla flessibilità e divenendo ben presto obsoleta. Il ‘ritorno’ a Freud è il contributo di Lacan alla radicalizzazione della politica psicoanalitica (Turkle, 1978). Rompendo il tabù della politica, inoculato da Freud, e rendendo “psicoanalisi” e “politica” non più pratiche mutualmente esclusive, Lacan ha dato un contributo fondamentale alla teoria critica. Irigaray, Foucault e Deleuze hanno fatto il resto.

 

La questione dell’immaginario sociale è centrale al progetto politico di questa generazione. Come possa essere analizzato e forzato a cambiare nella direzione di una critica radicale del potere, diventa la preoccupazione cruciale nelle filosofie e nelle pratiche della generazione del ’68. Gli stessi che cantavano: “Ma che colpa abbiamo noi”, “Potere all’immaginazione!” e che elessero “Imagine” di John Lennon allo stato di inno universale. I termini-chiave nella filosofia francese, come la ‘crisi’ della filosofia; la ‘morte’ dell’uomo; il declino dell’uguaglianza o l’emancipazione femminista: tutti, per la generazione post-strutturalista, sono correlati intrinsecamente ed esplicitamente alla crisi dell’euro-centrismo ed al ruolo della filosofia critica europea come polo di opposizione all’egemonia americane.

Per gli intellettuali che abitano l’Europa, il post-strutturalismo è stata una delle risposte al declino delle utopie moderniste, soprattutto il marxismo e le varie versioni della politica dominante post-marxista. È stato un tentativo di ri-articolare un senso radicale di materialismo e il bisogno dell’azione pratica, con le sfide provenienti dai ‘nuovi’ movimenti sociali, soprattutto quello delle donne, degli omosessuali e delle minorità etniche, e di leggerle nel quadro della de-colonizzazione e della crescita della post-colonialità. Cornel West argomenta che, una volta che queste teorie attraversarono l’Atlantico e vennero adottate dagli Stati Uniti, la loro forza fu ridotta. Aggiunge anche che abbiamo bisogno di mettere in discussione la ricezione apolitica di queste teorie e analizza il “perché certe teorie si fanno strada in un certo modo, ed altre, invece, cadono nel vuoto” (West, 1994, p.123).

 

Per me questa tradizione filosofica rappresenta una maniera di scavalcare i limiti del marxismo storico, per approdare a un pensiero delle complessità e delle molteplicità: una filosofia di e dei movimenti, non organica ad alcun partito politico.

Non sono affatto convinta però che la mia autobiografia o gli itinerari di vita personali abbiano un’influenza diretta sul mio pensiero o sulle cose che scrivo.  Di certo il fatto di essere stata – e forse di essere tuttora – un’emigrante mi ha aperto gli occhi su molti aspetti della condizione cosidetta nomadica. Ma non esiste a mio avviso un nesso diretto ed inevitabile tra le due cose. Il fatto di aver avuto l’esperienza della perdita dei luoghi natii e della lingua madre di per sè non garantisce un approccio inevitabile verso il nomadismo, al contrario, in genere gli emigranti sono molto attaccati alle loro tradizioni e alle origini culturali e linguistiche. Nel mio lavoro sul nomadismo come concetto filosofico mi sono soffermata sulle differenze tra una condizione di mobilità– scelta o imposta- come nel caso dell’emigrazione, e altre figurazioni della soggettività come l’esilio, la precarietà del lavoratore all’interno del mercato del lavoro cosiddetto ‘flessibile’ o il nomadismo.  Per non parlare di situazioni ancora più drammatiche, come i rifugiati o quelli che non hanno scelta e che sono senza patria per forza di circostanza. Si tratta di differenze che sono tutto tranne che filosofiche o metaforiche: sono modi di posizionamento nella vita, nel sociale, che comportano storie diverse, e hanno ripercussioni sociali del tutto asimmetriche.

Il rapporto tra esperienza vissuta e pensiero non è lineare, ma rizomatico: è un percorso a zig-zag che si ritaglia tempi e modi propri e non pre-determinati.

Io non ho mai inteso il nomadismo come nuova parabola universale o simbolo della condizione della postmodernità. Lungi da me tenere discorsi così magistrali ed universalizzanti. A me interessano invece le cartografie delle differenti modalità di costituzione di posizioni del soggetto fondate non sull’unità dello spazio e del tempo – care alla vecchia metafisica- ma piuttosto sulla non unità, il flusso e i movimenti. Dal punto di vista di un pensiero critico ritengo che questo pensiero mobile riflette il modo di funzionamento del capitalismo avanzato, che è un’economia e una logica basata sulla proliferazione, la circolazione e la rentabilità di ‘differenze’ che sono ridotte a livello di oggetti di consumo. Un pasticcio ibrido che tende a colonizzare il vivente in un sistema che riduce le molteplicità o le complessità a livello di quantità plurali e le commercializza come tali. Riuscire a tracciare una cartografia adeguata e convincente della nostra condizione storica mi sembra già una sfida non indifferente. Riuscire a tradurla in metodi e strategie efficaci è la prossima tappa.

Quello che cerco nel nomadismo filosofico – e che trovo nella lettura del capitalismo che ci propongo Deleuze e Guattari – è una filosofia che pur rispettando queste complessità e situandole storicamente nel registro del capitalismo avanzato, cerca forme di resistenza, cioè come utilizzare la logica del sistema contro se stesso.

Chiaramente la mia autobiografia, o le vicissitudini particolari della mia identità qui non giocano un grande ruolo e conta assai di più una scelta filosofica che io ho fatto. Di certo il femminismo e la pratica politica del movimento delle donne hanno influenzato molto le mie scelte nel senso di spingermi verso una posizione che fa della non appartenenza – per esempio al sistema fallocentrico, come ci insegna Irigaray – uno strumento critico e di arricchimento, non una fonte di dolore e di mancanza. Il femminismo è una pratica della dis-identificazione della donne dal sistema fallogocentrico e in quanto tale  insegna metodologie e strategie che fanno della distanza critica non solo una virtù, ma un punti di partenze per inventare nuove strutture.   Il mio punto di origine teorica e politica è questo.

Vorrei precisare un punto che ritengo fondamentale a proposito del soggetto nomade, cioè la nozione di fedeltà. Nulla è più erroneo ed ingiusto dell’immagine volgare del nomade come persona senza appartenenze. Non è così. Come ho scritto in modo assai esplicito in Baby Boomers, il soggetto nomade ha un rapporto di rielaborazione costante delle proprio origini. Non per nulla I nomadi sono grandi narratori e affabulatori. Anzi, queste molteplici appartenenze hanno come effetto paradossale di rendere ancora più acuto e vitale il mio senso di fedeltà verso le molte vite vissute e i sentieri incrociati delle molte vite virtuali. Ciò che una sarà stata è, in fondo, il nocciolo della questione – il futuro anteriore è il modo virtuale di posizionarsi, cioè un perenne divenire. Non venir meno a questo imperativo è la regola etica della mia vita.

 

  1. Seconda passione politica: il presente, l’attuale – il mondo in cui vivo.

 

C’è chi la politica la fa per gioco, che se la sceglie per professione, io invece confesso di appartenere ad una generazione che l’ha sempre esercitata solo per pura passione della libertà. Ma non abbiamo fatto male mai. Nel ’68 eravamo poco più di burattini con la faccia da bambini, io poi non avevo neanche compiuto 14 anni e vissi i tumulti dell’epoca come un’immensa rivoluzione interiore, che scardinò tradizioni e abitudini, precipitandomi in una crisi emancipatoria della quale all’inizio fui appena consapevole. Era davvero lo spirito di quell’epoca, e allora, ma che colpa abbiamo noi?

Di questa iniziazione adolescenziale alle passioni politiche rivendico tutto e non dimentico nulla: le manifestazioni, le occupazioni, le assemblee, i collettivi femministi di auto coscienza, i cortei di studenti, operai, metalmeccanici e fornai in sciopero. Dubcek, Sbovoda, Rudi e il Che.  Leggevamo Marx e Beauvoir, Camillo Torres e Jacques Prevert, Fanon e Anna Frank, don Lorenzo Milani e Ernesto Che Guevara. Pensare e scambiarci idee e sogni ci sembrava la cosa più naturale del mondo, come domandare l’impossibile e credere ferocemente che l’immaginazione dovesse andare al potere e vice versa. Il potere chiaramente spetta alla massa, che non è ancora stata cannibalizzata dal consumismo coatto e si presenta sulla scena della contestazione radicale con la baldanza e l’ingenuità della “prima volta”. Noi siamo i giovani e siamo statisticamente tanti: costituiamo una forza collettiva e non molecolarizzata, gruppi eterogenei e non individui isolati. Incarniamo la moltitudine irrequieta e nomadica, rappresentandola alla massima potenza. Ci sostiene e ci accompagna in questo progetto la musica che ascoltiamo e produciamo in quantità impressionanti. C’è qualcosa di nuovo nell’aria, come un ritornello che non se ne vuol andar via: quand’è che tutta la gente del mondo riavrà per sempre la sua libertà?

Il mio risveglio intellettuale e politico avviene in quel “triennio magico 1965-67”, che si apre con una stagione canora e musicale incomparabile, che in un certo senso non finisce mai. Difatti i nostri dischi suonano tuttora e ogni canzone è un mito. C’erano i Beatles per le ragazze per bene, i Rolling Stones per le più sveglie; in versione nostrana: l’Equipe 84 e i Rokes, con Shel in posizione di guru incontestato dei sha-la-la-la-la estivi.  Anche Mal dei Primitives, però, non scherzava, anzi faceva strage di cuori, fra le più e anche le meno giovani,  mentre Supercalifragilistic-espiralidoso cantato da Rita andava forte con le amiche dell’Azione Cattolica, che aspettavano che le colline fossero in fiore, rischiando magari di non avere mai l’età. All’altro estremo, volevamo essere tutte come Mina, o magari Ornella, che davano a intendere di saper vivere quelle estati bollenti e le vendemmie dell’amore senza perdere un colpo: la vita è ora, o mai più. E poi, per fortuna, vennero i Nomadi per tutti, ma proprio tutti. E c’era Gianni che, pur non essendone degno, ritornava sempre di corsa per poi cadere in ginocchio da lei; Adriano, il teddy boy tanghero di periferia. Patty col  ragazzo triste che – ah ah- sognava sempre come noi. E mentre il primo timidissimo Lucio si faceva sentire, l’amico Bob a Liverpool era già il capo dei Mods.

Ma piove sempre sulla nostra generazione, come diceva Linus nel mio diario scolastico dell’anno 1965. Adesso sono in tanti a dire che le grandi promesse di trasformazione dello spirito sessantottino si sono rivelate vuote. Non solo la rivoluzione, ma il benché minimo desiderio di alterare lo status quo è decisamente passato di moda: la risposta radicale è caduta nel vento. Le bandiere che sventolano sui ponti – magari telematici – non sono più gialle, ma bianche come il terrore e l’ignoranza. Bob Dylan si esibisce ai concerti di Giovanni Paolo II e i Nomadi a quelli di Rifondazione Comunista. Anche i miti viventi, col passar del tempo, di appiattiscono e perdono la loro micidiale fulmineità. Meno male che ci resta la bandiera arcobaleno della pace.

Eppure lo spirito dell’epoca rimane più vivo che mai nella mia cultura politica, che è quella del femminismo. Noi no, non ci arrenderemo mai: magari coi piedi in terra e gli occhi al cielo, noi siamo sempre pronte a prendere un altro volo. Il femminismo non è un movimento politico come gli altri: è il movimento che ha fatto della trasformazione del quotidiano, compreso quello politico, la sua passione fondamentale. E una passione, soprattutto se consumata e condivisa, non passa facilmente.

Di questi tempi, tutti s’impegnano a scavare fossati profondi e barriere insormontabili tra le generazioni bollenti ed irrequiete degli anni 1970 e quelle reputate docili e omogeneizzate di oggi. Ma sarà poi vero? A chi giovano queste distinzioni epocali e il fatalismo antistorico ed immobilizzante che esse impongono? Io mi chiedo, invece, se le continuità fra le generazioni che la politica del cambiamento ce  l’hanno nel DNA, non siano più forti di tutte le differenze. Dopo tutto, le passioni politiche sono trasversali per definizione, e si trasmettono per contagio e contaminazione, cioè restano essenzialmente fuori controllo.

Pur essendo felicemente collocata, senza nostalgia alcuna, entro la categoria delle “middle youth” delle ragazze di cinquant’anni, non mi sento di appartenere ad una specie, genetica o politica, qualitativamente diversa da tante altre. Maturo a zig zag. Nutro inoltre un sentimento di grande stima e di profonda affinità per le molte cosiddette “giovani” che conosco.

La categoria delle/dei ‘giovani’, anche se cronologicamente situata, rivela dei contorni assai dubbi ed incerti per quanto riguarda i contenuti politici.

Due esempi: delle studentesse che frequentano i miei corsi di teoria Femminista ad Utrecht- e che in un certo modo rappresentano una categoria assai privilegiata delle ‘giovani’- si lamentano in maniera assai schietta del fatto che tutto il corpo dirigente dei Social Forum – sia a livello nazionale che a quello dell’European Social Forum- è composto essenzialmente da maschi. Rileggendo i testi classici del femminismo degli anni 1970, queste ‘giovani’ si sono riconosciute totalmente nella critica che le figure storiche della seconda ‘ondata’ del femminismo facevano del dominio maschile nei movimenti di protesta studentesca e operai di quegli anni. Non faranno da cameriere ai leader della rivoluzione.

Il tempo passa, il problema della virilizzazione dello spazio pubblico e politico rimane. Anzi, al seguito degli avvenimenti traumatizzanti dell’11 settembre 2001 a New York, si sono intensificati al punto da creare tensioni molto dolorose.

Secondo caso: un’amica molto più giovane di me, impiegata presso un grosso organismo non governativo femminista con sede in Scandinavia, soffre di un caso assai grave di anoressia. La sua malattia peggiora rapidamente, fino a farla crollare ai limiti di sicurezza dei 4o Kg. Una costosissima terapia in una clinica privata le salva la vita; decide poi di seguire uno dei corsi di “re-entry” che offriamo nel nostro programma. Scopre così una strategia esistenziale, trasformatasi  col tempo anche in una rigorosa metodologia di ricerca, che riposa sul concetto fondamentale del “partire da sé”. Un bel dì questa ‘giovani’ venne a trovarmi per comunicarmi questa semplice verità: “Il personale è il politico”, mi disse.

Era il 6 marzo del 1999.

 

II: L’altra profonda passione – è per le lotte delle donne.[4]

 

Ho la passione per le genealogie al femminile.  “ Io vedo, nel tempo, una bambina”.

C’era davvero e c’è tuttora, poiché l’imperfetto è il tempo che esprime se non proprio la coincidenza, almeno la concomitanza d’effetti tra azioni che potrebbero sembrare slegate fra di loro. Esprime la durata e quindi lascia trapelare l’infinito del tempo e l’incompletezza e il passare che genera il divenire. Io vedo, dunque, nel tempo, una bambina. La vedo di spalle, in piedi davanti ad una finestra aperta su un cortile di cui si indovinano appena i confini. Nel chiaro scuro di quella finestra la sua sagoma è imprecisa, ma di lei si può immaginare lo sguardo curioso, inghiottito dallo spazio che le si apre davanti: vuole, aspetta, cerca. La sua immagine è uno squarcio di un vasto frammento arcaico, di un non-luogo nel tempo e nello spazio: no woman’s land.

Intorno a lei, prima e dopo di lei, c’erano tutte le altre: le madri, sorelle, zie, cugine, amiche.  La loro anteriorità nel tempo la colpiva con un’intensità estrema, facendola dubitare non solo del suo posto nella sequenza delle generazioni, ma anche della stessa permanenza del suo essere. Le generazioni non si contano solo in fasce cronologiche, ma anche in spazi discorsivi, in registri di parola condivisi. Lei usufruiva di un’eredità senza testamento, cioè era già, sebbene a sua insaputa, donna, essere sessuato femminile. Sentiva impercettibilmente di far parte di una catena di avvenimenti che le sfuggivano. Non c’era simmetria possibile tra se stessa e le altre  e questo spazio-tempo discontinuo e disconnesso la legava pur tuttavia alle altre in un sentimento di separatezza assoluta, nella convinzione che, essere come loro volesse dire essere sola. Nella topografia del suo divenire esistenziale, nel gioco dei sentieri incrociati che sarà, più tardi, la sua vita lei cercava il filo del suo desiderio, di ciò che l’avrebbe aiutata a vivere. Come dire che cercava un punto d’appoggio per sollevarsi dal sentimento troppo pesante della sua appartenenza a un genere contrassegnato da un fortissimo senso di separatezza.

Ogni donna eredita un capitale simbolico negativo; ognuna di noi è l’erede di una storia di lacrime e sangue, di non detti e d’incapacità croniche a dirsi. Ognuna si porta sulle spalle un cumulo di frasi mutilate, accennate, mai completate; tutti i nostri cassetti sono pieni di manoscritti incompiuti, o mai dati a leggere; siamo ancora in tante, in troppe, a bruciare i nostri scritti prima ancora di darli in pasto alla voracità del mondo. Il parlare delle donne non è silenzio, quanto il ronzio di non detti incrociati, di rumori incoerenti, di bisbigli sommessi. Come una nebbiolina vocale, uno statico di base nel quale si scioglie ogni possibilità di dar forma al pensiero. Tracce fonetiche antiche, che per Julia Kristeva [5] rappresentano la trascrizione della fase pre-edipica dello sviluppo psichico e sessuale di ogni donna, costituiscono le fondamenta arcaiche dell’intersoggettività, cioè dell’economia dei rapporti al mondo che ci circonda, di cui la madre fa prima da contenitore e poi da ripetitore. Luce Irigaray [6] mette teneramente in scena il nodo conflittuale che lega ogni donna a questo vissuto corporale materno, che da sempre trova difficoltà a collocarsi dentro l’economia del senso comune fallogocentrico.

Ben prima delle vocali, dei fonemi strutturati, c’era in lei una voce di donna, cioè un respiro in cui vibrava il desiderio femminile.  Al posto di quei suoni inarticolati, che spesso le morivano in gola, verrà più tardi quella verità insondabile che è la parola. Inquadrata da leggi psichiche e sociali che l’obbligheranno a scandire chiaramente e quindi a separare, a distinguere.  Eppure qualcosa di questo femminile scivola sempre verso l’irrappresentabile, ed esce così dal registro del dicibile.

 

Prima del femminismo, le scorie di questi non detti, di queste parole accumulate nel tempo, questi resti immemorabili, ci restavano di traverso nella gola, quando non ci morivano in bocca: erano una fonte di disagio permanente. Una volta sedimentate nella loro incapacità a dirsi, s’inacidivano fino a divenire velenose, si trasformavano in materie tossiche: mordevano da dentro il corpo come se volessero scavarsi una via d’uscita propria al di là o al di sotto del linguaggio nel quale non riuscivano a riconoscersi: facevano male.  Di cose non dette si può morire, e le cose ritenute indicibili fanno di tutto per darsi un senso e darsi vita come possono. Prima del femminismo si appoggiavano su amicizie potenti e profonde, diventavano confidenze e segreti condivisi, come quelli che si sussurravano a compagne fidate sui banchi di scuola o si condividevano con le amiche del cuore. Timida rete d’omosessualità femminile diffusa che perfino s’ignorava. Oppure le si raccoglieva pazientemente nelle pagine di diari segreti e discreti, nascosti in fondo ai cassetti, dietro alla “biancheria buona”. Parole intime murate vive; confessionali privati di testimoni auricolari, queste erano parole nate morte. Le donne, che storicamente hanno pubblicato assai poco, sono di tendenza intensamente grafomani: scrivono per potere respirare, per sfogarsi. Cercano orecchie che sappiano intendere senza tradire, o travisare, cercano interlocutori validi. Prima del femminismo, erano solo una voce che parlava nel deserto.

Se fosse stata di un’altra epoca, diciamo per esempio del tardo novecento, la bambina che occupa il mio sguardo interiore avrebbe già potuto scegliere tra vari modelli femminili che si erano staccati dalla tradizione patriarcale. Sarebbe stata forse la Nora di Ibsen, che rifiutò il matrimonio in una “casa di bambole” per vivere invece una vita socialmente attiva. Oppure avrebbe potuto essere la Dora di Freud che fondò sul suo rifiuto l’incomprensione del discorso psicanalitico nascente per i labirinti del femminile. Avrebbe potuto essere una delle mille anonime mondine dotata di coraggio e passione, e capace di resistenza accesa contro tutti i piccoli e grandi padroni. Sarebbe forse stata una suffragetta, come le coraggiose Pankhurst madre e figlia; la Vita che amò tanto Virginia, o Emma, l’anarchica rivoluzionaria che amava ballare. Sarebbe stata sicuramente un’anti-fascista come Hannah e forse anche comunista dichiarata, come Nilde, o magari marxista pura e pacifista come Rosa. Tanti cammini si stendevano davanti a lei e il campo del divenire era già aperto e spaventosamente vasto. Ma sul piano più profondo, quello del divenire e del sogno, chissà che ne sarebbe stato di lei?

Per fortuna che poi venne il femminismo, in una seconda irresistibile ondata guidata da Kate, Betty, Ti-Grace, Angela, Shulamith, Germaine e mille altri militanti ignote. Gli anni settanta per noi donne furono pieni di sorellanza, militanza, autocoscienza e pratica dell’inconscio.  Passione politica fondamentale, il pensiero politico femminista rappresenta uno slancio vitale che tocca le fibre più profonde ed intime del mio essere-donna. È un’etica del mio desiderio ontologico, la mia volontà di divenire, ancor prima di essere una politica pura.  Il pensiero teorico del femminismo è illuminato da un’intelligenza corporea e una qualità d’intelligenza molto particolare, collegata al desiderio di dar forma al vissuto esistenziale femminile. Pensare il femminismo significa ripensare se stessa in un altro tempo e modo di essere, molto più di una proiezione immaginaria, è come sognare un altro mondo, ridisegnare i parametri dello spazio e del tempo, cioè dei modi e degli intervalli di interazione tra gli esseri. Dalla mia esperienza alle sue attualizzazioni pratiche, posso dire che “noi donne” abbiamo pensato, come ci invitava a farlo Virginia Woolf. Abbiamo commesso reato di pensiero e di parola, cosa inaudita ma soprattutto inaudibile per la cultura dominante che ci preferisce afone, cioè inaudibili per mancanza di mezzi o per eccesso d’intensità.

Oggi però io non riesco più a dire “noi donne”senza un certo imbarazzo, come se mi sentissi presa in un circolo vizioso e non sapessi più di cosa parlo. Metterei quell’espressione “noi donne” tra virgolette, quasi per far barriera. Il paradosso del pensiero femminista sta tutto in questo desiderio di ricerca ed elaborazione collettiva di una nuova definizione della soggettività di ciascuna. Senza un quadro d’enunciazione designato e scavato da “noi donne” non so da dove io parlerei, o a chi. Il femminismo mi ha fornito una base d’enunciazione possibile; il mio “io” rimbalza sullo sfondo di questo “noi” che lo legittima e lo sostiene. Il singolare é infinito e collettivo e contiene multiple pluralità in se stesso. Il “noi” sostiene il progetto di potenziare l’”io” di ciascuna.

 

Per poter divenire, serve il coraggio di sognare ad occhi aperti e non lasciarsi immobilizzare nel cemento armato del principio di realtà [7]. Per poter divenire, bisogna essere in molte e non sentirsi ontologicamente sole. Portare avanti il progetto di costruzione di una rete referenziale simbolica tra donne e altri soggetti nomadi[8]. Come se una continuità reale fosse possibile, sul piano delle scelte di vita, tra una e le altre, occorre un immaginario collettivo. Questo legame con le altre donne, che è alla base del femminismo come movimento di pensiero oltre che come programma politico, compie una doppia negazione: nega cioè una storia negativa, un passato passivo: dà una svolta storica al vissuto femminile orientandolo verso l’affermazione, cioè l’autorevolezza. Divenire-donna, in questo modo, si sbarazza della pesantezza di un capitale simbolico negativo e cede il passo alla leggerezza di un verbo che esprime il processo vitale delle trasformazioni profonde. Un nuovo volto dell’umanità sessuata femminile comincia a staccarsi dal grigiore dello sfondo, del non- essere, e si inventa nuovi lineamenti. Un paesaggio concreto ed immanente comincia a farsi strada, per il momento solo in modo virtuale. Il solo divenire che m’interessa è quello che colloca al centro la valorizzazione del non- Uno, della molteplicità e del gioco infinito delle differenze. Il solo avvenire che mi fa ancora sognare è quello dove riecheggia l’incoraggiamento a divenire-donna nel senso nomadico del termine. Perché noi donne siamo il soggetto empirico che storicamente ha incorporato, trasformato e rappresentato il non-Uno nelle sue molteplici connotazioni nefaste, come nello splendore della positività. La nostra molteplicità, cioè l’esperienza sedimentata del non-uno, della frammentazione, non è dispersiva, ma cumulativa e quindi potente- ricca di significati e di valori.

Sebben che siamo donne, la paura di non-essere non ci sfiora nemmeno. Il nostro senso della molteplicità è fecondo, dinamico e generoso, ci serve a tracciare i sentieri incrociati di tante vite possibili.

Il femminismo avrà permesso a quella bimba che ero, sarò stata e avrei potuto essere di esprimere, nel tempo, cioè che lei non avrebbe neanche saputo sognare nell’attimo in cui si affaccia alla finestra della mia memoria. Io la vedrò sempre così: immobile, tutta tesa a riflettere al suo divenire, in uno squarcio eterno ed assoluto che cattura il passare del tempo e lo unifica, non in un’unità semplice, ma in un groviglio di sentieri di vite possibili, in cui la complessità infine si presenta nella sua implacabile bellezza. Come onde radio che continuano a viaggiare nello spazio anche anni dopo essere state trasmesse dalla fonte terrestre, propagandosi sempre più lontano, sullo sfondo di questa scena primordiale risuona l’eco di mille voci sommesse: sono le frequenze sonore di molteplici divenire possibili che lei non sa distinguere ancora, piccina com’è, ma che già l’attraversano e l’interpellano. Lei ancora non lo sa, ma il suo silenzio ha le ore contate.

 

III. Le technologie – o – meglio: l’ Eros elettronico.

 

All’alba del terzo millennio, la soggettività in generale, e quella femminile in particolare é un luogo paradossa­le, un complesso teatro ove giocano molteplici intrecci sociali, simbolici, discorsivi. E un corpo che non é più uno, ma piuttosto una vera molteplicità di strati, di pratiche e di discorsività corporee. Essere incarnati significa che siamo soggetti situati, capaci di inscenare una serie di (inter)azioni che sono discontinue nello spazio e nel tempo.

Prenderei anche le distanze, da un lato, dall’euforia del post-modernismo dominante, che considera la tecnologia avanzata e soprattutto il cyber-spazio come la possibilità per multiple e polimorfe reincarnazioni; dall’altro, dai troppi profeti della rovina, che piangono il declino dell’umanesimo classico. Il desiderio nostalgico per un passato considerato migliore è una risposta sbrigativa e assai poco intelligente alle sfide della nostra epoca. Non soltanto è inefficace dal punto di vista culturale, nella misura in cui si riferisce alle condizioni della propria storicità semplicemente negandole; è anche una scorciatoia attraverso la loro complessità.

 

Al contrario, io vedo la post-modernità come qualcosa di più complesso, più gioioso e di infinitamente più inquietante; siamo sulla soglia di nuovi ed importanti ri-posizionamenti anche e non solo della pratica culturale.  Per le femministe, la crisi della modernità non è affatto un salto melanconico nella perdita e nel declino, piuttosto la gioiosa apertura di possibilità nuove.  Un fattore mi sembra molto chiaro: nel bel mezzo del clamore tecnologico attuale, che tende a svalorizzare la materia corporea e a celebrare molteplici corpi virtuali, dobbiamo ritornare a terra. E necessario valutare con calma e lucidità le promesse di perfezione prostetica che la cultura attuale sembra offrire in cambio della nostra immersione nelle nuove tecnologie. Dobbiamo tornare a pensare il corpo nella sua radicale materialità, nella sua immanenza, nella sua sostenibilità e nella sua complicità con i regimi tecnologici.

Il soggetto nomade d’oggi é un apparato di forze o di affettività e d’influenze storiche e sociali, che é capace di reggersi (nello spazio) e di consolidarsi (nel tempo) all’interno della configurazione singolare detta anche ‘individuò. È una porzione di forze che si reggono in equilibrio rispettivo e reciproco, e che permettono di attraversare processi più o meno complessi di trasformazione e di divenire.  È un campo di affetti trasformativi e di cambiamenti d’intensità che dipendono dalla capacità di sostenerli. Il soggetto nomade é un sistema sostenibile: che sia attivo, dinamico e in divenire non impedisce che abbia i suoi limiti. Infatti, i limiti – di spazio e di tempo- di cui soffre il corpo, limitato dal contorno della pelle e dalla mortalità come fattore interno ed esterno, tracciano anche i suoi percorsi possibili. Contenere i flussi affettivi, o le influenze ed i campi di percezione é un pre- requisito per poter poi sostenerli e quindi viverli.

Nel nostro contesto storico, bio-tecnologico e geo-politico mi sembra ovvio che quello che continuiamo a chiamare, specialmente nel femminismo: “il nostro corpo, noi stesse”, é in realtà un insieme tecnologico abbastanza astratto, completamente immerso nell’industria psico-farmaceutica, nella bio- scienza ed i nuovi media. Il che non lo rende meno corporeo, né meno parte di noi stesse, ma complica assai l’analisi necessaria a rappresentarci in maniera adeguata la soggettività corporea che abitiamo. Siamo già dei tecno-mostri.

Le ‘cyber-femministe’, per esempio, elaborano non solo schemi concettuali, ma anche vere e proprie figurazioni immaginarie che rappresentano una corporalità completamente attraversata dal fattore tecnologico, ormai diventato seconda natura.

Le femministe sono state pronte a cogliere questa sfida, che ha per lo più preso la forma della sperimentazione, cioè dello spostamento verso stili più affermativi. Ne è un esempio l’enfasi che la teoria femminista pone sul bisogno di nuove ‘figurazioni’, come le chiama Donna Haraway, o di ‘affabulazioni’: forme che sappiano esprimere le possibilità alternative della soggettività femminile sviluppate all’interno del femminismo, così come la lotta col linguaggio per produrre rappresentazioni positive delle donne.

Le artiste della generazione detta ‘post- femminista’ (o post Brabara Krueger), come Cindy Sherman, Jenny Holzer, Linda Dement, Paola Bitelli, Sergia Avveduti, D.J. Lamù ed altre, hanno offerto commenti pertinenti sul potere puro e brutale del linguaggio tecnologico e commerciale. Molte di costoro pratica­no forme artistiche che rispecchiano una coscienza acuta del disagio della femmini­lità, ma anche della sua potenza affermativa. Il corpo femminile nel loro lavoro é una superficie d’iscri­zione di codici sociali e culturali, ormai privo d’essenza, di sostanza. E un corpo del giorno dopo, un corpo da cui la donna, in un certo senso, se n’é andata. Spaventoso ma anche beneamato, come un vestito vecchio. E non dimentichiamoci delle cyber punk che navigano su Internet su corpi fatti di parole che rompono con la semantica e la sintassi classica: quelle che, come Cromosome X di Milano e Le Riot Girls che fanno musica e sono fatte di suoni ancor più che di parole.

Questa generazione é dotata di una meravigliosa e devastante ironia che mette in gioco una femminilità che si dice e si dà senso sul modello della parodia del consumismo più abbietto. La parodia, o la ripetizione di immagini che sono solo copie senza un originale preciso – come per esempio le fotografie di moda della Lamsweerde, riviste e truccate al computer, col programma ” Photoshop”- saturano l’immagine fino a farla implodere. La sensibilità dello spettatore ne esce sconvolta, non tanto per svuotamento semantico o concettuale, quanto per saturazione totale dello spazio della sua percezione, cioè dell’interiorità. Il soggetto non é più concepito sul modello della proprietà e dell’esercizio di una volontà sovrana, ma come flussi di ripetizione legati alla facoltà di consumo di beni virtuali e reali.

Per esempio, la forza ironica, la violenza a malapena celata e l’ironia al vetriolo di gruppi femministi quali le Guerilla o le Riot Girls, sono un aspetto importante della ricollocazione contemporanea della cultura e della lotta per la rappresentazione. Definirei la loro posizione in termini di politica della parodia. Le Riot Girls sostengono che c’è una guerra in corso e che le donne non sono affatto pacifiste: siamo le ragazze della guerra, ragazze in lotta, le ragazze cattive. Vogliamo organizzare una forma di resistenza attiva, ma ci vogliamo anche divertire e vogliamo farlo a modo nostro. Il numero sempre maggiore di donne che scrivono fantascienza, cyberpunk, sceneggiature di films, musica ‘zines, rap, rock, cd- roms e siti in rete, testimonia questa nuova tendenza.

L’ironia come barca di salvataggio mette in gioco un ’affettività conscia o inconscia. Mobilizza anche forze che garantiscono la non-chiusura del soggetto nel circolo vizioso di una coscienza razionalizzante. Come direbbe Deleuze, é uno spiraglio di vitalità nella stanza claustrofobica, pornografica, onanistica del proprio miserabile ‘Io’. Forse é ora di aprire le porte e le finestre e di spazzar via le scorie dell’umanesimo in noi, e di  rifondare la nostra passione politica sulla base della trasformazione di quello stesso ‘io’ che tanto ci stava a cuore. “Io” non é il proprietario né l’inquilino principale di quella porzione di spazio e di tempo che il soggetto occupa. ” Io” é un luogo di passaggio, di mediazione e di transazione.

L’ironia è una forma orchestrata di provocazione e, in quanto tale, marca una sorta di violenza simbolica di cui le ragazze in lotta sono maestre insuperate. L’ironia è una dose sistematicamente applicata di scardinamento; una presa di giro continua; una salutare smorzatura della retorica infiammata. Una possibile risposta alla nostalgia generalizzata della cultura dominante, che non può essere sintetizzata, ma soltanto messa in atto.

Immaginatevi sullo sfondo suoni dissonanti, veloci, inquietanti:

 

Noi, ragazze in lotta, ragazze cattive, rivendichiamo il nostro immaginario, il nostro sè proiettato; vogliamo tracciare il mondo a nostra gloriosa immagine. La metafora della guerra sta invadendo il nostro immaginario sociale e culturale, dalla musica rap al cyberspace.Ma a dichiararla non siamo state noi- e allora, che colpa abbiamo noi?

 

Noi, le bad, bad Girls, che abbiamo dovuto scrollarci la Grande Madre di dosso e cacciarla dai recessi oscuri della nostra psiche: noi abbiamo una storia molto diversa da raccontare da quella dei filosofi delle crisi – non meno violenta, forse, ma di certo meno assassina. Vi ricordate ciò che disse Virginia Woolf? Che la donna creativa deve uccidere ‘l’angelo della casa’ che abita gli strati più profondi della sua identità. È l’immagine della donna dolce, accuditrice, rassicurante, votata al sacrificio che si oppone all’auto-realizzazione. Non si può aspettarsi che nella società tecnologica di oggi, le donne condividano facilmente la fantasia del ritorno alla matrice, sebbene virtuale ed elettronica: noi, semmai, ce ne vogliamo andare e ad altissima velocità. Altrove- spiriti nomadi, anime trasversali.

 

Noi, le Riot Girls, vogliamo i nostri sogni di dissoluzione cosmica, vogliamo la nostra dimensione trascendentale. Cara amici cyborgs maschi –  tenetevi i vostri sogni – della matrice: il vostro desiderio di morte non è il nostro desiderio di morte, quindi sarà meglio che ci diate il tempo e lo spazio di sviluppare ed esprimere i nostri desideri, o altrimenti ci arrabbiamo davvero. La rabbia ci spingerà a punirvi decidendo d’incarnare, nella nostra vita reale di tutti i giorni, i vostri fantasmi più terrificanti di quanto, ma quanto le donne possano essere cattive.

 

Ecco come il mondo finirà, cari amanti post- moderni e soprattutto ‘post-modem’, non con un boato ma col suono gracchiante di insetti che si arrampicano sul muro. I ragni dalle zampe lunghe del nostro scontento, il cuore prostetico: somma gioia di scarafaggio. Simulare, stimolare, dissimulare. La generazione postmoderna ha fallito nell’impresa del tenere aperti i margini della negoziazione con l’indicibile; ci hanno spinto oltre il limite, spostando la periferia al centro e lasciando che il centro venga poi spazzato via, fuori equilibrio. In un universo afasico. Ci manca il sublime, mentre precipitiamo a capofitto nel ridicolo.

 

Eppure il mondo finirà, care amiche post- Zarathustra. Si consumerà come un e-mail scaduto. Morire è un’arte e si deve averne la passione. Molti muoiono incredibilmente bene, ma così bene che sembra vero. Noi, invece, stiamo solo ammazzando il tempo. Lo scopo è sempre lo stesso, la resa incondizionata dell’altro, o Hiroshima mon amour, la mia personale Enola Gay. Quale occhio immortale ha disegnato questa sconcertante dissimmetria? Quale iniezione di angst post -Heideggeriana, quale perdita nucleare fatale ci ha traumatizzato e ridotto in tale stato di incompetenza emotiva? Quand’è che siamo trasformati in un tale ammasso di circuiti non integrati? Dove ha fatto centro il nostro desiderio di morte, care compagne di viaggio post- umane?

 

O si tratta soltanto di metafore elaborate che stanno per la bancarotta metabolica che stiamo attraversando? Certo, che questo discorso necrofilo mi rende nervosa, e se ci pensaste su, sareste nervosi pure voi.

 

Perché parlo cosi? Perché sono un’umana, sessuata, nomade, sostenibile e dunque mortale, del tipo femminile, immersa nel linguaggio, ma fondamentalmente altrove.

Chiamatemi semplicemente una donna d’oggi.

 

 

 

————————————————————————————————————————————————————————————

 

 

Bibliografia

 

Acker, Kathy (1995) ‘The end of the world of white men’ in: J. Halberstam and Ira Livingston (eds.) Posthuman Bodies Bloomington: Indiana University Press.

 

Braidotti, Rosi (1997) ‘Comments on Felskìs ‘The Doxa of Differencè: Working through Sexual Differencè, Signs. Journal of Women in Culture and Society vol. 23, nr. 1, autumn 1997, 23-40.

 

Braidotti, Rosi (1996) ‘Signs of wonder and traces of doubt: on teratology and embodied differences’ in: Nina Lykke and Rosi Braidotti (eds.) Between Monsters, Godesses and Cyborgs London: Zed Books.

 

Butler, Judith (1990) Gender trouble New York: Routledge.

 

Deleuze, Gilles and Felix Guattari (1976) Rhizome Paris: Minuit. English translation: ‘Rhizomè, Ideology and Consciousness, nr. 8, spring 1981, pp. 49-71; translation by Paul Foss and Paul Patton.

 

Deleuze, Gilles and Felix Guattari (1980) Mille Plateaux. Capitalism et Schizophrénie II Paris: Minuit. English translation: (1987b) A Thousand Plateaus: Capitalism and Schizophrenia Minneapolis: University of Minnesota Press. Translated by Brian Massumi.

 

Franklin, S., Lury, C. and Stacey, J. (1991) Off-centre: Feminism and Cultural Studies London: Cornell University Press.

 

Griggers, Camilla (1997) Becoming-Woman Minneapolis: University of Minnesota Press.

 

Haraway, Donna (1997) Modest_Witness@second_Millennium. FemaleMan8_meets_ oncomouse J London, New York: Routledge.

 

Rose, Jacqueline (1993) “Femininity and its discontents’, in Sexuality in the field of Vision, London: Verso, 1986.

 

Tucker, Marcia (1994) ‘The Attack of the Giant Ninja Mutant Barbies’ in: Badgirls Cambridge, Mass.: The New Museum of Contemporary Art, New York and MIT Press, 14-46.

 

Vance, Carol (1984) Pleasure and Danger. Exploring Female Sexuality Boston: Routledge & Kegan Paul.

 

Vance, Carol (1990) ‘The Pleasures of Looking. The Attorney General’s Commission on Pornography versus Visual Images’ in: Squiersm, Carol (ed.) The Critical Image. Essays on Contemporary Photography Seattle: Bay Press.

 

REFERENCES

 

Arendt, Hannah (1968). The Origins of Totalitarianism. New York: Harcourt, Brace and World.

Braidotti, Rosi and Jane Weinstock. (1980). Herstory as Recourse. Hecate, 2.

Braidotti, Rosi. (1991). Patterns of Dissonance. Cambridge: Polity Press; New York: Routledge.

Butler, Judith and Joan W. Scott (1992). Feminists Theorize the Political. New York: Routledge.

Califia, Pat. (1988). Macho Sluts. Boston: Alyson Publications.

Chanter, Tina. (1995). Ethics of Eros Irigaray’s Rewriting of the Philosophers. New York and London: Routledge.

Clément, Catherine. (1991). Magazine Littéraire, 288.

Claire Colebrook  and Ian Buchanan, (eds.) (forthcoming) Deleuze and Feminism

Courtivron, I. de, and E. Marks. (1980). New French Feminisms: an anthology. Amherst: University of Massachusetts Press.

Deleuze, Gilles. (1994) Abécedaire. Paris, video-lectures.

Deleuze, Gilles. (1977). Anti-Oedipus. Capitalism and Schizophrenia. New York: Viking Press. (transl. by R. Hurley, M. Seem and H.R. Lane.)

Deleuze, Gilles. (1987).  A Thousand Plateaus: Capitalism and Schizophrenia. Minneapolis: University of Minnesota Press. (transl. by Brian Massumi)

Duchen, Claire (1986). Feminism in France. London: Routledge and Kegan Paul.

Eisenstein, Hester. (1983). Contemporary Feminist Thought. Boston: G.K. Hall & Co.

Felski, Rita. (1997). The Doxa of Difference. Signs, 23, 1-22.

Gallop, Jane. (1997). Feminist accused of sexual harassment. Durham: Duke University Press.

Hirschman, Albert O.(1970). Exit, voice, and loyalty : responses to decline in firms, organizations, and states. Cambridge, MA : Harvard University Press

hooks, bell. (1990). Postmodern blackness. In bell hooks Yearning. Toronto: Between the lines, 25-32.

Huyssen, Andreas (1991). Mapping the Postmodern. In Linda Nicholson (ed.) Feminism/Postmodernism. New York/London: Routledge.

Lauretis, Teresa de (1994). The Practice of Love: Lesbian Sexuality and Perverse Desire. Bloomington: Indiana University Press.

Marks, Elaine and Isabelle de Courtivron (eds.) (1980). New French Feminisms: an anthology. New York: Shocken Books.

Marshall, Bill (1997). Guy Hocguenghem: Beyond Gay Identity. Durham: Duke University Press.

Neilson, Jim (1995). The great P.C. Scare: Tyrannies of the Left, Rhetoric of the Right. In Jeffrey Williams (ed.) PC Wars: Politics and Theory in the Academy. New York: Routledge, 60-89.

Picq, Françoise (1995) Libération des femmes: les années-mouvement. The French Review. vol 68, afl 5 p889.

Roudinesco, Elizabeth. (1997). Jacques Lacan. New York: Columbia University Press.

Said, Edward (1978). Orientalism. London: Peregrin.

Scott, Joan W. (1996). Only Paradoxes to Offer: French Feminists and the Rights of Man. Harvard: Harvard University Press.

Snitow, Ann, C. Stansell and S. Thimpson (eds.). (1983). Powers of Desire. The Politics of Sexuality. New York: Monthly Review Press.

Spivak, Gayatri Chakravorty (1992). French Feminism Revisited: Ethics and Politics. In Judith Butler and Joan Scott (eds.) Feminists Theorize the Political. New York: Routledge.

Sprinker, Michael (1995) The War Against Theory. In Jeffrey Williams (ed.) PC Wars: Politics and Theory in the Academy. New York: Routledge, 149-171.

Stanton, Domna C. (1980) Language and revolution: the Franco-American Disconnection. In Hester Eisenstein and Alice Jardine (eds.) The Future of Difference. Boston: G.K. Hall & Co.

Turkle, Sherley. (1978). Psychoanalytical Politics. New York: Basic Books.

Vance, Carol. (1984). Pleasure and Danger. Exploring Female Sexuality. Boston: Routledge & Kegan Paul.

West, Cornel. (1994). Prophetic Thought in Modern Times. Monroe MF: Common Courage Press.

Williams, Jeffrey (1995). Introduction. In Jeffrey Williams (ed.) PC Wars: Politics and Theory in the Academy. New York/London: Routledge, 1-10.

Young, Iris and Alison Jaggar (eds.). (1998) A Companion to Feminist Philosophy. Malden, Mass.: Blackwell.

[1]              Una prima versioone di questo testo è stata presentata al Convegno della Società Italiana delle Letterate: “ Metamorfosi. Movimenti, Soggetti, Inter-Azioni”  a Firenze, 23-25 maggio 2003. Sono grata a Marta Garro per l’ aiuto dato nella traduzione di questo testo.

[2]              Linda Alcoff, Signs, volume 25, n.3, Spring 200, pp. 841-882.

[3]              Ringrazio Gayatry Spivak per questa espressione ironica.

[4]              Attribuita a Ada Negri . La versione originale di quetso articolo venne pubblicata in DWF, estate 1986, n.2, pp. 45-50.

[5]              Julia Kristeva Polylogues, Paris, Seuil, 1977.

[6]              Luce Irigaray, Et lúne ne bouge pas sans l’autre, Paris, Minuit, 1977.

[7]              Rosi Braidotti Dissonanze, Milano, La Tartaruga, 1994.

[8]              Ho analizzato la condizione storica della  post- modernità filosofica in Soggetto Nomade, Roma Donzelli, 1995; e in Nuovi Soggetti Nomadi, Roma. Luca Sossella Editore, 2002.