diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 5 - 2006

Mitiche

Figure di Mediazione

*Contributo portato al convegno “Donne tra mito e realtà”- Bolzano 2004

 

 

 

Preambolo

Bisogna accostarsi all’argomento del mito con una certa spregiudicatezza, per la buona ragione che è nella stessa natura del mito la capacità di sgorgare continuamente senso e di elevare ad un piano superiore di comprensione le letture di cui la realtà necessita, come noi necessitiamo dell’aria che respiriamo. Non accontentiamoci, perciò, nell’intraprendere il lavoro comune, di stare al seguito di tradizioni critiche o di interpretazioni dei miti convalidate dal loro ripetersi, soprattutto nel caso che i miti riguardino forme femminili di esistenza. Tentiamo, piuttosto, qualche azzardo dell’immaginazione creativa, radicata nel nostro essere donne, oggi.

Prendiamo Melusina, cui è dedicata tanta attenzione in questo convegno. Si può allargare la comprensione di questa figura, per esempio, non utilizzando negativamente la sua metamorfosi in mezza donna/mezzo serpente. Forse, se volgiamo l’attenzione ai lavori di Maria Gimbutas, mitoarcheologa di origine lituana, apprenderemo a considerare il serpente come un simbolo antichissimo della Dea Madre, ovvero della Grande Madre. Allora Melusina non finerebbe più per essere una donna mostruosamente dimezzata, ma una donna intera che, coerentemente con il linguaggio sincretico del mito, viene rappresentata nella sua immemorabile, dal tanto che è antica, divinità. Oppure prendiamo una importante indicazione che ci riferisce Rosetta Infelise: Melusina è intesa vivere in un mondo intermedio, una specie di terra di nessuno che diventa, per estensione interpretativa, il mondo femminile. Forse si tratta, invece, di un ulteriore accreditamento di potenza: in Oriente – ma anche nel mondo cristiano – il mondo intermedio è abitato dagli angeli, figure non certo secondarie dato che dipende da loro il collegamento tra cielo e terra e, addirittura, la possibilità di dare il nome alle cose, attraverso le immagini che sono doni angelici. Anche in questo caso Melusina e le sue eventuali compagne del mondo intermedio possono essere intese come decisive, per le sorti dell’umano, dato che tengono aperti i passaggi, il tra cielo e terra.

Con queste considerazioni preliminari arrivo, in un certo senso, già al cuore del mio contributo che, tuttavia, va avviato.

 

Una forza di origine femminile

Mi riferirò, ragionando, a figure femminili del mito che hanno nome proprio di persona e che abitano l’area mediterranea. È meglio precisare anche che ragionerò pensando soprattutto alle figure che si offrono a noi come immortali nella loro capacità di significare qualcosa in senso assoluto, cioè, paradossalmente, in presenza di qualsiasi contingenza storica.

Per iniziare, vorrei offrire tre brevi racconti:

1 – Abito in una città, Mantova, che ha origini custodite dal mito: si dice che sia stata fondata dall’indovina Manto, figlia di Tiresia, fuggita dalla Tebe famigerata perché governata dal tiranno Creonte. L’origine di Mantova da Manto fu cancellata da Virgilio, ma richiamata e accreditata da Dante, meno affezionato al potere del poeta bucolico. Ciò che importa comunque è che Mantova è riconfermata nei millenni, non tanto dalla tradizione colta, ma dalla tradizione popolare che, ancora oggi, non ne vuole sapere di togliere la città dalle mani dell’indovina per trasferirla in quelle di oscuri e anonimi fondatori etruschi.

2 – Siamo in tempi di guerra e il papa ha invitato a digiunare contro ogni guerra. Tullia Zevi, dirigente della Comunità Ebraica italiana, aderisce all’invito del papa. Ma non le basta, per avere la forza di digiunare. In una lettera pubblica (v. “la Repubblica”, 27/2/03) evoca la figura di Esther, regina di Babilonia che ordina una settimana di digiuno agli ebrei – la sua gente – per scongiurarne lo sterminio ad opera di suo marito, il re che li tiene in schiavitù. L’esempio e l’invito di Esther vanno in porto: non ci sarà sterminio.

3 – In tutto il mondo, contro l’inizio della guerra in Iraq, si sta realizzando il “progetto Lisistrata”, cioè la messa in scena dell’opera di Aristofane dove si racconta che Lisistrata suggerisce alle donne di Atene e di Sparta – nemiche tra loro – di astenersi dal concedersi sessualmente ai loro uomini che si massacrano in battaglia, fino a che deporranno le armi. Una buona idea che forse andrebbe praticata anche oggi.

Infatti, i tre racconti ci offrono un suggerimento che parla alle contraddizioni di oggi: dicono della necessità di orientare lo sguardo verso una forza di origine femminile, per trovare risposte efficaci alle emergenze dei tempi. Alle donne e agli uomini di Mantova che intendono continuare ad amare la loro città, anche quando sembra che sia in declino, serve pensare che Manto è sempre lì, a rifondarla e a tenerla viva.

A Tullia Zevi, la forza simbolica del papa non è sufficiente, ma le occorre trovare un gesto efficace contro la guerra, le occorre Esther, che ce l’ha fatta.

Al mondo pacifista è necessario richiamare Lisistrata, inventrice di una sanzione incruenta, ma decisiva contro la violenza coatta dei maschi.

Bisogna tenere presenti questi tre fatti per capire la vitalità attuale di una intuizione poco ascoltata dalla razionalità: c’è una forza non distruttrice, una potenza non sopraffattrice, ma medicinale, e questa forza ha origine femminile. Si tratta di una forza che non evoca la virilità, ma è evidentemente più potente perché agisce in una maniera che resta misteriosa nelle sue caratteristiche e nei processi cui dà avvio. Si tratta di una forza talmente immateriale, per così dire, che è (stata) comprensibile – sostengo – solo sub specie di figure mitiche o leggendarie, per lo più femminili.

Tuttavia, è innegabile che il mito – la sua costruzione e la sua necessità per il pensiero – sia un’invenzione comunicativa che porta il segno della differenza maschile e su questo bisogna interrogarsi. Penso, infatti, che altra cosa siano le fiabe, i racconti allegorici e la ricerca di immagini con i loro nomi per costruire certi discorsi. Sono ambiti narrativi preferiti da donne come Cristina Campo e Simone Weil che annotava (Quaderno IV) che le fiabe sono sicuramente più antiche del mito. Non so se sia così, ma so che la filosofa voleva certo indicare una precedenza del racconto fiabesco accessibile alla comprensione infantile e comune, rispetto alla costruzione di un logos, anche se sui generis come quello è messo in forma dal mito.

 

Un modo per parlarsi tra uomini e donne

Per capire ancora meglio a che tipo di necessità risponda, ancora oggi, il ricorso al mito, devo chiedere aiuto ad una filosofa che ne sa molto, la spagnola Maria Zambrano (1904-1991). In una raccolta di scritti dedicata alle donne (mitiche e non) intitolata All’ombra del dio sconosciuto, scrive che, all’origine del nostro mondo culturale, c’è una “radicale divergenza tra uomini e donne”. Non una cosa da poco, ma una divaricazione radicale.

Secondo la filosofa la mente maschile, in generale, si orienta verso la costruzione di definizioni concettuali e di verità universali, raggiunte con un metodo logico-matematico, cioè con l’uso inflessibile del principio dell’esclusione reciproca tra poli contradditori. La mente femminile, in generale, si orienta verso la pratica del dire la verità a partire dalla propria esperienza, e l’esperienza – lo sappiamo per esperienza, appunto – è fortemente attraversata da spinte e fenomeni contradditori. Una realtà, questa, che le donne, in generale nella storia, non hanno alcuna intenzione di superare o escludere. Sicché, storicamente e data questa “radicale divergenza”, possiamo registrare il disamore per la via rigidamente logica, da parte delle donne.

Naturalmente, sto parlando della costruzione del logos razionale e razionalizzante che sfocerà nella idolatria delle idee chiare e distinte e non mescolate con il mondo delle passioni e del sentire.

Le donne, ancora oggi, rimaniamo custodi di questo mondo e anche custodi di quella parte di mistero che vitalizza la vita. Rimane un mistero anche il fatto che una donna non abbia tanta smania di liberarsi, di affrancarsi dal patire che è un altro nome del sentire, dello stare in relazione con i molteplici livelli attraverso i quali si dispiega la complessità della vita e di ciò che vi accade. Il che, a ben vedere, è una posizione realistica, dialogante con la realtà. Infatti, per chi si affranca dal patire il mondo diventa ben presto incomprensibile, sebbene resti ben presente, magari incombente. La mossa del logos, a questo punto, diventa duplice: qualcosa – inquietante – della realtà viene catturato e messo in figura; qualche altra cosa viene sradicata e resa ideale, massimamente racchiusa in concettualizzazioni astratte. Le figure mitologiche; mitiche o mitizzate, sono della prima specie e conservano dell’immagine l’attività fornitrice di senso e l’efficacia. Sono mediazioni per accedere a realtà non agevolmente traducibili in logos, per esempio il terreno delle relazioni tra uomini e donne, e gli scontri, e le radicali divergenze.

Le figure mitiche darebbero dunque la possibilità di continuare a parlarsi tra donne e uomini, preservando la differenza, salvandola dal suo oscuramento nel linguaggio disincarnato della ragione astratta.

 

Diotima è veramente esistita

Espongo, dunque, una tesi conseguente a questo ragionamento: per ogni figura femminile “personale” del mito, c’è una donna – o alcune donne – in carne ed ossa e lei è il presupposto vivente di ciò che la figura mitica condensa ed assolutizza. In altre parole, ciò che si attribuisce alle figure esiste o è esistito veramente, è veramente accaduto; c’è stata lei – o loro – che hanno detto e fatto ciò che il racconto mitico ci fa conoscere, magari non potendo evitare di tradire la realtà. Dunque, Diotima, la maestra di Socrate, è esistita, magari non con questo nome; così Antigone, magari non con questo nome che Sofocle ha reso immortale; così Beatrice cui il genio di Dante conferisce il meglio che ha imparato dalle donne del suo tempo.

Anche Maria Zambrano è convinta – per altri motivi – dell’esistenza reale di ciò che viene trasferito in figura e apprezza la duplice intenzione di questo movimento: prendere una certa distanza da ciò che è troppo inquietante e complesso per potere essere accostato e compreso nella prossimità; mantenere attiva tutta la potenza significante di comportamenti, gesti, invenzioni simboliche che vengono, quando accadono, correttamente recepite come portatrici di cesure irreversibili nel cammino della storia umana. Per questo, il processo mitologizzante approda a creare figure di mediazione, con tutto ciò che comporta questa creazione.

 

Azione mitizzatrice e sua necessità

Manteniamo il riferimento a figure come Diotima, Antigone, Lisistrata, Beatrice. Gli uomini, gli autori che hanno dato questi nomi a donne reali, hanno proceduto su un crinale che assicura un’ambiguità molto interessante al processo di formazione del mito. Faccio alcuni esempi di questa ambiguità, con la pretesa di toccarne i punti più scottanti. Da una parte, avviene la negazione della fonte reale dell’ispirazione, una cancellazione di lei o di loro in carne ed ossa, veramente esistenti nella loro umanità; dall’altra avviene anche un potenziamento della fonte reale che, attraverso azioni tipicizzate, assume una esemplarità definitiva. Questo scongiura una sparizione o una caduta nell’insignificanza di eventi, azioni, parole che cambiano il corso delle cose.

Da una parte, si realizza, attraverso le figure di mediazione, la comprensione – anche se fortemente interpretativa e controversa – della forza di qualità e origine femminili, così da poterla indicare come presenza invalicabile che si interpone nelle vicende storiche e politiche delle società; dall’altra parte, avviene una formalizzazione rigida della forza femminile, tra l’altro, idealisticamente proposta come perdente sul piano del confronto storico con la forza di origine maschile che è quella vince – per lo più ammazzando – nell’incedere delle vicende socio-politiche.

Spero si colga meglio, a questo punto, il senso della convenienza della costruzione tradizionale di figure mitiche, da parte maschile. Questa convenienza – sebbene parta dal desiderio di comprendere la vita femminile, così misteriosa… – produce risultati conccreti che costituiscono un vero problema per il pensiero femminile e per il femminismo.

Come viene affrontato il problema da parte delle pensatrici politiche? Farò tre esempi, in risposta.

Maria Zambrano, per fedeltà alla vita femminile e alla sua differenza, si trova costretta a correggere il testo di Sofocle che condanna Antigone a morte. Addirittura, Maria Zambrano, dichiara apocrife la tragedia e la figura create da Sofocle, e avanza l’autorevole pretesa di riscrivere il mito di Antigone per renderlo più veritiero. Quando si legge La tomba di Antigone, per una donna viene spontaneo simpatizzare molto più con la fanciulla riscritta che, non solo non si suicida, ma vive e si fa signora e autrice, nientemeno che della nascita della coscienza nel mondo occidentale. Un posto che, di solito, si ama dare a sant’Agostino…

Luce Irigaray, in Speculum specialmente, ma non solo, si trova costretta ad una possente opera di decostruzione dei significati attribuiti dalla tradizione occidentale alle figure femminili del mito. Ma non basta, è costretta – suppongo per non perdere un aggancio forte con gli uomini e le donne colte – a risignificare queste figure, per renderle parlanti anche alle donne.

Aggiungo l’invito a osservare lo sforzo di Luisa Muraro, nel libro Approfittare dell’assenza, per strappare Diotima alla curvatura idealista che Platone imprime all’insegnamento della maestra di Socrate, e restituirlo all’esperienza e alla sapienza femminili dell’amore.

 

Ora, occorrerà che ci chiediamo se sia ancora necessario seguire la strada affascinante del mito, strada anche ambigua e densa di “errori” interpretativi; è ancora necessario, soprattutto da parte maschile, appellarsi a figure del mito per comprendere, accostare e salvare la forza e l’autorità femminili?

Forse no, se stiamo a due fatti significativi. Il mondo di sapere che le donne hanno ormai messo a disposizione del mondo e i passi di avvicinamento di alcuni uomini non animosi e pensanti. Cito uno di loro: Christophe Dejours, uno psicologo del lavoro che si è accorto della forza femminile senza prenderne paura e senza polarizzarla contro la forza maschile. In uno dei suoi testi tradotti in Italia, L’ingranaggio siamo noi, esamina genialmente la sofferenza che la riorganizzazione del mondo del lavoro postfordista sta infliggendo a uomini e donne. Nella forza femminile, esplicitamente cerca il suggerimento e la postura necessari per poter trovare la via d’uscita dalle sofferenze procurate da una imposizione del modello maschile di forza come competizione, durezza d’animo, utilitarismo, decisionismo, ecc.

 

Dunque, abbiamo buoni motivi per supporre che potremo continuare a farci affascinare dalla bellezza dei miti e dalla riserva di senso che ospitano, ma ne abbiamo anche di buoni per pensare che forse si sta aprendo una strada più diretta per fare entrare, nella relazione tra uomini e donne, un significativo attrito tra differenze, senza renderle irraggiungibili e considerandole imperfette, come imperfetti siamo noi, esseri umani alle prese con i movimenti della storia.

 

 

 

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Marija Gimbutas, Il linguaggio della dea. Mito e culto della dea madre nell’Europa neolitica, Neri Pozza, 1997.

Maria Zambrano, All’ombra del dio sconosciuto. Diotima, Antigone, Eloisa, Pratiche, 1997.

“          “        , La Tomba di Antigone. Diotima di Mantinea, La Tartaruga, 2001.

“          “        , L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, 2002.

Luce Irigaray, Speculum. L’altra donna, Feltrinelli.

Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione, Liguori, 2002.

Christophe Dejours, L’ingranaggio siamo noi, Il Saggiatore, 2000.