diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 5 - 2006

Tesi di Laurea

Etty Hillesum: Un itinerario di conversione

*Sintesi di tesi di laurea – Relatrice: Prof.ssa Wanda Tommasi

 

 

«Bisogna avvicinarsi a un libro alla maniera in cui si avvicinano le persone. Senza idee preconcette e senza pretese. Talvolta ci si forma un’idea dell’opera dopo le prime pagine e si rimane aggrappati a quell’idea, rifiutandosi di lasciarla andare – spesso facendo violenza all’autore. Agli esseri umani deve essere garantita la massima libertà e lo stesso vale per i libri. Ogni espressione impiegata da una persona può gettare una luce nuova, improvvisa e sorprendente, e infrangere i nostri preconcetti e la certezza in cui ci hanno cullato […]. Ci formiamo dei preconcetti sulle cose che ci stanno attorno per disporre di una qualche certezza in questa nostra vita confusa e sempre mutevole, ma così facendo sacrifichiamo anche la vita vera con tutte le sue sfumature e i suoi elementi di sorpresa, e inoltre la sottovalutiamo. La vita non può essere introdotta a forza in un sistema. E nemmeno le persone. Né la letteratura» (EI, pp. 179-180)[1].

 

 

 

Ci sono testi che afferrano immediatamente per la freschezza e la spontaneità con cui restituiscono delle verità; che inchiodano mente e cuore se, come per il Diario e le Lettere di Etty Hillesum, ebrea olandese morta ad Auschwitz a 29 anni, concedono di inoltrarsi nei tormentati, eppur felici, meandri di un faticoso percorso di emancipazione e di autonomia personale. O per meglio dire: di conversione integrale del proprio essere.

C’è una grande generosità in questo atto di consegnarsi allo scoperto di una pagina scritta, sapendo che essa non sarà più ritrattabile, non più correggibile. Una generosità che risulta tanto maggiore se, come nel caso di questa giovane donna, si provvede a far sì che i propri diari vengano pubblicati, sapendo prossima la propria fine. Ecco allora che, se una vita non può più spendersi concretamente tra gente bisognosa e disperata, spezzando e distribuendo il proprio corpo come se fosse pane (I, p. 238), può continuare a donarsi per altre vie. Come l’offrire in pasto la narrazione della propria esistenza.

La non esauribilità di senso, che si può estrarre da un pensare e da un sentire a cielo così aperto, può davvero servire a nutrire più del pane, poiché la sostanza qui riposta possiede un elevato potere trasformante, ricreativo nel senso più letterale del termine: di un ri-creare, di un ri-nascere. È una sostanza che nutre e libera; scuote e risveglia dall’assopimento.

In questa prospettiva, va bandita qualsiasi pretesa di restituire la ricchezza e l’intensità del luminoso percorso di carne e di spirito di questa giovane cercatrice di assoluto nelle strettoie di uno schema definitorio, di una classificazione o di un’appartenenza.

Il termine schema, già per il suo etimo, poco si presta a questa operazione, racchiudendo in sé l’idea di un possesso, la pretesa e, forse, la presunzione di poter imbrigliare in una configurazione essenziale, idealmente definita o definitiva, un argomento.

Semplificazioni di questo genere, al pari dei preconcetti, dei sistemi e dei luoghi comuni con cui si cercano sì sicurezze, ma spesso si ingombrano anche tante esistenze, sarebbero state strette anche a Etty Hillesum con il loro limitare le costellazioni o gli scorci di senso che possono aprirsi improvvisi e mai scontati, la polifonia delle voci che invocano, piuttosto, un ascolto attento e un lento lasciar risuonare dentro di sé. Proprio quello che la giovane aveva imparato a praticare: appunto, un costante, ininterrotto hineinhorchen ( EI, p. 91), un ascolto di se stessa, degli altri, del mondo e poi di Dio.

Non si possono ridurre a schema il Diario e le Lettere di quel «cuore pensante» (I, p. 196) che era, che continua a essere Etty Hillesum.

Il percorso esistenziale qui tratteggiato restituisce l’acquisizione di un sapere, che oltrepassa la mera dimensione intellettuale, pure assai presente, per tradursi in esperienza vissuta, in saggezza umana, in intelligibilità superiore, mostrate nel loro farsi e disfarsi, nelle innumerevoli svolte e ricadute, in perenne tensione tra avanzamenti e apparenti regressioni, tra dispersioni e ritorni.

Proporsi di leggere la trasformazione radicale di Etty Hillesum nei termini di una conversione globale, non segnatamente religiosa come il termine spesso suggerisce[2], significa cercare un concetto dinamico, che ammetta come ontologicamente presente l’elemento della discontinuità; che salvi le inversioni e le deviazioni connaturate all’esistenza, il suo essere un fieri e un disfieri. Una prospettiva, insomma, che sia sempre aperta a possibili ricominciamenti: sia che questi irrompano improvvisamente, sia che siano sollecitati da una determinazione volontaria.

   Conversione va oltre l’idea di uno sviluppo lineare e progressivo, di una sostanziale continuità, che la ricorrenza di termini quali “crescere, diventare, maturare”, di cui è costellato tutto il Diario, sembra attestare: nel senso di un di più e di un meglio sempre possibili, da guadagnare.

Conversione, se recuperata nella sua polivalenza linguistica, in quello che lo stesso sentire comune attribuisce a questo termine, evoca l’idea di un cambiamento radicale di condotta o di mentalità, di una svolta, di un’inversione di direzione; richiama un’esperienza trasformante, in qualche modo mortale, che comporta un riorientamento del proprio essere.

Se, poi, si attinge alla tradizione filosofica e teologica[3], ecco che la possibilità di una polarità tra epistrophè – come ritorno: sui propri passi, all’interiore, alle sorgenti originarie o all’anteriore, a seconda dei diversi contesti – e metanoia – nel senso di una ri-nascita, di un ri-cominciamento assoluto – viene ampiamente argomentata.

Sembrano esserci molte di queste “conversioni” nell’esistenza di Etty Hillesum. Si può forse dire che gli ultimi due anni della sua vita siano stati un’unica grande conversione.

Sin dagli esordi del Diario, l’attenzione viene catturata dal rincorrersi di avverbi temporali contrapposti: prima/adesso, una volta/ora… Un accostamento che, in un qualche modo, si ripresenta nello scorrere delle pagine, documentando una possibilità di resurrezione che, puntualmente, si rinnova, al di là del ristagno registrato al momento. Se, infatti, la conversione è un’esperienza trasformante, essa non  può mai dirsi compiuta e definitiva, ma esige un contributo continuo.

La giovane, che inizia ad annotare scrupolosamente pensieri ed emozioni sulla carta, è  una donna in preda a profonde depressioni e a invalidanti malesseri psicosomatici; non le è stata neppure estranea l’idea del suicidio. A poco più di due anni di distanza, alla fine, ma anche a più riprese nel corso del Diario e poi nelle Lettere, ritroviamo una Etty profonda e intensa, in grado di tenere le redini della propria esistenza, di sentire i bisogni e di portare il dolore degli altri. E innamorata della vita.

Ciò che funge da elemento di congiunzione tra le due Etty è stata la folgorante tessitura di una conversione integrale che, sulla trama di una conversione psicologica e umana, ha intrecciato anche i fili di una conversione marcatamente religiosa. Ne emerge un’unità profonda di percorso, un fuoco vivo logicamente inafferrabile, non restituibile nella sua ricchezza e complessità, a cui si riesce solo ad alludere, appena ad approssimare per tema di semplificarne o di smorzarne la vivezza, sezionando e descrivendo i singoli aspetti implicati.

È per via di questa trasformazione radicale che la giovane potrà ritornare a se stessa, ritrovarsi e recuperare la propria identità, quello che è il suo sé più autentico, liberandolo dalle alienazioni che lo avevano come annientato; è così che potrà appropriarsi della sua vocazione tra gli uomini e assecondare i «progetti» che Dio avrà tenuto in serbo per lei (I, p. 177).

Etty Hillesum non è l’unica protagonista di questa conversione. Lo è in primo luogo Julius Spier, lo psicochirologo a cui la giovane si era rivolta per iniziare una terapia e che diventerà una figura determinante nella sua evoluzione personale. Lo sono anche i libri, la sua «seconda patria» (EI, p. 310), luogo di consapevolezza di sé e di costruzione identitaria. L’incontro con Dio, infine, unificherà l’intero processo di trasformazione integrale di sé.

A ben vedere, tutte queste variabili diventano vere catastrofi[4] per la giovane ebrea, determinanti occasioni di conflitto intellettuale, emotivo e spirituale, quindi, di svolta netta nella sua esistenza. Quello che era lo pseudo-ordine precedente ne viene profondamente turbato, eppure lo scossone che Etty ne ricava in realtà la riporterà a se stessa, là dove, cioè, non era ancora veramente arrivata.

Qui si situa il movimento della conversione di Etty Hillesum: nel suo essere un percorso di interiorizzazione preliminarmente, necessariamente, ego-centrico per diventare etero e teo-centrico.

In questo, ora, occorre tentare di seguirla.

 

  1. Ritorno a se stessa…

 

   Il Diario di Etty Hillesum si apre con una lettera indirizzata a Julius Spier, che è un misto di confessione e di richiesta di aiuto. La giovane donna, che varca lo studio di quell’uomo, non può più procrastinare un titanico lavoro su di sé per diventare quell’«essere adulto e completo» (EI, p. 3) che tanto auspica, ma che al momento non può conseguire con le sue sole forze, paralizzate da un complesso ingorgo interiore senza via di uscita.

Il primo passo Etty, in realtà, l’ha già compiuto con questa preliminare ammissione: con il suo riconoscersi essere mancante e bisognoso e con il suo volere, nel contempo, investire le proprie risorse in una virata.

È già qui che inizia il suo cammino di conversione. Come poter ancora convivere, infatti, con il proprio stato di totale disintegrazione psichica, con quella sua perenne oscillazione emotiva, che la sbatacchia al fondo degli abissi più oscuri per innalzarla subito dopo a vette siderali, lasciandola frammentata e priva di energia?

Sembra essere questo, infatti, lo stato dannato in cui si dibatte la Hillesum, che, dopo l’incontro con Julius Spier, ha deciso di contrastare: quello di vivere in balia di polarità estreme – tra autoesaltazione e depressione; tra forte ambizione di fama letteraria e svilimento di sé; tra fuga nell’immaginario, nelle sfrenatezze dello spirito, e aspirazione spasmodica alla concretezza; tra disordine emotivo e bisogno di pace e di rigore.

La passionalità della propria «anima russa»[5], eredità materna, del resto non le consente di sperimentare a metà le sue emozioni: ogni stato, gioioso o sofferto che sia, va vissuto fino in fondo. Fino all’esaltazione come pure sino allo sfinimento.

Quello che la giovane cerca appassionatamente – lei che spesso dichiara di sentirsi fluttuante, inconsistente e alla deriva –  è una propria forma, unità interiore, la centratura in se stessa come punto di integrazione e di equilibrio in cui consistere e sussistere e a cui aggrapparsi, quando si trova in balia delle spinte emotive più ingovernabili. Glielo ricordava a chiare lettere Spier: la donna non è abbastanza centrata in se stessa e non si trova a proprio agio interiormente; ecco la ragione della ricerca tutta femminile di confini ben definiti e di un centro di gravità nell’uomo (EI, p. 118). In ogni caso, al di fuori di sé. Sono parole rivelatrici per Etty che, forse nel tentativo di dare contenimento alla sua mancanza di forma, porta avanti relazioni affettive con uomini di età considerevolmente superiore: due contemporaneamente, all’epoca del Diario,

Il percorso che, sotto la guida di Spier, Etty intraprende e che la porterà a rendersi pienamente consapevole di sé e a disporre delle sue risorse più profonde, si impernia su una severa disciplina esteriore e interiore – una sorta di ascesi fisica e spirituale, pratica e intellettuale da esercitare quotidianamente –, atta ad arginare e a contrastare le alternanze più pericolose e destabilizzanti, verso un dominio di sé positivo e costruttivo. Ecco allora che anche il semplice disbrigo delle faccende domestiche, se astratto dalla mera ripetitività e fatica, agli occhi di Etty riesce a diventare  «un’azione simbolica verso la creazione di un nuovo ordine» (EI, p. 266), di cui ha profondamente bisogno, conferendo un senso e una forma diversi alla realtà e al suo stare in essa.

Ma sarà soprattutto un ancoraggio interiore progressivamente più saldo ad assicurarle forza e chiarezza di direzione nel duro percorso di destrutturazione e di integrazione del proprio attuale, caotico e disperso io. Un punto cardine di ogni conversione sta proprio qui: nel rendersi cioè sempre più consapevoli del centro unificante la propria persona[6].

Etty, sulla scorta della lezione di Spier, compone il suo programma: occorre fissare il centro dentro di sé, affermare se stessi come «unica norma» cui affidarsi fiduciosi, rinunciando ad attendersi aiuto o soccorso dall’esterno. Infatti, «la nascita di un’autentica autonomia interiore è un lungo e doloroso processo», che richiede ogni volta, da capo, di essere rimandati a se stessi, di contare solo sulle proprie forze (I, p. 68), di farsi carico del proprio essere.

La coscienza dell’imprescindibilità del partire da sé[7] assicura ad Etty la spinta iniziale necessaria per affrontare forse la fase più dura nella battaglia ingaggiata per plasmare e unificare una personalità disgregata come la sua: quella di smantellare tutte le facili giustificazioni, le abitudini e i modi consueti di comportarsi, lo stesso sapere posseduto su di sé che, in qualche modo, resistono alla svolta, a quel deciso cambio di direzione ora quanto mai necessario. I sentieri solitamente battuti si sono sì dimostrati rassicuranti, al prezzo però di allontanare Etty dalla vita vera e di  esonerarla  dallo sforzo di cercare il proprio posto nel mondo. Non poteva più essere così, per lei.

La consapevolezza di dover partire da sé comporta una conversione, un’inversione nell’impiego delle risorse fino ad allora convogliate nella negazione o nel lamento di sé, verso una direzione più fruttuosa.  Julius Spier definiva «attività passiva» (EI, p. 27) la capacità di sopportare e di accettare ciò che è immodificabile e la proponeva come metodica efficace contro la facile sopraffazione del risentimento e della rabbia. In quel caso il terapeuta si riferiva al dolore, ma suggeriva  una pratica che poteva essere applicata anche a se stessi, alla propria modificazione. La Hillesum ne fa tesoro.

Accettarsi per ciò che si è, con i propri limiti e possibilità, pregi e difetti – vede bene Etty – non significa adagiarsi in una rassegnata immobilità, ma costituisce il primo passo per lavorare veramente su se stessi, per migliorarsi e per superarsi, facendo scaturire da sé quanto, fino a quel momento, si era delegato ad altri – libri compresi –, sottraendosi all’azione in prima persona.

L’accettazione, impastata di pazienza, non solo diventa una parola-chiave nel percorso esistenziale di Etty Hillesum, ma costituisce persino la premessa fondamentale e ineludibile del suo stesso itinerario di conversione. Una conversione che non può attuarsi senza un’intima accettazione di ciò che è: del tempo e del contesto di appartenenza, delle persone più o meno prossime, ma, in primis, di se stessa.

Ed Etty finalmente si accetta: accetta la sua personalità complessa, multipla, il suo umore estremamente mutevole e instabile; accetta le sue ambivalenze scioccanti, la sfibrante alternanza tra fasi produttive e stasi inconcludenti, tra cupo ripiegamento interiore e solare espansività.

Il duro lavoro di analisi e di introspezione, condotto sotto la guida di Spier, se l’ha confrontata con le ombre più nascoste e inconfessabili di sé, le ha donato parimenti una conversione dello sguardo, un ampliamento degli orizzonti mentali. Grazie a quell’uomo, la giovane donna riesce a liberarsi dei numerosi “incantesimi” che ne ingombravano e cristallizzavano l’esistenza.

Ecco, allora, che anche il suo traslocare da un polo all’estremo opposto che, in passato, era stato per Etty motivo di tormento, quasi una condanna da espiare, ora viene da lei letto come una variante della legge del divenire incessante e del continuo sbilanciamento dell’esistenza. Adesso il possesso di una personalità oscillante può convertirsi in una sorta di felix culpa.

Perché non intravedere, infatti, un lato fecondo nella propria capacità di oltrepassare i limiti, di frequentare gli stati più esasperati, di vivere e di sentire con un’intensità e una purezza precluse alla maggior parte degli uomini, se così facendo si riesce ad aprirsi a una possibilità di vita totale[8], a sperimentarne ogni sfaccettatura fino in fondo al possibile? Perché non cogliere nell’alternanza  di polarità estreme una fonte di ricchezza, una potenzialità di cambiamento, e non qualcosa di negativo?

La tensione tra gli opposti[9] rimane insuperabile; si mantiene come un «perpetuo oscillare», senza pervenire a una sintesi finale che annulli il gioco dialettico tra i poli[10], ma non viene più, per questo, considerata tragica: essa ha dalla sua almeno la possibilità di mantenere un varco sempre aperto verso un oltre possibile.

Anche lo stesso centro, come nucleo permanente di sé, che Etty ha tanto cercato e che ha sentito  installarsi dentro, non si configura come un punto fisso e statico, come un’equilibrata via di mezzo tra opposti; è piuttosto un centro oscillante, che sa agire in situazione e in base al contesto, trovando una mediazione tra sé e le circostanze.

L’ideale da lei tanto cercato di una stabilità e di una infrangibile armonia in cui finalmente adagiarsi può essere smontato. Quello di una coerenza assoluta e del possesso di una forma definita e definitiva le appare sempre più una violenza al suo essere più vivo e autentico, alla propria modalità libera di sentire e di afferrare la vita. Insomma, un «mancare di essere se stessa» (EI, p. 161).

Poco importa, allora, se, nel suo essere diventata uno strumento estremamente sensibile a ogni vibrazione ed eccesso di vita, Etty deve pagare lo scotto dell’incapacità altrui di seguirla e di adattarsi alla molteplicità e al ritmo dei suoi sommovimenti interiori (EI, p. 95). Per lei si apre uno scenario  inedito, dagli sviluppi ancora imprevedibili: la respons-abilità di disporre di un bagaglio di esperienza e di conoscenza da mettere a disposizione di altri.

 

 

  1. … per non restare presso se stessa

 

Se Etty costantemente si richiama alla necessità di partire da sé, con questo non si fa certo paladina di alcuna forma di vanità o di egoismo. Ci testimonia, anzi, che l’amore di sé non è «una forma di individualismo malaticcio» (I, p. 127), un lavorio interiore che si traduce in un isolamento intimistico o in una presunta autosufficienza priva di mondo. Esso deve solo avere la precedenza.

La giovane ne aveva trovato una conferma e, in fondo, una direzione esistenziale nel comandamento biblico di  amare il prossimo come se stessi (I, p. 78), una volta che aveva iniziato a leggere il testo sacro come voce quanto mai viva e capace di rispecchiare il suo stesso vissuto.

Un’annotazione del Diario è come se annodasse due “versanti” della conversione – quella psicologica e quella affettiva – di Etty: «Noi tutti abbiamo bisogno di una grande educazione del nostro io. Sì e a che mi serve se non ho l’amore?» (EI, p. 249). La giovane, impegnata a lavorare alacremente su se stessa, sentiva che l’amore di sé doveva prolungarsi necessariamente nell’amore per gli altri.

Una connessione, questa, che, in realtà, non faceva che esplicitare quanto Etty aveva realizzato sin da subito: inoltrarsi nei meandri della propria psiche, risolvere i propri problemi non significava  forse risolvere anche quelli altrui (EI, p. 70)?

Come dire che quanto conquistato per sé non va tenuto presso di sé e tradotto in superiorità sugli altri; se i propri talenti sono stati ricomposti e liberati dalla massa di detriti sotto cui erano sepolti, ora occorre investirli, condividerli.

Etty arriverà persino a dubitare della propria vocazione per la scrittura e a riconoscere, piuttosto, di possedere un genuino talento per sentire e patire dentro di sé l’intero esperibile umano, in tutte le pieghe e sfumature, tutte le persone e il loro dolore (EI, p. 433); avvertirà in sé la presenza di una potente sorgente d’amore, che attende solo di zampillare copiosamente a beneficio dell’umanità.

L’apprendimento guadagnato attraverso la comunanza con Spier – vero maestro e mentore per Etty – sarà proprio lo svelamento di una vocazione: c’è un daimon[11] che la spinge a  trascendere se stessa, a debordare dai confini del proprio piccolo io, «tanto ristretto, coi suoi desideri che cercano solo la loro limitata soddisfazione» (I, p. 122), per consegnarsi agli altri e al mondo.

L’approdo, però, non sarà né agevole né lineare. Soprattutto l’edizione integrale restituisce tutto il dolore e il tormento con cui Etty, diventata assistente e amante di Spier, ha combattuto la tentazione di comprimere in una forma convenzionale la relazione equivoca intrecciata con lui – uomo che ha il doppio dei suoi anni e molteplici esperienze alle spalle, fidanzato con una sua ex-paziente e che predica che l’«amore per un uomo solo» non è altro che «una forma di amore di sé» (I, p. 51) –; documenta tutta la fatica di convertire la bella “favola” femminile dell’amore assoluto ed esclusivo per il singolo uomo[12] in amore per tutta quanta l’umanità, sciolto da pretese e da aspettative personali.  Ma mostra anche tutta la folgorante chiarezza con cui a Etty si schiude una verità : che, cioè, l’amore per il prossimo racchiude «un ardore elementare che alimenta la vita» (L, pp. 114-115), di cui gioire già solo per il fatto di provarlo ancora dentro di sé, a dispetto dell’abbrutimento generale e di un presente di disperazione.

È che il daimon non sempre si rende evidente; si rivela a sprazzi: talvolta nei momenti di crisi e nelle stesse patologie, talaltra nelle passioni forti o nei comportamenti apparentemente più irragionevoli e contraddittori, quando non contrari a una morale convenzionale. Si tratta, in ogni caso, di sintomi indicatori di un’autenticità che chiede imperiosamente di essere vissuta[13].

Forse, qualcosa del genere è capitato anche a Etty Hillesum: il suo daimon si è manifestato ora sotto forma di sofferenza psichica e di blocco esistenziale; ora nella scelta di abortire – lei che paradossalmente aspirava a «un profondo sentimento di disponibilità e di amore» (I, p. 82); ora nella decisione di partire per il campo di Westerbork, a dispetto di facili scorciatoie di fuga, pure alla sua portata.

Si ha come l’impressione che Etty Hillesum si senta chiamata a una maternità diversa da quella biologica: una maternità, per così dire, senza fine, rinnovata per ogni creatura dilaniata e oppressa del suo presente e per chiunque sia privo di speranza. O si senta abbandonato da Dio. Per ciascuno di loro Etty si offre come grembo accogliente e generatore di un’esile, fragile possibilità di una nuova nascita.

Sì, «esser sola e per tutti» (I, p. 191); arrivare a «condividere il proprio amore con tutta la creazione, con il cosmo intero» e avere così «anche accesso al cosmo» (I, p. 130) sono gli esiti  della conversione della visione dell’amore in Etty. Il suo diventa un sentire più espansivo, che oltrepassa la relazione con la persona amata, la cerchia dei familiari e degli amici, fino a «mettere in pratica il detto: ama i tuoi nemici» (I, p. 186). Etty riesce a scorgere qualcosa di umano persino nei cosiddetti carnefici, trovando anche in loro una traccia di quel «nudo, piccolo essere umano» (I, p. 113), che è diventato ormai irriconoscibile.

Non si tratta solo di un risveglio del sentire, purificato dall’operazione di sradicamento in se stessa di ogni tossina di violenza e di odio, reattivo o indiscriminato verso un intero popolo. Si assiste in lei anche al guadagno di una maturità e di una qualità di comprensione così essenziali cui, forse, solo la sofferenza grande, accolta senza sconti o addirittura anticipata[14], concede di accedere: un po’ come successe a Giobbe, cui alla fine Dio mostrò la terribile bellezza del mondo. Per parte sua, la Hillesum ha dovuto farsi «piccolo campo di battaglia», si è lasciata insanguinare dai grandi «problemi» che attanagliano l’umanità (I, pp. 48-49) fino allo sfinimento, fino alla perdita dei confini personali, fino ai limiti della pazzia. O della morte (I, p. 83).

Stemperato il proprio essere individuale in un senso cosmico di appartenenza al Tutto, Etty si scopre bacino di accoglienza del dato e del possibile, del divenire dei secoli e delle generazioni. Ci sono sprazzi di luminosità accecante, che le si schiudono in un mistico affacciarsi sui profondi misteri che reggono la vita e il destino. Etty arriva quasi a toccarli, in un crescendo di trasparenza, come se fosse «compenetrata di un ordine superiore» (I, p. 219) e vivesse sì ben piantata nel suo tempo, ma sub specie aeternitatis.

Non esistono più le contrapposizioni degli inizi del Diario, che riflettevano una logica escludente. Gli opposti, prima sperimentati come giustapposti nel tempo, vengono ora sentiti e compresi come coappartenenti, senza più alcuna contraddizione tra loro. La vita diventa un unico, coerente insieme, dove c’è posto per tutto e dove tutto eternamente ritorna: un Hitler, un pogrom, le guerre, le carestie…(I, p. 137 e p.161). E dove ogni cosa è carica di significato.

Etty non avrebbe potuto esprimersi in questi termini se, nel frattempo, non avesse trovato la suprema garanzia del senso nel Dio dissotterrato dalla sorgente «coperta da pietre e sabbia» (I, p. 60), che giace nelle profondità di se stessa.

Etty a lungo ha coltivato il silenzio interiore. Se, all’inizio, si è trattato di una sorta di ascesi sollecitata da Spier per allenare la paziente all’introspezione, in seguito il silenzio si è trasformato in un imperativo dell’anima. Lo svuotamento progressivo che esso impone le ha consentito di accedere all’ampiezza, alla bellezza e alla quieta profondità della propria sfera più intima. A un certo punto, gli strati ultimi di sé, rimossi tutti gli ostacoli che si frapponevano, sono diventati il luogo dell’incontro e della relazione viva con Dio.

È stata spesso sottolineata la stretta relazione tra recupero psicologico e religiosità. L’uno come possibile via di accesso alle fonti occluse di una fede inconscia o rimossa; l’altra come rifugio psicologicamente efficace col suo offrire un senso di sicurezza e un ancoraggio nella trascendenza[15].

In Etty Hillesum itinerario psicoterapeutico ed esperienza religiosa sono accomunati da un forte percorso interiore.

La giovane paziente di Spier, che aveva posto se stessa come «unica norma», trova ora nelle sorgenti intime e nascoste di sé «l’unica certezza» da porre a guida dei propri comportamenti (I, p. 87). Un’acquisizione impossibile senza aver fatto propria l’esortazione che fu di Agostino del rientrare in se stessi, come moto contrario a quello dell’uscita da sé, che l’aveva condotta alla dispersione tra le cose del mondo.

Etty Hillesum non ci descrive le tappe del viaggio interiore che l’ha portata alla fede, eppure leggendola si avverte che un incontro con una presenza viva, per lei salvifica, in qualche modo ha avuto luogo.

La «ragazza che non sapeva inginocchiarsi» (I, p. 235) avvia un dialogo sempre più fitto con Dio, del tutto libero, al di fuori di qualsiasi discorso già codificato e di ogni mediazione. Come ha voluto restare estremamente libero il suo modo di intendere Dio. Per lei, Dio è il «riposare in se stessi», nella parte più profonda e ricca di sé (I, p. 201); è il silenzio interiore; sono le sorgenti originarie che si hanno dentro (I, p. 220); è la parola che contiene tutto (L, p. 123).

Etty non esita a impiegare il nome “Dio” per quanto ad un certo punto confessi la propria perplessità a riguardo: “Dio” le sembra una sorta di «metafora», «una costruzione di fortuna» o un semplice «approccio» alla sua avventura interiore più straordinaria, che non cambia il fatto che anche nei momenti più disperati le sembra di rivolgersi pur sempre a una parte di se stessa (EI, pp. 439-440).

Non importa che “Dio” possa sembrare un nome forse sovraccarico di tradizione, forse superfluo o forse inadeguato a rendere la semplicità delle acquisizioni da lei raggiunte. Etty ha bisogno di un interlocutore nel proprio dialogo interiore; ha bisogno di mantenere aperta la relazione con un’alterità che, conservando una distanza da sé, la salvi dalla deriva intimistica e dallo sprofondamento in se stessa[16]. Dio è il dativo e il vocativo in cui trasferire e svuotare un sentire che, approfondendosi sempre di più, acquista una gravità e uno spessore tali da travolgerla. La gratitudine e la pienezza che Etty sente allargarsi dentro diventano così traboccanti da abbisognare di riversarsi all’esterno, in altri. Nuovamente: sopra il basso continuo della conversione, si ricompone la medesima linea melodica dello spendersi per gli altri: «Mi hai resa così ricca, mio Dio, lasciami anche dispensare a piene mani» (L, p. 122).

Dio diventa, per così dire, la sorte di Etty Hillesum. Un Dio da mantenere vivo dentro di sé e da salvare nei cuori devastati delle altre persone. Un Dio di cui essere responsabili e da proteggere dai soffi potenti che il male, la sofferenza, l’ingiustizia, la morte gli inviano contro per spegnerne la presenza[17]. Purché continui a dimorare dentro di sé. Il sentirsi abbandonati da Lui, agli occhi di Etty, rappresenta la più grande miseria. La più terribile solitudine.

 

  1. Centro, patria, dimora

 

Con il ritorno alle sorgenti più profonde di sé, a cui abbeverarsi e dove riparare come in un chiostro all’incalzare degli eventi,  si può dire che Etty Hillesum abbia portato a compimento la ricerca di un centro solido, del centro unificante il proprio essere.

La perseveranza posta nell’assolvimento dei compiti quotidiani, l’accettazione coraggiosa e tranquilla di ogni giornata, l’intera maturazione del proprio essere, tutto questo ha alimentato a poco a poco dentro di lei un centro vitale; ha fatto sì che lo spazio interiore si schiudesse e rivelasse gli strati più riposti di sé nella loro immensa profondità. Tutto questo le ha consentito di sentire che il proprio centro era occupato da Dio; era Dio in lei[18].

Quell’io, allora, prima diviso e frammentato, alle prese con la dura lotta per la ristrutturazione di sé, acquista ora unità nell’ancorarsi alla certezza della presenza di Dio e nel riconoscimento della Sua essenzialità nella propria esistenza.

Tale scoperta non può più lasciare la giovane donna nella condizione di vita precedente: è come se Etty avesse dimesso gli abiti vecchi e nel suo essere si fosse reso visibile un di più, qualcosa di totalmente rinnovato. Tutta la sua esistenza ne è come rischiarata e trasformata.

In un unico movimento si modulano i due aspetti, che contrassegnano la conversione nella tradizione filosofica e religiosa: nel ritorno alle sorgenti autentiche di sé (epistrophé) si situa la possibilità di una metanoia, di trasformarsi cioè in esseri umani nuovi.

Il senso di novità estetica, interiore ed esteriore, che contrassegna la conversione finisce, poi, per estendersi anche alla percezione del mondo e della vita. Per Etty, ora, del tutto all’insegna della bellezza e della gioia[19].

Nel ritorno a sé, la giovane ha quindi trovato l’essenziale. Non è forse un caso che la Hillesum ad un certo punto non insista più solo sul centro, ma includa nel lessico spaziale, che spesso impiega, i  termini di “patria” e di “dimora”. Non si tratta solo di porre il centro dentro di sé, come punto di integrazione e di permanenza. Si tratta di trovare un riparo, una dimora in se stessi.

Ora, “dimorare”, nel suo etimo, richiama l’idea di una immanenza, l’atto del restare[20]. È quanto Etty ha provveduto a fare. Se il proprio è un tempo di povertà e di privazione, se si viene strappati a forza dalle proprie case, rimane pur sempre un «angolino» dentro di sé (I, p. 200) intangibile[21], che non può essere tolto e in cui poter letteralmente abitare. Lì, tutto quanto si è sperimentato all’esterno – persone, libri, incontri, amori e quant’altro – può diventare sostanza, quasi mobilio e suppellettile con cui tappezzare la propria interiorità: si arreda una casa imprimendovi la propria impronta, la propria storia, quando si vuole dimorarvi stabilmente e non prendervi solo un domicilio temporaneo. E, soprattutto dentro si può riservare la stanza migliore all’Ospite più importante. Per Etty, dobbiamo portare tutto in noi stessi; dobbiamo essere, ciascuno, «la nostra propria patria». Se imbarchiamo tutto in noi stessi, come navi che recano a bordo un carico prezioso (I, p. 206), possiamo affrontare le situazioni più penose.

Quando sale sul treno stipato di deportati alla volta di Auschwitz, Etty ha con sé solo la sua piccola bibbia e uno zaino. In quel momento, forse, ha pensato che le «poche cose grandi che contano», quelle che «si trovano dappertutto» e che vanno riscoperte ogni volta in se stessi (L, p. 75) erano lì con lei, in lei: erano il suo carico prezioso. Sì, poteva lasciare «il campo cantando» (L, p. 149).

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[1]                Le citazioni tratte dall’edizione italiana, Diario 1941-1943, trad. di Chiara Passanti, Adelphi, Milano 1985, verranno indicate con la sigla I, mentre quelle dell’edizione integrale, in lingua inglese, The Letters and Diaries of Etty Hillesum 1941-1943, a cura di Klaas A. D. Smelik, trad. di Arnold J. Pomerans, William B. Eerdmans Publishing Company – Novalis, Michigan / Cambridge, U. K. – Ottawa  2002, saranno indicate con la sigla EI.

Le Lettere 1942-1943, trad. it. di Chiara Passanti, Adelphi, Milano 1990, verranno citate con la sigla L.

 

[2]                Anche la ridotta edizione italiana sembra favorire il lato religioso. Alla luce degli scritti integrali, invece, il percorso spirituale risulta più stemperato  e, semmai, concentrato in particolare negli ultimi due degli undici quaderni del Diario.

[3]                Un’analisi dettagliata sul tema della conversione nella storia della filosofia si rintraccia in Pierre Hadot, Epistrophé et Metanoia dans l’histoire de la philosophie, in Actes XI Congrès international de la Philosophie, Bruxelles 1953, vol. X II, pp. 31-36. Cfr. anche Pascal Dreyer, Etty Hillesum Una testimone del Novecento, trad. it. di Roberto Cincotta, Edizioni Lavoro, Roma 2000, pp. 107-161.

[4]                Qui si allude al significato matematico di “catastrofe”, come evento perturbatore che viene a interrompere la continuità e l’ordine di un sistema precedente. L’etimo greco di katastrophé indica un capovolgimento.

[5]                La passionalità russa posta a confronto con il sentire più trattenuto e razionale degli occidentali è descritta in EI, p. 453.

[6]                Cfr. Mihály Szentmártoni, In cammino verso Dio. Riflessioni psicologico-spirituali su alcune forme di esperienza religiosa, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998, p. 59.

[7]                Il partire da sé è una pratica centrale nella politica delle donne, di cui dà ampia testimonianza la raccolta di Diotima, La sapienza di partire da sé, Liguori, Napoli 1996.

[8]                Cfr. François Jullien, Il saggio è senza idee o l’altro della filosofia, trad. it. di Mario Porro, Einaudi, Torino 2002, pp. 26-27.

9  Cfr. Romano Guardini, L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, trad. it. di Giulio Colombi, Morcelliana, Brescia 1997, in cui l’autore pone proprio nella “tensione tra coppie di opposti” il tratto qualificante il vivere umano.

10   Cfr. Massimo Borghesi, Romano Guardini.  Dialettica e antropologia, Edizioni Studium, Roma 1990, pp. 28-29.

[9]

[10]

[11]              Daimon è uno dei tanti nomi – come, per esempio: carattere, fato, genio, vocazione, destino, ghianda –  con cui James Hillman , di formazione junghiana, qualifica quella “forza enigmatica”, che agisce nell’esistenza di ciascuno spingendolo a essere ciò che è. Cfr. Id., Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino, trad. it. di Adriana Bottini, Adelphi, Milano 1997.

                        12   Si tratta di una questione su cui la Hillesum si interroga molto, esaminandola da due prospettive: quella di una “questione femminile” e quella di una “differenza femminile”. Cfr. in proposito Wanda Tommasi, Etty Hillesum. L’intelligenza del cuore, Messaggero, Padova 2002, p. 28.

[12]                   13  Cfr. James Hillman, Carattere, vocazione, destino, cit., p. 26 e passim.

[13]

[14]              Cfr. I, p. 238: «Vorwegnehmen [anticipare]: non conosco una buona traduzione olandese di questa parola. Sono distesa qui da ieri sera, e intanto comincio ad assorbire una piccola parte del gran dolore che dev’essere assorbito su tutta la terra. Comincio a mettere al coperto un po’ del dolore che patiremo quest’inverno».

[15]              Cfr., per esempio, Viktor Frankl, Dio nell’inconscio. Psicoterapia e religione, trad. it. di Eugenio Fizzotti, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 90-91.

[16]              Cfr. Chiara Zamboni, Etty Hillesum. Quello che resta della vita, «Via Dogana», n. 48, febbraio 2000, Lontanovicino. Il Dio delle donne, p. 12.

[17]                   17  Cfr. Paolo De Benedetti, In margine a Paul Ricoeur. Sul male dopo Auschwitz, in Paul Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, trad. it. di Ilario Bertoletti, Morcelliana, Brescia 2003, p. 76. Cfr. con le parole di Etty Hillesum: “Ciò che conta è sollevare in alto il vessillo di Dio sopra le migliaia di paure e oppressioni e scoraggiamenti della vita di ogni giorno” (EI, p. 507).

[18]           Cfr. EI, p. 223: “ Dio, Ti ringrazio per avermi dato così tanta forza: il centro interiore che regola la mia vita sta diventando più forte […]. Io credo di lavorare bene con Te, Dio, che lavoriamo bene insieme. Ti ho riservato una dimora sempre più grande e sto anche iniziando a esserTi fedele […]. Ti ringrazio, Dio, pace e quiete regnano nel mio vasto Dominio interiore, grazie alla forte autorità che Tu eserciti. I confini più estremi avvertono la Tua autorità e si lasciano guidare da Te”.

 

[19]              Per un  resoconto degli elementi tipici di una conversione si veda  Mihály Szentmártoni, In cammino verso Dio. Riflessioni psicologico-spirituali su alcune forme di esperienza religiosa, cit., pp. 60-64. Cfr. anche Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, trad. it. di Anna Maria Marietti, Einaudi, Torino 1987, pp. 31-32.

[20]              Gianfranco Ravasi si espresse in termini simili in un commento biblico domenicale, purtroppo da me non registrato.

[21]              Per Evelyne Frank si tratta di un mondo nel senso etimologico del termine: di uno spazio pulito, netto, appunto un mundus, per resistere in un universo immundus. Cfr. Ead., Con Etty Hillesum. Alla ricerca della felicità, un cammino inatteso, trad. it. di Paola Floricoli, Gribaudi, Milano 2005, p. 65.