diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 4 - 2005

Tesi di Laurea

Etty Hillesum: la scrittura spezzata

* L’elaborato sintetizza il lavoro di tesi di laurea presso l’Università di Bergamo. Relatrice Prof.ssa Federica Sossi

 

 

 

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La storiografia ci offre una vasta produzione di libri che hanno per argomento la persecuzione e lo sterminio degli ebrei.

Molte persone sopravvissute alla Shoah hanno sentito il dovere di testimoniare e questo senso del dovere ha portato all’atto della scrittura per la ricostruzione degli eventi e per la creazione di una memoria. Le memorie, sia che fossero scritte o orali, hanno aiutato gli studiosi a ricostruire gli eventi del nazionalsocialismo e vista l’età avanzata dei testimoni sopravvissuti, oggi è ancora più importante la raccolta di queste testimonianze per lasciare un futuro alle prossime generazioni.

Molte testimonianze sono nate da un bisogno interiore di raccontare, altre invece per dare delle risposte a domande legate all’esigenza di giustizia.

I nazisti non temevano le vittime perché queste, a loro avviso, non erano un pericolo. L’intenzione dei nazisti era di cancellare il popolo ebraico dalla storia del mondo e di far conoscere il proprio dogma. Himmler e gli altri non pensarono mai alla possibilità che, invece, sarebbero stati proprio i deportati a scrivere le pagine di questa storia.

Certi scritti furono portati alla luce quando la guerra fu terminata e vennero raccolti in vari archivi; alcuni di questi furono ritrovati in luoghi significativi del processo di distruzione degli ebrei d’Europa, come nel ghetto di Varsavia. Qui, infatti, le testimonianze lasciate dagli abitanti del ghetto furono sotterrate in tre diversi punti usando bidoni del latte o casse. Dopo la repressione dell’insurrezione di questo ghetto (nel 1943) tutto fu raso al suolo.

La politica nazista era che non solo gli ebrei dovevano scomparire, ma anche i luoghi dove avevano vissuto.

Gli archivi sono, dunque, formati non solo da manoscritti ma anche da cronache, lettere di bambini, diari dove venivano registrati gli eventi e le notizie che circolavano ma venivano anche annotate le sensazioni e le paure vissute in quei momenti; sono formati anche da libri abbandonati dagli intellettuali morti nel ghetto e da diverso materiale proveniente dall’amministrazione tedesca ed ebraica come ordini, discorsi, corrispondenza e così via.

Molte testimonianze, però, probabilmente giudicate prive di valore furono distrutte e così scomparvero documenti di notevole interesse.

Molti scritti furono ritrovati anche nei campi di concentramento ad esempio nel campo di Auschwitz-Birkenau, nascosti in scavi. Furono ritrovati scritti dei membri del Sonderkommando i quali avevano il compito di cremare i cadaveri ma dei circa trenta scritti sepolti, solo tre furono ritrovati. Altri scritti furono portati nei campi di concentramento sempre dagli internati dei ghetti i quali li conservavano nei loro bagagli. Una volta varcata la soglia dei campi di concentramento, le valigie venivano sepolte per ordine dei nazisti.

La scrittura, dunque, diventa necessaria per lasciare una traccia di questi eventi che sfidano l’immaginazione, eventi nei confronti dei quali le generazioni nate dopo la Shoah rivolsero uno sguardo cieco.

La paura di non essere creduti rinchiuse nel silenzio molte vittime del genocidio: i sopravvissuti si renderanno conto sempre più che sarà difficile raccontare quello che è accaduto nei Lager, ma ancora di più sarà difficile essere creduti, come conferma Lidia Beccaria Rolfi in L’esile filo della memoria, un libro che narra il ritorno dal Lager.

Questa paura di non essere credute è presente anche nelle testimonianze di tre donne sopravvissute ad Auschwitz, raccolte da Daniela Padoan nel suo libro Come una rana d’inverno. Una prima testimonianza è quella di Liliana Segre la quale riprende la paura di non essere credute anche come un aspetto che gravava più sulle donne: il sospetto era quello che si fossero prostituite o che avessero in qualche modo collaborato con i tedeschi per il fatto di essere sopravvissute. La seconda è di Goti Bauer, la quale testimonia che: “(…) le persone non volevano più credere e non volevano più sentir parlare di tristezze, perché anche qui avevano sofferto per la guerra, per i bombardamenti, per le privazioni, per i lutti. Basta, adesso non parliamo più di dispiaceri, bisogna andare incontro a una nuova vita fatta di speranza e di propositi, non parliamo più. La gente non voleva ascoltare e soprattutto non poteva credere. Hanno cominciato a credere quando sono arrivate le cronache dei giornalisti e dei militari che andavano ad aprire i campi e vedevano quello che era rimasto. Ma prima sembrava che raccontassimo cose inventate”. La terza testimonianza è quella di Giuliana Tedeschi la quale documenta alla Padoan che il desiderio di raccontare svaniva perché la gente non voleva ascoltare: nessuno voleva saperne e nessuno chiedeva niente.

Il desiderio di raccontare viene puntualizzato anche dagli uomini sopravvissuti allo sterminio; uno di questi sarà Robert Antelme il quale confermerà nel suo libro La specie umana la necessità di parlare ed essere finalmente ascoltati; anche Primo Levi sottolineerà questa paura, una paura che era un incubo assillante già nei primi giorni del Lager. Tutto quello che stavano vivendo era qualcosa di inimmaginabile.

Nel libro di Soazig Aaron La donna che disse no – un libro che tratta il ritorno da Auschwitz -, viene messa in luce sempre l’incredulità ma nell’ambito familiare; in questa testimonianza si vedrà quanto sia difficile per la cognata e amica di una sopravvissuta, Klara, credere a quello che è successo. Angélika, la cognata, dovrà fare appello a tutta la sua buona volontà per reputare vera l’esperienza di Klara.

I testimoni, quindi, furono messi a tacere per mancanza di ascolto ma alla fine si mosse qualcosa. Con il processo di Eichmann si assistette ad una svolta per quanto riguarda la memoria del genocidio e si ebbe un’ondata di racconti e romanzi.

Inizialmente doveva essere un processo al carnefice, ad Adolf Eichmann e invece prese una rotta diversa: quello che interessava era la testimonianza ed era la prima volta da quando era finita la guerra che il testimone finalmente veniva ascoltato.

Alcuni sopravvissuti, però, per arrivare all’atto della scrittura e per poter testimoniare l’inimmaginabile si dovettero confrontare con la propria interiorità tanto da dover diventare un’altra persona e in più dovettero considerare anche il trascorrere del tempo perché quest’ultimo poteva portare ad un cambiamento della realtà nel ricordo. I testimoni si resero conto che il tempo per testimoniare stava per esaurirsi perché stavano diventando sempre meno, sia perché alcuni erano deceduti, sia perché altri, essendo invecchiati, facevano fatica a raccontare. Il racconto divenne possibile solo quando si spezzò il silenzio ed il merito fu anche dei ragazzi e delle scuole.

Nella produzione di libri che hanno per argomento la persecuzione e lo sterminio degli ebrei, i racconti di donne deportate sono spesso considerati solo marginalmente e spesso le testimonianze delle sopravvissute vennero considerate meno importanti in confronto a quelle lasciate dagli uomini. In molte opere sull’Olocausto scritte da uomini, le donne sono rappresentate come figure indifese e fragili.

Ruth Klüger (sopravvissuta a Theresienstadt, Auschwitz, Grossrosen), nel suo libro Vivere ancora, attesta la consapevolezza dell’essere stata messa a tacere, sia perché donna, sia perché si pensava che le guerre appartenessero ai maschi e anche perché la gente non voleva ricordare l’Olocausto.

Gli studi fatti, dimostrarono che le donne ebree tedesche subirono l’antisemitismo prima dei loro mariti perché nella vita di tutti i giorni assistevano alle difficoltà dei figli subite nell’ambito scolastico e nelle amicizie; le donne, poi, subirono l’indifferenza dei vicini di casa con i quali, prima di tutto questo, ebbero un buon rapporto e si resero conto del tradimento di molte amiche e colleghe.

Oltre all’isolamento sociale, gli ebrei sia donne che uomini, vennero colpiti anche dalla disoccupazione. Le donne ebree, grazie alla loro flessibilità e al fatto che erano più adattabili degli uomini e probabilmente al fatto che sarebbero state meno attaccate dai nazisti, riuscirono a trovare nuove occupazioni e per molte famiglie questo fu l’unico sostentamento. Successivamente le donne furono impiegate come forza lavoro e così si sobbarcarono un gran numero di pesanti obblighi. Le testimonianze delle donne all’interno dei ghetti si riferiscono anche alla fatica del lavoro di fornitura di prodotti per l’utilizzo militare e civile da trasportare in Germania. Qui le donne riuscirono anche ad organizzarsi in reti di gruppi di soccorso per aiutare chi non aveva più niente e per gli ammalati. Nel periodo seguente alla deportazione, le donne non ‘ariane’ dovevano lavorare per squadre speciali e i nazisti sfruttavano queste donne nei lavori più duri.

Molte donne di età diversa, di diversa nazionalità ed estrazione sociale, di diversa religione e scelta politica, però, reagirono diversamente all’universo nazista, alcune con la ribellione, con il sabotaggio, con azioni di contrabbando, altre si impegnarono in azioni altruistiche e altre, invece, si ritirarono in solitudine. Le donne e ragazze che si ribellarono poterono contare sul loro aspetto ‘ariano’ riuscendo a nascondere la propria identità ebraica con maggiore facilità. Una donna quando sceglieva di passare per ‘ariana’ cominciava a vivere come una ‘fuori legge’.

Le donne non agivano sempre da sole ma anche con i colleghi maschi; sovente si pensava che i movimenti di resistenza fossero guidati solo da maschi, ma nella resistenza e nei gruppi nazionali c’erano sia uomini che donne. Raccoglievano notizie militari ed economiche, preparavano film, fotografie da mandare agli alleati, ottenevano informazioni per i notiziari radio britannici ed americani, scrivevano e distribuivano volantini, discorsi ed istruzioni per ogni genere di sabotaggio.

Nelle testimonianze narrate dalle donne sono presenti anche gli aspetti legati alla femminilità e, infatti, sottolineeranno molto spesso nei loro racconti i problemi legati al ciclo mestruale. Nei campi di concentramento le donne si ponevano il problema di come avessero fatto a provvedere in quel momento del mese, dato che non avevano biancheria intima e niente da utilizzare e per di più c’era una mancanza di igiene, di servizi igienici adeguati. Questo era uno dei tanti modi usati per colpire le persone nella loro intimità. Il problema delle mestruazioni però fu presto risolto: le deportate non ebbero il flusso per tutto il periodo in cui vissero nel Lager e si sosteneva che fosse dovuto ad una polverina misteriosa messa nella zuppa, il cibo quotidiano dei deportati. Le donne sottolineano che questa mancanza di mestruazioni le faceva sentire vecchie, in menopausa e destinate ormai alla sterilità: si sentivano mutilate.

Sono interessanti le pagine di L’esile filo della memoria della Beccaria Rolfi quando tratta il suo ritorno alla vita normale: la civiltà è per lei legata alle cose semplici, come può essere la vista della carta igienica e ad abitudini quotidiane, come fare un bagno caldo e avere abiti puliti e profumati.

La femminilità è stata una delle cose più profondamente ferite dall’istituzione del Lager ma, nello stesso tempo, è stata anche un terreno dove si è affinata la capacità di resistenza di molte donne, la capacità di adeguarsi e di continuare la lotta per la sopravvivenza.

Questa lotta per la sopravvivenza, con le relative difficoltà e precarietà, si nota ancora di più nel momento della nascita di bambini nei campi di concentramento e nei ghetti: questo era un evento difficoltoso da portare a termine e soprattutto traumatico poiché in questi luoghi la vita, la nascita si trasformava in morte.

Umiliazioni molto forti riguardanti la sessualità le dovettero subire sia donne che uomini, come l’esposizione pubblica del loro corpo e la rasatura delle parti intime. Le donne dovevano sfilare nude davanti ai soldati in divisa e questi decidevano se dovessero morire oppure no; questo atto era una persecuzione umiliante perché queste donne venivano guardate come dei capi di bestiame.

Nei Lager non si era più padrone neanche del proprio corpo: questo era aggredito, deturpato ed era un dramma essere esposte alla vista degli altri. Il corpo era un involucro scrutato, ispezionato per giustificarne la fine al crematorio.

Sia uomini che donne durante la vita nel campo di concentramento usavano le proprie abilità per procurarsi cibo, procurarsi medicine, abiti consunti e tutto quello che ritenevano necessario per vivere almeno degnamente, usando anche il baratto. Questo aiuto e scambio reciproco favoriva così i rapporti tra gli internati.

Nei Lager le donne si unirono in famiglie sostitutive dopo la perdita dei propri cari. La madre di Ruth Klüger, ad esempio, ad Auschwitz ‘adottò’ una bambina di nome Ditha, la quale era rimasta sola nel Lager. Le disse di unirsi a lei e alla figlia Ruth e da quel momento furono in tre a lottare per la sopravvivenza.

Molte donne sostennero che la loro salvezza fosse dovuta alle amiche trovate nei campi, alle “sorelle di campo” le quali si aiutavano dividendosi la razione di pane, incoraggiandosi a vicenda nell’assistenza alle malattie per evitare il ricovero in infermeria, soccorrendosi nella liberazione dai pidocchi e sostenendosi durante il lungo ed estenuante appello, cercando d’inverno di riscaldarsi stando una vicina all’altra.

La Tedeschi usa anche una bellissima figura che rende l’idea dell’aiuto femminile: “Le donne sono maglie, se una si perde, si perdono tutte.”

Questi rapporti di amicizia tra internati erano visti in modo pericoloso dai nazisti e dunque venivano troncati sul nascere: appena i tedeschi si accorgevano di questa confidenza facevano in modo di dissolvere i gruppi che si erano formati. Essi temevano questa complicità per paura di qualche atto di sabotaggio.

Non tutti gli internati, però, vedevano questi rapporti di amicizia come qualcosa di positivo. Liliana Segre disse che, per lei, queste relazioni non erano diventate essenziali: lei non voleva attaccarsi alle persone perché non avrebbe sopportato un eventuale distacco. Lei preferiva la solitudine: era una solitudine voluta, i suoi sentimenti si erano inariditi sempre più.

Negli scritti, sia femminili che maschili, si ritrova la costante della fame continua che non li abbandonava mai. Ad un pezzo di pane si legava la speranza di continuare a vivere.

Le donne nei loro scritti annotarono di quando nelle baracche, dopo una giornata di lavoro estenuante, ricordavano l’abbondanza di cibo nel periodo precedente la guerra e la preparazione dei pasti: immaginavano di mangiare piatti succulenti e facevano una specie di gara in cui ognuna inventava il pranzo più buono. Si scambiavano anche ricette di piatti gustosi e prelibati ed inviti per un futuro. Questa fame corrodeva lo stomaco, bruciava, era una cosa tremenda e a volte, a causa di questa continua fame, non si riusciva più a tenere un comportamento normale.

Per sfuggire da quello che stavano vivendo e per continuare ad avere una speranza per un futuro, le donne raccontavano la storia della loro famiglia, raccontavano il modo di gestire la loro casa, parlavano del loro passato e discutevano anche di libri, di rappresentazioni teatrali e recitavano anche canzoni e versi di opere conosciute o studiate ai tempi della scuola. Nei loro scritti, infatti, sono presenti punti in cui viene posto l’accento sulla loro passata vita domestica, sulla lotta per il sostentamento della loro famiglia durante i periodi di carenze alimentari e di mezzi a causa della guerra.

Le donne, di fronte a queste atrocità subite, manifestarono un grande coraggio grazie ad una resistenza spirituale e psicologica: le prigioniere nei campi portavano avanti la loro preghiera e per farlo sottraevano materiale dai magazzini dei nazisti da usare nei loro riti religiosi.

Era importante per loro fare progetti per il ritorno, per un futuro migliore.

Le internate, dunque, ricordavano la loro vita culturale: opere, commedie, canzoni, libri letti e lo facevano per tenere allenata la mente a non dimenticare. Cercavano di ricordare anche semplicemente un compito in classe fatto a scuola anni prima, tutto per resistere, per andare contro la vita del Lager, contro i propositi dei nazisti perché loro volevano disumanizzare le persone.

Gli internati non volevano perdere la ragione: è facile perderla per chi viene esposto alla nuda esperienza e la nuda esperienza era, appunto, quella vissuta nei campi di concentramento.

Il mondo dei Lager era studiato nei minimi particolari: era studiata la razione di cibo giornaliera che doveva essere distribuita, la mescolanza di persone diverse per creare scompiglio e per far sì che l’antisemitismo arrivasse anche nel campo. Era studiata anche la mancanza di logica che aleggiava nei campi e la vista continua della fiamma del crematorio: questa visione era un terrore che scuoteva nell’animo. La paura, l’ossessione del crematorio e l’odore di carne bruciata che si attaccava addosso rimarranno per tutta la vita nella testa delle persone che vissero questa esperienza.

 

Una testimonianza ce l’ha lasciata anche Etty Hillesum, una giovane donna ebrea che si è trovata a vivere all’età di ventisette anni l’orrore della Shoah.

Etty Hillesum ci ha lasciato come testimonianza della sua breve vita il Diario relativo al periodo dal marzo 1941 all’ottobre del 1942 e le Lettere.

Nel Diario la Hillesum registra la sua evoluzione umana e spirituale scoprendo Dio dentro di sé e iniziò un dialogo intimo con Lui; arriverà ad un punto della sua crescita spirituale in cui Dio e la preghiera saranno due capisaldi della sua maturazione ed imparerà a pregare e ad inginocchiarsi. Come sfondo a questa crescita ci sono le vicende della seconda guerra mondiale e della Shoah.

Le Lettere sono invece scritte agli amici, una testimonianza diretta della stessa Etty della deportazione degli ebrei nel campo di smistamento di Westerbork. Etty sentirà il desiderio di ospitare dentro di sé i problemi degli uomini e concepisce la sua esistenza come un aiuto nei confronti dei bisognosi e, così, deciderà di andare a Westerbork per dare un aiuto concreto agli internati. Deciderà di non sottrarsi al proprio destino e così andrà spontaneamente in questo campo di internamento e anche in questo luogo continuerà ad amare la vita e vivrà ogni momento nella sua pienezza.

Il Diario e le Lettere sono una testimonianza di ‘resistenza esistenziale’ al nazismo.

Il suo Diario e le sue Lettere ci dimostrano, inoltre, la sua capacità di scrivere: capacità poetica che si rileva anche nella registrazione del quotidiano e documentano anche la ricerca difficoltosa del trovare le parole giuste in grado di esprimere l’orrore del nazismo, orrore che supera ogni immaginazione. La sua esigenza è di trovare una lingua nuova che non sappia solo ridurla a semplice cronista dei suoi tempi: lei è anche una testimone che vuole portare avanti qualcosa con la sua scrittura. E’ una testimone e conosce il suo ruolo, il ruolo fondamentale che ha per il futuro. Sente l’urgenza, la necessità, il bisogno di lasciare una sua traccia attraverso la scrittura: una traccia delle sue emozioni, riflessioni, del suo modo di vivere in quelle condizioni pietose causate dalle persecuzioni naziste, infatti, il suo grande desiderio era quello di diventare scrittrice, ma il suo desiderio venne spezzato dalla sua prematura morte nel campo di concentramento di Auschwitz. Era consapevole del valore, della capacità poetica che aveva in sé.

Il suo compito è arduo: lei deve trovare le parole giuste, non solo più parole come forma di arte, ma parole con un senso, un senso profondo che sappiano descrivere l’orrore, l’angoscia, la disperazione del momento sia proprio, sia quello di tutti gli internati nei campi di concentramento. A lei urge lasciare una testimonianza scritta e questa sua intenzione non diminuisce: si affievolisce, Etty cadrà, si sentirà debole ma poi riprenderà in mano le redini della sua vita, si rialzerà e ricomincerà.

Nelle Lettere descrive minuziosamente la vita del campo, il campo stesso e le sue baracche, anche se nella descrizione di questo, sembra che faccia una selezione di quello che scrive. Alcuni elementi presenti in altre testimonianze sono però presenti anche nei suoi scritti come per esempio: il sovraffollamento del campo, delle baracche, l’esistenza di un ospedale, le condizioni igieniche orribili, l’intimità perduta, il fango, la paura sempre presente per la deportazione, le separazioni tra madri e figli…

Etty si sofferma anche sui sentimenti, le emozioni, le reazioni della gente; per lei, infatti, quello che conta nella vita non sono i fatti ma conta solo ciò che grazie ai fatti si diventa.

La sua particolarità è che lei scrive da una situazione di confine cioè da una situazione drammatica dove sta con occhio, cuore e mente uniti tra loro e dove man mano aumenta anche la capacità di vivere, anche se aumentano i dolori: anche se è sulla soglia lei dichiara amore per la vita. A Westerbork il libro che ha davanti a sé è un libro vivente, che bisogna capire e tradurre e qui affronta la dura prova della scrittura

Chiede a Dio un aiuto: il dono di saper scrivere per poi essere in grado di narrare la sventura e la bellezza di Westerbork, le due singolarità che ha questo luogo.

La prova più dura sarà la sua esperienza a Westerbork: dovrà decifrare e tradurre questa esperienza per la gente che non la stava vivendo. Durante la giornata tra mille impegni e malanni fisici e anche di sera, pur essendo stremata, cercava un angolo nascosto del campo per poter continuare a scrivere le proprie memorie e per lasciare la sua testimonianza.

Questa è l’ansia dei sopravvissuti presente nelle loro testimonianze.