diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 5 - 2006

Filosofe

Etty Hillesum: la cura nel vivere

  1. Una verità che trasforma la vita

 

Come la confessione, definita da Maria Zambrano “un’azione, l’azione massima che è dato attuare con la parola”,[1] così anche il diario esercita un’azione trasformatrice su chi lo legge; invita il lettore a compiere un percorso analogo a quello di chi l’ha scritto: un percorso simile, ma anche inevitabilmente diverso, perché segnato dalla propria singolarità.

Quest’azione trasformatrice su chi legge è particolarmente evidente in un diario come quello di Etty Hillesum, in cui l’autrice ci rivela l’evoluzione della sua vita interiore e il cammino della sua spiritualità, facendoci dono di sé. Per questo motivo, io ho iniziato il mio libro su Etty Hillesum in modo inconsueto, ringraziando per il dono che il suo diario ha rappresentato per me, come per molti altri lettrici e lettori.[2] Un dono crea uno squilibrio fecondo; accoglierlo significa rendersi disponibili a modificare se stessi, ma secondo un modello “solamente analogico”: “è il mio essere simile, ma mai uguale a quello di un altro”.[3]

Etty, nello scrivere il Diario, parte sempre da sé, mette in gioco la propria singolarità nella lettura di fatti, eventi, situazioni: nella Hillesum c’è la convinzione che occorra partire da sé e dalla proprie relazioni per cambiare il mondo. La strategia esistenziale della Hillesum, la quale rifiuta sia la militanza politica nelle file della resistenza antinazista sia il ripiegamento narcisistico come fuga dalla realtà, punta sulla modificazione di sé e delle proprie relazioni per incidere sul contesto in cui vive e, contemporaneamente, sulla messa in parole della propria esperienza nella scrittura, affinché, a partire dai terribibili avvenimenti della Shoah, lei possa ricavare e trasmettere un senso, una denuncia, una testimonianza.

Mettendo in gioco se stessa nella scrittura, Etty invita chiunque la legga a partire dalla propria singolarità, dall’unicità dei propri vissuti. C’è un elemento in particolare, nella scrittura di Etty Hillesum, che lascia vuoto uno spazio in cui ciascuno è rimandato alla propria singolarità: si tratta del silenzio interiore, che in Etty prende il nome di Dio. Proprio questo silenzio, questa capacità di ascolto nel cuore della scrittura, invita ciascuno ad ascoltare la parte più profonda di sé. Dio si rivolge a ciascuno singolarmente: è la categoria della singolarità, come ha giustamente sottolineato Kierkegaard, quella che è chiamata in causa nella relazione con Dio.

Questo spazio vuoto, questo punto di silenzio, si precisa in Etty come luogo di relazione: “Hineinhorchen, vorrei trovare una buona traduzione olandese di questa parola. In fondo, la mia vita è un ininterrotto ascoltar dentro me stessa, gli altri, Dio. E quando dico che ascolto dentro, in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più essenziale e profonda di me che ascolta la parte più essenziale e profonda dell’altro. Dio a Dio”.[4]  Avendo preservato il silenzio come spazio di ascolto e di relazione con l’Altro – Dio -, Etty fa sì che la sua scrittura lasci spazio al differire di ogni singolarità.

 

  1. Lontana e vicina

 

C’è un gioco fra distanza e prossimità nell’accostarsi a Etty Hillesum, alla sua scrittura: c’è la distanza data dalla relazione fra singolarità irriducibili, e c’è la prossimità dovuta a qualcosa che le accomuna. Per me, donna, la vicinanza con Etty è sensibile soprattutto nella comune appartenenza alla differenza femminile. In Etty Hillesum, si coglie bene, in alcuni punti cruciali, il suono della differenza femminile: sento una vicinanza e una profonda sintonia con lei, ad esempio, nel suo tenere insieme sessualità e spiritualità, a differenza di quanto accade negli itinerari ascetici, che sono per lo più maschili. Mentre, per un uomo, la rinuncia ad una sessualità vissuta come schiavitù della carne sembra essere una tappa obbligata nel percorso verso Dio, invece per una donna, il cui erotismo implica un coinvolgimento di corpo e spirito insieme, non è necessariamente così.[5]

Mentre sento una prossimità con Etty Hillesum nel comune radicamento nella differenza femminile, per altri versi invece sono costretta a constatare la distanza che mi separa da lei: entra allora in gioco la relazione fra singolarità irriducibili, la mia analoga alla sua, ma anche inevitabilmente diversa.

Mi sembra opportuno, in altri termini, richiamare l’attenzione sulla necessità di non prendere Etty Hillesum come un “modello” di esistenza femminile, ma di leggerla conservando il senso della propria singolarità, nell’incontro con la sua singolarità irripetibile.

Il tema che, più di altri, mi fa sentire Etty Hillesum, al tempo stesso, lontana e vicina, è il suo rifiuto dell’odio: la pratica di non violenza radicale di Etty mi costringe a misurare la grande distanza che mi separa da lei, da una posizione che, da questo punto di vista, non esiterei a definire, con Hèléne Cixous, di “santità”;[6] a me accade talvolta di odiare visceralmente, e per motivi molto più futili di quelli, serissimi, che aveva Etty.  Ma poi ritrovo di nuovo Etty, e la sento vicina nel suo invito a partire dal “proprio marciume”[7] se si vuole che qualcosa cambi, oppure nella scelta di opporre “a ogni crimine e orrore un pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi”:[8] c’è qui una straordinaria intuizione, la consapevolezza che non serve a niente fissarsi sull’odio, sia pure per estirparlo, ma che è meglio puntare su quel po’ di capacità di amare che si riesce a a salvare in se stessi, per evitare che l’odio avveleni tutto.

Ho mostrato qui, in relazione al tema dell’odio, un andirivieni fra alterità e somiglianza, fra distanza e prossimità. Un percorso analogo, dall’identificazione alla presa di distanza, Etty stessa lo ha praticato nelle sue relazioni più significative: con Julius Spier – il maestro, il terapeuta, l’amante – e con l’autore più amato, Rainer Maria Rilke.

Con Spier, Etty passa dall’assimilazione amorosa della sua personalità e dei suoi insegnamenti all’elaborazione della relazione con l’altro nel silenzio interiore. Inzialmente, Etty si assimila a Spier, soggiace alla tentazione di possederlo o di esserne posseduta. Registra la propria possessività nei suoi confronti,[9] ma io credo che la sua differenza femminile si riveli piuttosto nella tentazione di essere posseduta, di assimilarsi amorosamente all’altro, in un’appropriazione amorosa e vorace al tempo stesso. Successivamente, con fatica, l’assimilazione lascia il posto ad una presa di distanza, all’elaborazione della relazione con l’altro nello spazio interiore: “Il desiderio insensato e appassionato di ‘perdermi’ per lui s’è già calmato da tempo, è diventato ‘ragionevole’. ‘Perdermi’ per una persona è sparire dalla mia vita; forse mi è rimasto il desiderio di ‘perdermi’ per Dio, o per una poesia”.[10]

Nella relazione con Spier, Etty fa dello scacco del suo sogno d’amore, dell’impossibilità di possederlo in esclusiva – lui ha una fidanzata che lo aspetta a Londra -, l’occasione di un passaggio ad un livello più alto.[11] Viene faticosamente a capo della possessività e della dipendenza nei suoi confronti, e sceglie di continuare da sola quel lavoro di aiuto e di ascolto degli altri che avevano iniziato insieme: “E proprio il fatto di dover percorrere la mia strada da sola mi fa sentire così forte. Nutrita di ora in ora dell’amore che provo per lui, e per gli altri. Infinite coppie si formano all’ultimo momento, per disperazione. Preferisco esser sola e per tutti”.[12]

Questo percorso di decantazione della relazione con l’altro nel proprio spazio interiore – un percorso che va dall’assimilazione amorosa alla presa di distanza – ci dice già qualcosa dell’arte dell’esistenza in Etty Hillesum. E’ un’arte che ha il suo culmine nella sua capacità di coltivare il silenzio interiore – la “cella della preghiera”[13] – come luogo riparato e protetto per il colloquio con Dio: è da questo luogo riparato che Etty attinge forza per affrontare la dura realtà che si trova a vivere; è questo punto di silenzio che le fa guadagnare una distanza prospettica rispetto all’immersione totale nella vita tale da permetterle di continuare a dare senso agli eventi, senza lasciarli sprofondare nell’insensatezza.

 

  1. L’arte dell’esistenza

 

Secondo Kierkegaard, “la donna ha soprattutto un (…) talento innato, una dote originaria: un assoluto virtuosismo per dar senso al finito“.[14] Questa dote, sicuramente Etty l’ha avuta: ma, nel suo caso, la capacità di dare senso al finito deriva precisamente dall’apertura all’infinito, dal custodire il silenzio interiore, dall’ospitare Dio dentro di sé.

Potremmo anche parlare, nel caso di Etty Hillesum, di una “competenza dell’esserci”,[15] che viene messa in gioco nel suo continuo andirivieni fra vita e scrittura, silenzio e parola, relazioni con gli altri e solitudine: è una competenza dell’esserci – dell’esser-qui, ma anche in relazione con altro, non riducibile al qui e ora – quella di cui Etty dà prova, ed è anche questo che ce la rende così preziosa.

Per mettere a fuoco la cura nel vivere di cui il suo diario ci rende testimonianza, vorrei partire da un’intuizione, che Etty espone , ma che dice di non riuscire ancora a spiegare, secondo la quale la vita, nei suoi aspetti contraddittori, alcuni dolorosi altri felici, forma un unico grande insieme, un tutto indivisibile: “La vita e la morte, il dolore e la gioia, le vesciche ai piedi estenuati dal camminare e il gelsomino dietro la casa, le persecuzioni, le innumerevoli atrocità, tutto, tutto è in me come un unico, potente insieme e come tale lo accetto e comincio a capirlo sempre meglio – così, per me stessa, senza riuscire ancora a spiegarlo agli altri”.[16]

In questo passo, risalta l’assenza di gerarchia fra “cose”  di natura del tutto eterogenea: c’è uno stare accanto le une alle altre di “cose”, alcune drammatiche altre felici, senza alcuna preoccupazione per il proprio io (vesciche ai piedi, persecuzioni, atrocità). Queste ultime, le ferite che  toccano Etty personalmente, non sono tolte, ma scivolano via, confluiscono nel tutto, perché lei non si fissa sulla sofferenza e sull’umiliazione che potrebbe derivarne, come non si aggrappa alle “cose”  che suggeriscono un abitare gioioso nell’essere (vita, gioia, gelsomino fiorito). Etty ribadisce infatti, in un altro passo del diario, che nessun dolore, per pesante che esso sia, può occludere interamente il nostro orizzonte: “Non ci dovrebbe mai lasciar paralizzare da una cosa sola, per grave che essa sia, la gran corrente della vita deve continuare a scorrere”.[17]

Ho volutamente separato, nella mia analisi, le “cose” negative da quelle positive, che, nel passo di Etty citato prima, sono nominate insieme, per fare risaltare meglio, per contrasto, la prospettiva priva di gerarchia e di giudizio di valore dell’autrice: traspare un punto di vista impersonale, la rinuncia agli attaccamenti dell’io. Si può parlare in questo senso, io credo, di morte dell’io, un traguardo che viene in effetti preannunciato e auspicato nel diario: “Questo io tanto ristretto, coi suoi desideri che cercano solo la loro limitata soddisfazione, va strappato via, va spento”.[18]  In passi come quello riportato sopra, sembra proprio che Etty sia giunta davvero all’impersonale, che abbia realizzato in sé una morte dell’io.

Fra le “cose” che Etty nomina, ce n’è tuttavia una che, a differenza delle altre, indica il permanere di un momento d’essere oltre la sua sparizione: si tratta del gelsomino fiorito. Qualche tempo dopo, Etty nomina infatti di nuovo il gelsomino, e lo sente fiorire dentro di sé quando esso è già sfiorito, quando i suoi fiori sono già sprofondati nelle pozzanghere melmose: “Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle tempeste di questi ultimi giorni, i suoi fiori bianchi galleggiano qua e là sulle pozzanghere scure e melmose che si sono formate sul tetto basso del garage. Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre, e spande il suo profumo tutt’intorno alla tua casa, mio Dio”.[19] Il gelsomino allude poeticamente a un momento d’essere che persecuzioni e atrocità non possono cancellare: il gelsomino sta accanto a tutto il resto, senza attenuarne il peso, ma suggerendo che, al di là delle persecuzioni e delle atrocità, c’è altro, c’è la carezza misericordiosa del bello. Proprio nell’ora della sventura, Etty avverte più acutamente e dolorosamente la preziosità delle cose belle, che le sono tanto più care  quanto più sono esposte al rischio di distruzione.

Una competenza dell’esserci negli scritti della Hillesum affiora chiaramente nel passo in cui lei afferma che ha il dovere di “vivere nel modo migliore e con la massima convinzione, sino all’ultimo respiro: allora il mio successore non dovrà più ricominciare tutto da capo, e con tanta fatica”.[20]  Occorre prestare particolare attenzione all’espressione “vivere nel modo migliore”: Etty ci parla della sua cura nel vivere, ed è proprio questa cura ciò che lei vuole lasciare in eredità a chi verrà dopo. Io vedo qui una peculiare capacità femminile di dare senso al finito, di praticare l’arte dell’esistenza. E’ stata Carla Lonzi, un’autrice consapevolmente radicata nella differenza femminile, a sottolineare la “cura con cui ha vissuto”,[21]  contrapponendola alla preoccupazione maschile di realizzarsi in un prodotto, in un’opera. La “cura nel vivere” – precisa Carla Lonzi – è fatta di gesti disegnati nell’aria,[22] di ascolto di sé, per non perdere il filo di se stesse, di attenzione a realtà discordanti, di cura delle relazioni. Tutti questi sono gesti tracciati nell’aria, che non sembrano lasciare traccia e che non si cristallizzano in un prodotto: ma nella Hillesum, come nella Lonzi, c’è un lavoro di scrittura che li salva dall’oblio e dalla sparizione e che li destina ad un ordine simbolico.

Numerose sono le annotazioni della Hillesum che sottolineano questa “cura nel vivere”: Etty parla ad esempio del lavoro psicologico su di sé, che, ad un certo punto, quando le circostanze riducono drasticamente la sua possibilità di scrivere, viene concepito come un “lavoro artistico” con il “materiale della sua psiche”.[23] In questo caso, non sono più al centro un prodotto o un’opera – l’opera artistica di cui Etty coltivava l’ambizione -, ma la cura che lei ci mette nel vivere, l’arte dell’esistenza, la competenza dell’esserci.

Di un registro analogo, è la consapevolezza che le pratiche quotidiane, come rammendare una calza, sono importanti perché, mettendo ordine nel corpo, fanno ordine anche nello spirito: “L’ordine gerarchico all’interno della mia vita è un po’ cambiato. ‘Una volta’ preferivo cominciare a stomaco vuoto con Dostoevskij o con Hegel, e a tempo perso, quand’ero nervosa, mi capitava anche di rammendare una calza, se proprio non si poteva fare altrimenti. Ora comincio con la calza, nel senso più letterale della parola, e poi pian piano, passando attraverso le altre incombenze quotidiane, salgo verso la cima, dove ritrovo i poeti e i pensatori”.[24] Con affermazioni di questo tipo, Etty salva le attività femminili più comuni dall’insignificanza e dalla scoraggiante ripetitività a cui spesso le associamo, e ci mette sotto gli occhi un pensiero, il suo, che non perde mai di vista il concreto radicamento nell’esserci per mirare alla sublimità dello spirito, a differenza di quanto spesso accade a pensatori uomini: le pratiche femminili quotidiane, anziché essere un ingombro, possono aiutare  a dare al pensiero una qualità diversa, una concretezza femminile, un radicamento nel corpo, un senso del ritmo. Etty suggerisce inoltre che la ripetizione e il ricominciamento, che caratterizzano queste pratiche quotidiane, ci insegnano qualcosa sull’arte dell’esistenza: ogni giornata domanda infatti di ricominciare a vivere, e implica elementi sia di ripetizione sia di innovazione.

La competenza dell’esserci nella Hillesum diventa via via più importante con l’aggravarsi delle persecuzioni contro gli ebrei: il passo in cui lei afferma che deve vivere nel modo migliore, affinché chi viene dopo di lei non debba ricominciare tutto da capo, viene scritto quando Etty è costretta a integrare nel proprio orizzonte “questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento”.[25] Man mano che le circostanze le tolgono la possibilità di diventare una scrittrice, come lei avrebbe desiderato, per lei al centro ci sono sempre di più il modo in cui vive ogni giornata (le serate musicali, le amicizie), le relazioni, il lavoro “artistico” su di sé, con il materiale della sua psiche. Man mano che si precisa il suo intento di “esserci al cento per cento”,[26] viene in primo piano la sua cura nel vivere.

Tuttavia, quest’ultima non è mai disgiunta, anzi si accompagna sempre al lavoro per dare senso all’esserci, rilanciato quotidianamente nel diario. Avere cura nel vivere non vuol dire per Etty sacrificare la scrittura: la pratica di scrittura del diario è parte integrante dell’arte dell’esistenza di Etty Hillesum, perché la scrittura le serve innanzitutto per fare ordine dentro di sé e per riuscire ad andare avanti. Vita e scrittura si mantengono in una sinergia strettissima: vengono a cadere così sia l’idea secondo cui scrivere, occuparsi di letteratura non sarebbe vivere, perché la vita sarebbe altrove, sia la convinzione che vivere fino in fondo escluderebbe la possibilità di “materializzare qualcosa della propria ricchezza d’immagini”.[27] Sono molto forti le espressioni che, nel diario, smantellano questa contrapposizione tradizionale fra vita e scrittura: ad esempio, Etty osserva che una poesia di Rilke è “altrettanto reale e importante di un ragazzo che cade dall’aeroplano”;[28] e, sul versante opposto, sottolinea come Dostoevskij, prima di diventare un grande romanziere, avesse passato “quattro anni di galera in Siberia con la Bibbia come sua unica lettura”.[29] Con la prima di queste affermazioni, Etty sostiene che letteratura è reale quanto la vita; con la seconda, sottolinea il primato dell’esperienza vissuta nella formazione di uno scrittore: come si conciliano fra loro queste due affermazioni, apparentemente contraddittorie ?

Un analogo accostamento di esigenze, a prima vista in contrasto l’una con l’altra, lo troviamo in un passo in cui Etty  afferma che occorre rinunciare alle idee stereotipate su questa vita e mettersi di fronte ad essa senza concezioni che ne pregiudichino la lettura, e, al tempo stesso, dichiara di voler leggere tutto Rilke prima che le diventi impossibile farlo (si avvicina l’esperienza di Westerbork): “La maggior parte delle persone ha nella propria testa delle idee stereotipate su questa vita, dobbiamo nel nostro intimo liberarci di tutto, di ogni idea esistente, parola d’ordine, sicurezza; dobbiamo avere il coraggio di abbandonare tutto, ogni norma e appiglio convenzionale, dobbiamo osare il gran salto nel cosmo, e allora, allora sì che la vita diventa infinitamente ricca e abbondante, anche nei suoi più profondi dolori. Vorrei poter aver letto tutto Rilke, prima che arrivi il giorno in cui forse non potrò più leggere, per molto tempo”.[30]

Qui coesistono due esigenze apparentemente contraddittorie: da un lato, quella di liberarsi di ogni idea e conoscenza precedente per mettersi di fronte alla vita nella sua nudità, dall’altra quella di rileggere ancora una volta l’autore più amato, Rilke.  Ma la contraddizione si scioglie se comprendiamo che Etty ci insegna che le esperienze di vita e anche la sofferenza possono farci maturare in modo diverso e più profondo di tanti libri, e, al tempo stesso, che la cultura che abbiamo non è nulla se non non diventa strumento di lettura della nostra esperienza vivente. Siamo portati a pensare, secondo una contrapposizione tradizionalmente maschile fra scrivere ed essere,[31] che le esperienze di vita, magari dolorose, che facciamo, ci sottraggano energie e tempo rispetto al lavoro intellettuale. Etty ci insegna a pensare che non è così, e, al tempo stesso, ci fa capire che la nostra cultura e la nostra vita interiore “hanno valore soltanto a condizione che possano essere proseguiti in qualsiasi circostanza (…). Altrimenti, sono solo ‘belle lettere’”.[32]

Nell’affermare la coesistenza del dolore, delle crudeltà, degli orrori e delle vesciche ai piedi con la l’amore per la vita, con la gioia  e con il gelsomino fiorito in un unico grande insieme, Etty Hillesum ci parla di un’arte dell’esistenza che lei ha appreso in circostanze tanto difficili, ma che vale anche in tempi meno duri, come i nostri: fa parte dell’arte dell’esistenza saper godere di quello che c’è, sapendo che è un dono e che può anche esserci tolto. Al centro della sua cura dell’esistenza  e del compito di darle senso, Etty ha saputo preservare del vuoto, del silenzio – “Dio” – affinché, nell’esserci, si aprisse un varco attraverso cui questo dono potesse essere accolto.

 

 

 

[1] MARIA  ZAMBRANO, La confessione  come genere  letterario  , tr. it. di Eliana Nobili, introduzione di Carlo Ferrucci, Bruno Mondadori, Milano 1997, p. 45.

 

[2] Cfr. il mio Etty Hillesum. L’intelligenza del cuore, Messaggero, Padova  2002, pp. 5-6.

 

[3] ZAMBRANO, La confessione  come genere  letterario , cit., p. 45.

 

[4] ETTY HILLESUM, Diario 1941-1943, a cura di Jan G. Gaarlandt, tr. it. di Chiara Passanti, Adelphi, Milano  1982, pp. 201-202.

 

[5] C’è un momento in cui la Hillesum si discosta dal cammino tracciato da Spier: mentre Spier, ad un certo punto della loro relazione, sembra avviarsi sulla strada dell’ascesi e votarsi, per un lungo periodo, alla castità, Etty Hillesum vuole invece tenere insieme spiritualità e sessualità, ascolta le richieste del corpo, fa crescere e maturare il desiderio dentro di sé, discostandosi in ciò dalla strada indicatale da Spier, quella della lotta contro le proprie inclinazioni, e, alla fine, il suo desiderio ha la meglio sui propositi ascetici di lui. In questo episodio, mentre Spier tende verso il cielo, secondo un modello ascetico tradizionale, Etty Hillesum vuole tenere insieme cielo e terra, in modo più conforme alla propria differenza femminile: è lei stessa infatti ad osservare che, per una donna, il corpo non è altro che l’espressione dell’anima, mentre per l’uomo un contatto fisico può essere solo un gioco sensuale. (Cfr. ETTY HILLESUM, Etty. De nagelaten geschriften van Etty Hillesum 1941-1943, a cura di K. A. D. Smelik, Uitgeverij Balans, Amsterdam 1986, pp. 316-317). Su questo tema, cfr. il mio  Etty Hillesum. L’intelligenza del cuore,  cit., p. 22, e DENISE DE COSTA, Anne Frank and Etty Hillesum. Inscribing Spirituality and Sexuality, Rutgers University Press, New Brunswick, New Jersey and London 1998, pp. 7 ss.

 

[6]  Cfr. HÉLÈNE CIXOUS, Writing Differences. Reading from the Seminar of Hélène Cixous, Open University Press, Milton Keynes 1988, p. 150.

 

[7] Cfr. HILLESUM, Diario, cit. , p. 99.

 

[8] ETTY HILLESUM, Lettere 1942-1943, prefazione di Jan G. Gaarlandt, tr. it. di Chiara Passanti, Adelphi, Milano 1990, 87.

 

[9] Cfr. HILLESUM, Diario, cit. ,p. 34: “Lo volevo ‘possedere’”.

 

[10] Ivi , p. 89.

 

[11] Su questo, cfr. GEMMA BERETTA, Etty Hillesum: la forza disarmata dell’autorità, “Alfazeta”, La  resistenza  esistenziale di Etty Hillesum, 60, VI (1996), n. 10-11, pp. 48-53.

 

[12] HILLESUM, Diario, cit. , p. 191.

 

[13] Cfr. ivi, p. 111.

 

[14] SÖREN KIERKEGAARD, Aut-Aut, tr. it. di K. M. Guldbrandsen e Remo Cantoni, introduzione di Remo Cantoni, Mondadori, Milano 1989, p. 191.

 

[15] Sulla competenza femminile  dell’esserci, cfr.  INA  PRAETORIUS, La filosofia  del saper esserci. Per una politica del simbolico,  tr. it. di Traudel Sattler, “via Dogana”, n. 60, 2002, pp. 3-7.

 

[16] HILLESUM, Diario, cit. , pp. 138-139.

 

[17] Ivi, p. 83.

 

[18] Ivi, p. 122.

 

[19] Ivi, p. 170.

 

[20] Ivi, p. 139.

 

[21] CARLA LONZI, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Rivolta  femminile, Milano  1978, p. 63.

 

[22] Cfr. ivi, p. 763 e p. 767.

 

[23] Cfr. HILLESUM, Etty. De nagelaten geschriften van Etty Hillesum, cit., p.  496.

 

[24] HILLESUM, Diario, cit. , p. 32.

 

[25] Ivi, p. 138.

 

[26] Ivi, p. 222.

 

[27] Ivi, p. 205.

 

[28] Ivi, p. 57.

 

[29] Ivi, p. 177.

 

[30] Ivi, pp. 158-159.

 

[31] Come sottolinea Chiara Zamboni, in Etty “il silenzio non segnala un distacco dalla vita, come in molte concezioni sullo scrivere nella tradizione maschile, ma un resto, che lei chiama ‘Dio’, interno all’esperienza stessa della vita” . (CHIARA ZAMBONI, Etty Hillesum. Quello che resta della vita, “Via Dogana”, n. 48, 2000, p. 12).

 

[32] HILLESUM, Diario, cit. , p. 118.