diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 8 - 2009

Visioni

Eteronimi

 

La ricerca di una nuova identità ha spesso avuto inizio da una situazione problematica iniziale, come la difficoltà di accettazione del proprio io, da una necessità vitale di trovare una via d’uscita dalla crisi con la propria vecchia identità, spesso vissuta come castrante e limitante.

Questo non è di certo lo scenario scatenante il progetto di Marga Ximenez.

L’esperienza degli eteronimi nasce come la necessità circostanziale di una gallerista che si trova a dover inaugurare una mostra internazionale tessile senza essere pienamente soddisfatta delle opere presenti.

Non è quindi un’esperienza che fa parte del percorso artistico o di qualche ricerca estetica quanto piuttosto un gioco, un esercizio di stile per porre rimedio alla mancanza di opere concettuali nella mostra.

Quindi l’unico elemento scatenante è quello della sovrapposizione di due ruoli, quello dell’artista con quello della gallerista.

Ne consegue che quell’anno la mostra internazionale tessile di piccolo formato ospitò una sezione di artisti invitati, ben venti artisti realizzati in poco più di quindici giorni; ovviamente le opere erano prettamente concettuali e quindi non avevano avuto bisogno di una grande elaborazione tecnica.

Come a volte accade, ciò che nasce per caso o per accidente spesso apre le porte all’imprevisto, e ciò che Marga sicuramente non si aspettava era che quel gioco di stile potesse risultare così divertente e liberatorio.

Nel processo creativo non dovendo firmare le opere con il proprio nome la sofferenza dell’artista scompariva.

Sofferenza generata dal timore dell’attesa dello spettatore, dall’ansia da prestazione legata al desiderio costante di superare il lavoro precedente; sofferenza legata alla paura della paralisi, all’incapacità di avanzare, al pericolo di essere considerate obsolete.

L’essere risolta ed affermata come artista probabilmente permise a Marga Ximenez di vivere l’esperienza degli eteronimi in tutta la sua potenzialità di apertura, di ampliamento della propria soggettività; di coglierla come un’occasione di rilancio e di crescita, di esplorazione di nuovi modi di espressione del proprio sé.

Questa scoperta portò l’artista da un’esperienza del tutto circostanziale all’idea di farne un progetto artistico, progetto che l’ha accompagnata negli ultimi dieci anni.

 

Quando conobbi Marga gli eteronimi avevano già preso vita ed erano in parte esposti nella cucina della sua galleria, l’ MX ESPAI.

L’incontro con l’opera di Sergio Galán rimarrà per sempre nella mia memoria come un momento iniziatico in quel tortuoso e stupefacente percorso che è quello della moltiplicazione dell’identità.

Quell’artista rappresentava in quel periodo della mia vita l’occasione di riflettere sul lungo percorso filosofico e politico che sino a quel momento mi aveva guidata nel mondo dell’arte e della vita. Percorso che partiva dal presupposto che l’arte non possa essere neutra e che l’opera sia semplicemente un oggetto relazionale che indica come una mano la propria matrice, il corpo che l’ha prodotta; corpo in primis segnato dalla differenza sessuale e dalle relazioni che lo attraversano.

Più osservavo La biblioteca de mi madre di Sergio Galán più mi chiedevo come potesse essere stata fatta da un uomo; ricordo che chiesi svariate volte a Marga informazioni su quell’artista, un recapito, tracce della sua biografia.

Volevo conoscerlo, volevo poter intervistarlo perché mi aveva profondamente colpita la sua capacità di leggere l’universo femminile e raccontare attraverso le proprie opere il legame con la madre e la sua ombra, come a mio avviso solo una figlia avrebbe potuto fare.

Dopo pochi mesi Marga mi rivelò che Sergio Galán non era mai esistito e che era un suo eteronimo, come Pia Remedios e Yukimaro.

La notizia mi fece sorridere, finalmente i tasselli si ricomponevano e io ripensavo al mio stupore in quell’incontro, alla sottile ironia di un gioco di cui ormai anch’io facevo parte però, essendomi stato rivelato, la mia parte diventava consapevole ed interessante materia di studio e ricerca.

La rivelazione di Marga fu quindi un grande dono di fiducia che mi permise svariate speculazioni in campo estetico che altrimenti senza quella consapevolezza non mi sarebbero state possibili.

 

Come scrivevo precedentemente quando conobbi Marga gli eteronimi già  esistevano, potrei definire la prima fase di questo processo come quella di una profonda creatività produttiva, il gioco della moltiplicazione delle identità dava costantemente nuovi stimoli all’artista catalana, il desiderio di sperimentare nuove tecniche espressive, nuovi materiali e soprattutto nuove identità, dava quasi la vertigine di un’esperienza artistica in cui tutto appariva possibile.

Marga Ximenez era stata, sino ad allora, una scultrice piena di esperienza legata da un profondo amore per  l’arte tessile, ma ad esempio nei panni di Yukimaro poteva diventare una giovane artista giapponese che lavorava con materiali di recupero, principalmente carta e cartone, creando degli enormi gusci contenenti la propria immagine.

Ogni eteronimo si legava profondamente all’idea della procreazione, alla capacità di una donna di dare alla luce nuove, infinite, altre vite possibili.

La creazione di “un altro” si raddoppiava nella sperimentazione estetica perché “l’altro” a sua volta si faceva creatore di nuove opere.

Gli “altri” raddoppiavano a vista d’occhio perché, tolto il pudore iniziale, la paura di lasciare da parte la linea di lavoro tenuta sino ad allora, l’atto di lasciar libera la propria creatività apriva finalmente le porte alla pluralità delle identità che ci sono da sempre appartenute in potenza.

Le riflessioni di Marga in questa fase vertevano su quanto la società agisse ed agisca su ognuno di noi, quello che Foucault chiama potere biopolitico, un forte controllo sulla costruzione identitaria, sui nostri corpi, sulla costruzione di un “uno”, sulle pressioni di coerenza ed interezza.

Grazie alla sua esperienza anche Platone si sgretola sotto il fascino della molteplicità, di un movimento di trascendenza che dilata il soggetto nella forma, nel tempo e nello spazio.

Soggetto che elude ogni forma di controllo grazie al suo continuo fluire.

 

E così mentre trascorrevano gli anni assistevo a mostre di artisti provenienti da ogni parte del mondo ma che paradossalmente non avevano mai messo piede in questo mondo.

Mentre conservavo il segreto gli pseudonimi aumentavano ed era sempre un’esperienza unica nel suo genere partecipare alle inaugurazioni con Marga sapendo che, l’unica artista presente in carne ed ossa nella sala era solo lei, lei moltiplicata all’infinito, in tutti i possibili rigagnoli provenienti dalle frammentazioni potenziate della propria identità.

Identità molteplici secondo uno strano teorema in cui il caos generato dalla frammentazione del proprio sé possa dar origine ad una visione più complessa ma allo stesso tempo più armoniosa del proprio mondo.

 

La seconda fase di questo processo vede come protagonista la madre di Marga, Angelina, che per problemi di salute si vede costretta a trasferirsi nella casa della figlia, casa che è dimora, galleria e taller.

La madre di Marga aveva da sempre aiutato e seguito la figlia nell’esecuzione delle opere, questo perché essendo connotate da una forte parte di lavoro manuale artigianale necessitavano di molto tempo di realizzazione.

Ma il trasferimento di Angelina toglie lo spazio simbolico che si era creato in tutti quegli anni fra le due, dopo la partenza di Marga da casa ancora molto giovane, e l’avvicinamento alla madre si trasforma in una vera e propria invasione.

Avevo imparato da Marga quanto lo spazio fosse la prima opera d’arte con cui confrontarsi, ne consegue che la trasformazione e la perdita di spazio fisico e simbolico da parte dell’artista avesse conseguenze trasformative.

Più la madre reclama la figlia in un corpo a corpo, prendendo spazi non propri, più gli eteronimi diventano necessari nella vita di Marga come un ricorso per sostenere una forma di equilibrio mentale.

L’arte non può essere separata dalla vita, gli eteronimi si moltiplicano nuovamente come forma di sopravvivenza ad un desiderio materno simbiotico che assorbe come una bocca che divora.

Gli eteronimi continuano ad esistere perché c’è Angelina, il gioco si trasforma in necessità vitale, essere infinite altre permette a Marga di nominare ciò che non riesce a dire.

Louise Bourgeois diceva che l’arte garantisce la salute mentale, così Marga trasforma il suo progetto in una terapia di uscita dal vischioso e pericoloso legame con l’oscuro materno.

Lei stessa all’epoca ammette che non ci sia stato collasso nel suo percorso artistico grazie alla capacità di trasformare una situazione difficile in un momento creativo che la aiutasse a guardare avanti grazie alla libertà donata dalle nuove identità.

Gli eteronimi diventavano così la possibilità di creare uno spazio altro, il modo di trovare lo spazio emotivo perso.

Ma in questa fase più apparivano gli eteronimi più Marga Ximenez, la scultrice, scompariva.

Quello che era iniziato quasi come un esercizio di stile nel tentativo di dar maggior peso all’arte tessile nel contemporaneo, si stava trasformando in un puzzle difficile da ricomporre perché i “pezzi inanimati” cominciavano a prendere più spazio del previsto ed a mutare così il disegno e la forma iniziale.

Anche quel gioco che per l’artista era lo stare in disparte per osservare le reazioni altrui si era poi trasformato in una forma di osservazione di se stessa dall’esterno in una schizofrenica ricerca di equilibrio.

L’implicazione con le altre identità divenne tale al punto che queste si confondevano e Marga Ximenez non trovava più il tempo e la possibilità di esprimersi.

Ed inoltre fare qualcosa come Marga Ximenez significava forzarsi dentro a dei limiti espressivi che gli eteronimi avevano rotto scoprendo la potenzialità inclusa nell’andare oltre a questi limiti.

E più il tempo passava più era difficile tenere le invenzioni separate dall’inventrice, era giunto il momento della rivelazione, era evidente che il gioco presto o tardi sarebbe stato svelato.

Contemporaneamente Marga realizzava dentro di sé che ogni eteronimo relazionato con Angelina era carico di sintomi emotivi molto forti e che Gina Lestemar, l’unica artista veramente dedicata alla madre, era l’unica identità che non era stata in grado di sviluppare.

 

La terza fase del processo vede la ripresa del proprio spazio vitale ed artistico sovrapposta alla conclusione che l’unico modo in cui l’artista catalana avrebbe potuto lavorare sulla propria relazione con la madre sarebbe stato non come Gina Lestemar ma con il proprio nome, con la vera identità di Marga Ximenez.

Così la riconquista e il recupero del proprio taller, di una zona di separazione e di distanza dal corpo a corpo con la madre coincide con il desiderio dell’artista di lavorare su Angelina autorizzandosi a nuove espressioni artistiche.

Così Marga utilizza il video, riconciliando le esperienze degli eteronimi, per parlarci del corpo della madre ed affrontare una delle tematiche più dolorose e difficili quali quelle della vecchiaia e della malattia di colei che ci ha donato la vita.