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per amore del mondo edizione 18 - 2022

Lutto collettivo e violenza tragica

Elettra e Clitemnestra nostre contemporanee. Ovvero le facce tragiche molteplici del femminile e del materno in riposta ad un lutto collettivo

A partire dall’antichità e fino al tempo nostro, molte volte il ritornare al nucleo metastorico del mito tragico porta in essere la variazione, l’emersione di quel nuovo che è il risultato del rapporto con il tempo e con la storia; creatura viva del possibile e inesauribile incrocio fra i fantasmi umani della vita e della morte e la cifra soggettiva dell’esperienza del vivere il proprio tempo, soggettiva certo, ma anche comune, collettiva. E’ così che la tragedia antica può generare nel tempo innumerevoli versioni.

Elettra ne è un esempio: caleidoscopio dei fantasmi ancestrali del materno, ma anche della guerra e delle sue tragiche eredità, fantasmi che ritroviamo esposti nei tragici antichi, Sofocle, Eschilo, Euripide, così come nell’ Elettra di Hofmannsthal, in quella di Marguerite Yourcenar, fino a quella più recente, solamente corale, di Nanni Balestrini.

 La tragedia coniuga in sé unità e molteplicità, una molteplicità virtualmente aperta all’infinito. In questo senso è possibile fare un accostamento con i sogni: rispetto al tratto dell’inconscio come quell’ insieme infinito di cui ci ha parlato Matte Blanco[1], è importante che sappiamo che la nostra interpretazione attuale di un sogno, o le nostre diverse interpretazioni dello stesso sogno, sincroniche a fasi diverse del processo analitico, non possono esaurire il sogno stesso. Su questo punto troviamo in Marguerite Yourcenar una posizione radicale nella sua opera I sogni e le sorti[2]: i sogni non vanno interpretati, pena un loro svilimento. Ovviamente pur non potendo aderire a questa radicalitá, la consapevolezza di questo rischio consente di accettare la parzialità della scelta di ciò che, come analisti, possiamo e decidiamo di privilegiare e di praticare; condizione imposta dal funzionamento tendenzialmente lineare della coscienza per le sue individuazioni e per le coordinate spazio-temporali date e in loro stesse limitate rispetto a quell’insieme infinito di cui sono espressione. Allo stesso modo, in rapporto alla tragedia, sia attica che elisabettiana, può esserci una certa riluttanza ad andare oltre il godimento estetico e oltre l’impatto catartico. Si tratta infatti di tracciare un itinerario di lettura, ciò che necessariamente implica una rinuncia alla molteplicità dei possibili piani implicati nella coralità tragica.

A partire dalle diverse e molteplici versioni nei secoli delle vicende della “famiglia criminale” degli Atridi  (definizione questa di Marguerite Yourcenar nella introduzione al suo testo teatrale “Elettra o la caduta delle maschere [3]), si rende inevitabile operare la scelta di una traccia per orientarsi nel mare magnum delle implicazioni molteplici delle figure femminili tragiche di Elettra e Clitemnestra e del loro rapporto madre figlia che ha la guerra nello sfondo, con la sua tragica portata che divide ed accomuna vinti e vincitori, provocando pietà e terrore.

La scelta inevitabilmente verte su ciò che nella vicenda tragica incrocia il mio interesse clinico al materno nelle genealogie femminili, nel suo rapporto con il desiderio, con la sessualità, con il maschile, con i lutti soggettivi e collettivi, con il loro intrecciarsi e con il carattere traumatico di questi lutti. A partire da questa scelta tratterò alcuni versi estrapolati dalle diverse versioni della tragedia come associazioni costellate sulla linea di lettura che ho inteso praticare.

Va premesso che ogni rapporto madre figlia è situato in una genealogia femminile che può avere componenti transgenerazionali traumatiche e potenzialmente tragiche, come nelle figure esemplari di cui ci stiamo occupando, componenti che inevitabilmente implicano lutti incistati, personali e collettivi, lutti bloccati tramite difese rigide che non ne consentono una vera elaborazione. Si tratta di figure tragiche emerse dalla tragicità intrinseca alla guerra e ai suoi lasciti futuri.

Voglio aggiungere che in ogni caso la vicenda delle identificazioni e disidentificazioni che impregnano il rapporto madre figlia è comunque tendenzialmente drammatica perché implica un sostanziale “vacillamento identitario” (concetto di Michel de M’Uzan[4]). Solo attraversando questo vacillamento è possibile accedere a quelle trasformazioni che costituiscono la sostanza del possibile differenziarsi della figlia dalla madre, con la sua portata di dolore. Al polo opposto del vacillamento identitario possiamo trovare la compattezza per fissità: o meglio, potremmo dire che, se il vacillamento è eccessivo, pericoloso, esposto alla confusione di soggetti, il suo argine patologico può essere la ricerca della compattezza identitaria nella fissità.

A questo proposito, commentando la centralità delle figure femminili nella tragedia, Roberto Calasso nell’opera Il cacciatore celeste cita la Lisistrata di Aristofane per il quale, secondo Calasso, la tragedia è innanzitutto “roba di donne”:

Aristofane aveva condensato l’inclinazione femminile a farsi dominare da un’idea fissa. E l’aveva definita come materia principe per ogni tragedia. Lisistrata lasciava intendere che i maschi non sarebbero stati capaci di offrire un materiale letterario altrettanto ricco. Più che alle sue origini dionisiache la tragedia veniva ricondotta da Aristofane all’ossessività: nel desiderio di vendetta, nel ricordo di un orrore, nella smisuratezza di una passione. [rispettivamente] Elettra, Ecuba, Medea: in queste figure si riconosceva la peculiarità della tragedia. [5]

Non voglio qui entrare nel merito di questo sguardo maschile, ciò che mi interessa è la questione dell’idea fissa e le associazioni che mi ha suscitato.

Fenomenologicamente è vero che Elettra è presa nella idea fissa della vendetta nei confronti della madre che le ha ucciso il padre, e che la vendetta assume facilmente la forma rigida di una idea fissa. Ed è vero che anche Clitemnestra è presa dai suoi sentimenti vendicativi: ha ucciso il suo sposo e padre dei suoi figli, Agamennone, per vendicarsi dell’uccisione sacrificale propiziatoria da lui perpetrata della figlia Ifigenia e anche per la sua rivalità con la sorella Elena ritenuta responsabile della sanguinosa guerra di Troia, disastrosa sia per i vinti che per i vincitori. Madre e figlia sono entrambe travolte da un dolore traumatico che intacca gravemente la sicurezza identitaria ed entrambe sono accomunate dalla stessa risposta violenta al lutto; la vendetta che le domina le separa l’una dall’altra, l’odio vendicativo impregna i loro rapporto e le rende nemiche e rivali, conseguenza questa del mancato riconoscimento reciproco delle ferite subite e del dolore patito.

La questione della vendetta è centrale perché di fatto lascia il lutto sospeso, ne impedisce l’elaborazione e rilancia la ripetizione: «il male costringe ad altro male»[6], in alternativa tradotto: «in un mondo di colpe si cova la colpa»[7].

Rispetto alla ripetizione del male, delle accuse e delle colpe il Coro, in Sofocle, composto da donne micenee, rivolge un monito ad Elettra: «da disgrazie non mettere al mondo disgrazia!»[8], monito che trova Elettra per un attimo vacillare fra sé e sé, consapevole del peso della ripetizione: «conscia, troppo conscia anch’io di questo ricorrente risucchio, marea disumana di pene pesanti di astio. […ma] smetti, non volere sviarmi»[9]. Quante volte mi é capitato di cogliere nel mio lavoro, magari nel silenzio di una seduta, questa posizione di vincolo ad una simile costellazione ripetitiva di accusa e colpa tenacemente difesa al punto tale che qualsiasi alternativa viene letta come inaccettabile, uno sviamento da qualcosa di irrinunciabile.

 C’è da chiedersi se l’ossessione vendicativa di Elettra che, in rapporto alla madre, sembra non vacillare mai (se non invocando la propria morte come alternativa al matricidio), sia del tutto sua, o meglio, in che misura è sua e in che misura non lo è. Certamente può essere sua la rabbia vendicativa per come viene trattata, lei principessa trattata da serva, ma poi? Frutto di identificazione adesiva con la vendicatività materna? Espressione, nel contempo, dell’odio vendicativo matricida come unica istanza separante e differenziante dalla madre? Vendetta come una sorta di esoscheletro a cui appoggiare la propria differenziazione femminile in assenza di istanza paterna separante? Vendetta come difesa psichica rispetto ai tanti possibili lutti non affrontati oltre al proprio?

Va da sé che sono numerose le possibili evocazioni di tutto ciò nella clinica, cosa che implica la necessità di mantenere aperte domande di questo tipo, evitando di precipitarsi in letture affrettate, sia della forma delle genealogie femminili sia dei lutti rimossi o negati che possono tramandarsi attraverso le generazioni.

Tornando ai tragici, sulla questione delle componenti molteplici della vendicatività, va aggiunto che Eschilo, nelle Coefore[10], sceglie di comporre il coro femminile di schiave troiane. La loro funzione è di sostenere Elettra e di incitarla ai suoi propositi vendicativi: attraverso di lei, come mediatrice e tramite, vendicano i vinti, padri e fratelli e loro stesse che, in quanto schiave, non possono agire. Il coro è qui la memoria del passato, una memoria che agisce evocando tutti gli anelli della catena del delitto e predice la ripetizione del ciclo della vendetta. Questa catena unisce e separa questi mondi femminili fra loro, con movimenti per i quali ognuna può realizzare qualcosa attraverso l’altra o le altre, catene che uniscono e separano contemporaneamente, nelle quali passività e attività sono intercambiabili, proprio perché ciò che unisce è il carattere comune e collettivo dei lutti.

Anche sul versante maschile ritroviamo la vendetta come movente dell’omicidio: Egisto, il nemico fortemente odiato da Elettra, usurpatore del trono di Agamennone e del letto coniugale, complice di Clitemnestra nella uccisione del re, compie quel crimine per vendicare il proprio padre e i propri fratelli[11]. Simmetrie e asimmetrie che coesistono, ed è forse in virtù della potenza delle simmetrie, che le asimmetrie assumono un gradiente di intensità e di radicalità, come se la scelta fondamentale fosse sempre fra l’accettazione totale e adesiva, e il rifiuto totale, il taglio omicida. Posizione, anche quest’ultima, fortemente evocatrice di tanti passaggi che riscontriamo nella clinica, dove l’oscillazione fra queste due polarità blocca la differenziazione e la separazione impedendo l’affrancamento da queste catene e l’accesso ai lutti.

Jan Kott nella sua raccolta di saggi sulla tragedia greca dal titolo Divorare gli dei scrive:

spettri e cadaveri invocano vendetta… i cadaveri degli uccisi… svolgono nelle tragedie greche la stessa funzione dei fantasmi… il ritorno dei morti e le loro caparbie richieste sono la forma più evidente del destino nella tragedia greca come in quella elisabettiana. Sino alla fine si rifiutano di morire; i vivi sono ancora il loro supremo nutrimento. Le generazioni successive devono soddisfare le richieste dei morti, dare un significato alla loro sconfitta, ristabilire la giustizia nel mondo. Ma questa mediazione attraverso il tempo e la storia può finire solo in tragedia, con nuovi cadaveri a riempire la scena. I morti mangiano i vivi… La tragedia è l’esibizione spettacolare di questi cadaveri. [12]

A questo proposito, nella sua Elettra, Hofmannsthal propone un’immagine forte di questo ritorno dei morti e lo fa per bocca di una delle serve: «laviamo con acqua e con sempre nuova acqua il sangue eterno dal pavimento»[13]. Citazione quest’ultima della scena shakespeariana in cui il gesto di Lady Macbeth ossessivamente cerca di purificare le proprie mani dal sangue delle vittime assassinate per la propria sete di rivalsa e di potere, sangue che eternamente si rinnova.

Per Elettra il padre è costantemente presente in quanto morto, morto alla relazione coniugale e paterna prima di essere ucciso, totalmente assorbito dall’arroganza del potere e dall’arbitrio, come testimoniano le vicende della guerra di Troia narrate da Omero ancor prima dei tragici. Sorella di Ifigenia, figlia sacrificata dal padre, Elettra, figlia dello stesso padre, esorcizza il figlicidio da lui perpetrato e l’angoscia terrifica generata in lei da questo crimine, attraverso l’immagine di un padre nobile, tradito e ucciso a tradimento. Ed è per questo padre (potremmo dire difensivamente idealizzato perché crudele oltre che assente), che invoca costantemente la vendetta.

Nella catena accade sia che un crimine vada a coprire un altro crimine, sia che delle costanti si ripetano.Nella catena criminale delle uccisioni seriali che si succedono l’una all’altra ci sono delle costanti che si ripetono anche nei dettagli, dettagli che sono tali solo apparentemente: nell’evento criminale dell’uccisione di Agamennone, Clitemnestra lo raggiunge nel bagno e gli getta addosso una rete nella quale Agamennone resta impigliato, è a quel punto che Egisto lo colpisce con un’ascia bipenne; sarà Cassandra poi, la sua concubina, bottino di guerra del re, schiava troiana, la rivale, ad essere uccisa.

Tutto ciò è rilevante perché, in Sofocle, Elettra ha sotterrato quell’ascia in attesa di Oreste, suo fratello e suo braccio armato, e il matricidio si realizza nello stesso luogo e con gli stessi mezzi. Entrambe madre e figlia dunque costituiscono il cuore pulsante del desiderio omicida ed entrambe si avvalgono di un uomo come esecutore.

E qui una mia associazione ad unire la ripetizione alla rete: eredità come rete che impiglia e immobilizza attraverso la nemesi. Quanto alla scure, se immaginiamo la scure bipenne fra due contendenti, da un lato colpisce il/la nemica e dall’altro è rivolta verso chi la sferra, esattamente come la vendetta, vendetta come arma duplice che colpisce l’altro e contemporaneamente il sé come é illustrato in modo magistrale da Kleist nel suo racconto capolavoro Michael Kohlhaas[14], centrato proprio sulla vendetta come arma a doppio taglio.

Per la Clitemnestra di Sofocle, Elettra usa il padre come pretesto: «tuo padre, nient’altro, è il tuo pretesto eterno»[15] e ancora: «lo giustiziò la Legge, il contrappasso… perché quel padre tuo ebbe, tra i comandanti greci, durezza disumana: immolò tua sorella, il tuo sangue!»[16]. Se il padre è un pretesto, la sostanza sta nel loro rapporto, così descritto da Elettra: «il nome è madre, ma è l’opposto di una madre»[17]; «mia madre, che mi ha generato, si è rivelata la mia nemica peggiore. Con lei ho rapporti di odio»[18]. Per Elettra la madre non è più madre e, rivolta a Clitemnestra, le dice: «Io credo che tu sia una padrona piuttosto che una madre per noi, io che vivo una vita di tormenti, sempre in compagnia di una folla di sventure, per causa tua e del tuo consorte»[19].

Entrambe urlano il loro dolore, il dolore della loro perdita, attraverso l’odio vendicativo; in entrambe, in questo modo la vendetta blocca il lutto e ne impedisce l’elaborazione. Per Clitemnestra si tratta del dolore del tradimento subito sia come madre che come donna; per Elettra si tratta del dolore di una assenza incolmabile, del dolore dell’essere doppiamente orfana: «sono senza nessuno, orfana tua e del padre»[20], perdita delle coordinate fondamentali dell’esistere a questo mondo come figlia, ciò che la mette pericolosamente a rischio di perdere sé stessa. Condizione della madre e della figlia che sembra evocare la costellazione che Andre Green ha definito «madre morta»[21], ossia una madre morta alla relazione perché presa da un lutto incistato inaffrontabile.

In Sofocle, la vendicatività di Clitemnestra, per bocca di Elettra, si tinge di freddezza e di arroganza: «se non fosse donna a svettare su tutte per la sua arroganza, questi rivoli d’odio non faceva fluire su quello che uccise»[22]. In Elettra la vendetta è più complessa e tormentata, ha i toni a tratti disperati, a tratti frenetici di una menade, dismisura connotata come eccesso dal Coro di donne micenee che pure condividono e appoggiano le sue ragioni; le parole di Elettra rivolte al Coro sembrano indicare che di questa follia, di questo eccesso lei ne ha bisogno: «lasciatemi la mia frenesia ve ne supplico!»[23]. La vendetta é eccitante e come abbiamo visto allontana dal dolore del lutto. D’altro canto Elettra sembra essere consapevole del rischio di follia derivante dall’evitamento del dolore della perdita: «sragiona chi cancella da sé trapasso penoso di padri, di madri»[24] e il Coro di donne più oltre ribadisce che «ogni vivo è impasto di morte»[25].

C’è da chiedersi se, trattandosi di dolori che toccano i fantasmi primari del femminile e del materno, declinazioni femminili di eros e thanatos – figlicidio e matricidio come opposti del dare e ricevere vita –, c’è da chiedersi se questi dolori possano essere davvero fino in fondo elaborabili.

Tornando alla vendetta come arma a doppio taglio, in Elettra, la posizione di odio vendicativo verso la madre, implica un attacco alla propria femminilità sessuata e alla propria fecondità, una rinuncia radicale:

sterile vergine stanca randagia marcia di pianto possiedo catena stregata di mali […] mi sento sfinita, non ho padre né madre. Mi macero. Non ho uomo, mio, a farmi da scudo. Profuga diresti, diseredata.[26]

E su questa rinuncia l’Elettra di Hofmannsthal dice di sé:

i miei capelli sporchi, avviliti, sparpagliati, questi capelli erano tali un giorno da far tremare gli uomini! …questi dolci brividi ho dovuto immolarli al padre… sono gelosi i morti: e mi ha mandato l’odio, l’odio dai cavi occhi per sposo.[27]

Su questo tema, in Sofocle, ad Elettra si contrappone la sorella Crisòtemi che rappresenta agli occhi della protagonista il compromesso con i nemici pur di salvare i propri margini di libertà, ed è per questo fortemente biasimata. È Hofmannsthal che, nel nostro passato prossimo, riabilita la posizione femminile di Crisòtemi. Quest’ultima, rivolgendosi ad Elettra, così si esprime:

Abbi pietà di te e di me. Questa pena a chi giova? Al padre forse? Egli è morto… Ah, meglio morti che esser vivi e non vivi. No, una donna sono io, voglio il destino di una donna.[28]

Alla fine il matricidio è perpetrato e questo delitto è di fatto una ripetizione differenziante, ossia quella che interrompe la catena, di generazione in generazione, degli omicidi e delle vendette: per Oreste il matricidio inaugura la traversia dell’accusa, della colpa e della successiva assoluzione; per Elettra il matricidio inaugura una possibilità di riscatto nella cura di sé e dell’altro: va sposa al principe Pilade e si occuperà della cura del fratello Oreste tormentato dalle Erinni, ovvero dai deliri di colpa per il crimine commesso. In questo senso l’ultima ripetizione della catena è differenziante: interrompe la catena stessa tramite il contatto con la traversia affettiva dell’espiazione, del lutto e dell’accesso alla cura dei vivi.

A dire il vero nell’Elettra di Hofmannsthal la dimensione della cura compare anche prima dell’epilogo tragico del matricidio, proprio nella relazione fra Elettra e sua madre. Sembra quasi che l’evocazione di una cura operata dalla figlia sulla madre possa costituire la componente affettiva del reciproco riconoscimento, occlusa dalla rabbia vendicativa reciproca.

Elettra (rivolta a Clitemnestra) vede la fragilità della madre:

Tu non sei più te stessa. Hai sempre un nodo di serpi intorno. E ciò che nell’orecchio ti fischia, in due divide il tuo pensiero senza tregua, e tu vai, barcolli, sempre sei come in sogno

E Clitemnestra riconosce la saggezza e la forza della figlia:

con lei voglio parlare. Detestabile non è quest’oggi. Parla come un medico [e rivolta ad Elettra…] Non sono buone le mie notti. Hai qualche rimedio contro i sogni? […] Io sono tanto grave di pietre. Certo abita in ogni pietra una forza. Occorre che si sappia come impiegarla. E tu potresti dirmi se volessi qualcosa che mi giovi. Sì, tu! Perché sei saggia. Nella tua testa tutto è forte. Invece io sono guasta. […] mi coglie la vertigine, d’un tratto non so più chi sono, è questo ciò che fa orrore, ossia col corpo vivo sprofondare nel Caos […] come da un tempo eterno a un tempo eterno: non è nulla, non è un incubo, eppure l’anima mia, tanto è tremendo, s’augura di essere appesa, le mie membra invocano la morte, e tuttavia vivo …[29]

Per Elettra, accedendo al lutto della comune umana fragilità, è possibile ricontattare la dimensione del desiderio e la propria forza[30], nello scioglimento di quella eccitazione vendicativa onnipotente, utilizzata come difesa rispetto alla propria fragilità, quando la fragilità ha la forma di una angoscia terrificante di annientamento.

Oltre agli innumerevoli spunti che queste opere tragiche ci offrono sulle possibili forme delle genealogie femminili in rapporto alle fragilità, alle perdite, alle risposte vendicative come blocco del metabolismo dei lutti che attraversano più generazioni, ci viene offerto, in esse, anche lo sfondo della guerra sia come risposta sia come origine di lutti collettivi.

Traslando alla nostra contemporaneità e pensando alla dimensione collettiva di lutti e di difese di questo tipo nel passato prossimo e nel presente, è preziosa la riflessione di Judith Butler[31] sulla reazione statunitense all’abbattimento terroristico delle torri gemelle a New York.  Butler denuncia l’uso della violenza in risposta ad un lutto collettivo. La violenza di fatto non consente una reale ed efficace elaborazione del lutto nella comunità, in quanto forclude la traversia affettiva necessaria all’elaborazione stessa[32].

È vero che certi lutti collettivi implicano un senso di insicurezza radicale e un vacillamento identitario di una intera comunità: nel contatto con una zona inconscia di terrore condiviso si attiva una angoscia di annientamento che ha i tratti di una frammentazione psicotica. Ecco che la difesa da questi contenuti angosciosi con la loro portata di frammentazione, può tragicamente tradursi nello scatenamento di una guerra, configurando ciò che potremmo definire una risposta paranoide al lutto collettivo[33].


[1] Ignacio Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti, tr.it. di Piero Bria, Einaudi, Torino 1981, Cap. trentatreesimo: Spazio multidimensionale, inconscio e sogni, pp. 461-471.

[2] Marguerite Yourcenar, I sogni e le sorti, in: Opere, Vol. II, Saggi e Memorie, Bompiani, Milano 1992.

[3] Marguerite Yourcenar, Elettra o la caduta delle maschere, in: Tutto il teatro, Bompiani, Milano1999.

[4] Michel de M’Uzan, L’inquiétude permanente, Gallimard, Paris 2015.

[5] Roberto Calasso, Il cacciatore celeste, Adelphi, Milano 2016, p.274.

[6] Sofocle, Elettra, in: Tutte le tragedie, Traduzione a cura di Angelo Tonelli, Bompiani, Milano 2011, p. 867, verso 309.

[7] Sofocle, Elettra, in: Aiace Elettra Trachinie Filottete, tr. it. di Ezio Savino, Garzanti, Milano 1989, p.119.

[8] Sofocle, op. cit, edizione Garzanti, p.115.

[9] Ivi, p.151.

[10] Euripide, Coefore, in: Tutte le tragedie, tr. it. a cura di Angelo Tonelli, Bompiani, Milano 2011.

[11] Cfr. le vicende di Tieste, padre di Egisto, in: Karl Kerényi, Gli dei e gli eroi della Grecia, tr.it. di Vanda Tedeschi, Il Saggiatore, Milano 1972, e anche in: Giulio Guidorizzi (a cura di), Il mito greco, Mondadori, Milano 2009.

[12] Jan Kott, Divorare gli dei. Un’interpretazione della tragedia greca. Bruno Mondadori, Milano 2005, p.4, 12.

[13] Hugo von Hofmannsthal, Elettra, tr. it. di Giovanna Bemporad, Garzanti, Milano 1981, p.15.

[14] Heinrich von Kleist, Michael Kohlhaas, tr.it. di Hermann Dorowin, Marsilio, Venezia, 2003.

[15] Sofocle, Elettra, verso 526, traduzione mia.

[16] Sofocle, op. cit. edizione Garzanti, p.133.

[17] Ivi, p.173.

[18] Sofocle, Elettra, verso 261, traduzione mia.

[19] Sofocle, op.cit. edizione Bompiani, p.883.

[20] Sofocle, op. cit. edizione Garzanti, p.149.

[21] Andre Green, La madre morta, in Narcisismo di vita narcisismo di morte, tr.it. di Laura Felici Montani, Borla, Roma 1992.

[22] Sofocle, op. cit. edizione Garzanti, p.127.

[23] Ivi, p.107.

[24] Sofocle, op. cit., edizione Garzanti, p.109.

[25] Ivi, p.153.

[26] Ivi, p.111.

[27] Hugo von Hofmannsthal, op.cit., p.117.

[28] Ivi, p.29.

[29] Ivi, p.43,49,51.

[30] Sarantis Thanopulos, Il desiderio che ama il lutto, Quodlibet, Macerata 2017.

[31] Judith Butler, Vite precarie. Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo. Meltemi, Roma 2004.

[32] Un tentativo di favorire l’attraversamento dei necessari passaggi affettivi in risposta ad un lutto collettivo, fu praticato in Ruanda dopo il genocidio di una parte maggioritaria della popolazione, tentativo messo in atto per scongiurare appunto lo scatenarsi di violenze vendicative.

[33] Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano 1970.