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per amore del mondo edizione 18 - 2022

Grande Seminario 2021 - L'irrinunciabile

Effetto notte. Come si sono trasformati i bisogni e il desiderio

Innanzitutto, vorrei commentare brevemente la prima parte del mio titolo. Effetto notte, com’è noto, era il titolo di un bellissimo film di François Truffaut del 1973. L’allusione era alle tecniche di ripresa cinematografiche usate per far sembrare notturne delle scene girate di giorno. Il titolo originale era La nuit américaine, la notte americana, perché questa tecnica era stata usata per la prima volta negli Stati Uniti; ancora più eloquente ai fini del mio discorso era il titolo inglese del film, Day for night, il giorno per la notte.

   Scambiare il giorno con la notte, un giorno che sembra notte, è un po’ quello che ci è accaduto durante questo lunghissimo periodo di pandemia. Mi riferisco soprattutto al primo confinamento della primavera del 2020, quando sembrava che l’inconscio fosse a cielo aperto, un inconscio scambiato, condiviso, con molte narrazioni soggettive che creavano ponti fra le persone, con segni di accettazione della propria e altrui fragilità, con segnali di solidarietà, elementi positivi che molte femministe, fra cui anch’io, accolsero con gioia, perché sembrava che alcuni guadagni della politica delle donne fossero fatti propri da tutti, dall’intera umanità.

   Era avvenuto un rimescolamento fra giorno e notte: l’inconscio notturno – i sogni – di solito non disturba più di tanto, semmai lancia segnali da leggere e da interpretare; ma l’inconscio che irrompe in pieno giorno, negli atti mancati, nelle dimenticanze, nei lapsus e così via, può essere invece molto disturbante, perché incrina la padronanza dell’io, spazza via il controllo, rende insicuri.

  Il film di Truffaut metteva in scena un set cinematografico dove si incrociavano esaurimenti nervosi e instabilità psichiche degli interpreti; ma nonostante tutto il film veniva portato a termine, innalzando così un inno al cinema e alla vita.

  Questo dettaglio del film mi serve per alludere indirettamente alle molte patologie psichiche che, in questa pandemia, si sono sommate alle nostre consuete fragilità. Vi accenno in modo obliquo perché indubbiamente c’è chi sta peggio di noi e non voglio soffermarmi troppo su questo, ma è certo che molto disagio psichico è stato aggravato dall’esperienza che abbiamo vissuto, sia per il timore del contagio sia per le misure di contenimento che hanno drasticamente ridotto la possibilità di intrattenere relazioni in presenza.

   Mi chiedo se possiamo anche noi, come nel film di Truffaut, trarre insegnamento dalle trasformazioni avvenute durante questa pandemia, sperando che da tanta paura, incertezza, angoscia, rimescolamento fra conscio e inconscio, fra notte e giorno, rinasca prima o poi un canto alla vita.

   Tuttavia, piuttosto che cercare di rispondere a questa domanda, a cui è impossibile, almeno per ora, dare una risposta certa, m’interrogherò su come si sono trasformati i bisogni e il desiderio in questa lunga fase segnata dalla diffusione del Covid-19.

   Una premessa che vorrei fare riguarda il bisogno di non dimenticare: non dimenticare soprattutto l’intensa esperienza vissuta nel primo confinamento della primavera del 2020, quando un sentire condiviso e le molte narrazioni soggettive che lo avevano articolato avevano fatto sì che circolasse un inconscio a cielo aperto, un day for night, un giorno come notte. 

   Mentre l’invito delle autorità e la narrazione prevalente tendono oggi a farci dimenticare tutto questo, vorrebbero che tutto tornasse come prima, a una normalità che certo non era soddisfacente già prima, io credo invece, insieme con le amiche di Diotima, che sia necessario fare memoria di quel sentire, nei suoi aspetti sia angosciosi sia gioiosi.

  Ai primi faccio appena un cenno: mi basta ricordare le immagini terribili dei camion dell’esercito che trasportavano innumerevoli bare di deceduti da Covid da Bergamo verso i cimiteri di altre città. Per gli aspetti gioiosi, voglio ricordare lo stupore, la meraviglia di vedere, intorno a un’umanità confinata nelle case, rifiorire la natura e l’affacciarsi di animali selvatici negli spazi urbani improvvisamente privati della presenza umana. Una natura dissennatamente violata si riprendeva gli spazi che le erano stati ingiustamente sottratti.

   Fu un’esperienza estetica – nel senso etimologico di aisthesis, di sensazione, di qualcosa che appartiene alla dimensione del sentire – molto forte e rivelativa. Il sentire, come hanno osservato Chiara Zamboni e Ida Dominijanni, è un piano intermedio fra conscio e inconscio. Come ha mostrato bene Chiara Zamboni nel suo ultimo libro, Sentire e scrivere la natura, le donne si affidano innanzitutto al sentire come prima guida, un crocevia fra conscio e inconscio, per leggere i segni dei tempi. Vorrei precisare anche che l’esperienza del primo confinamento non fu solo estetica, benché la dimensione del sentire fosse indubbiamente prioritaria; ci fu sì una dimensione contemplativa, la meraviglia di veder affacciarsi degli animali selvatici ai margini delle città, ma ci fu molto altro: un intenso scambio di esperienze, dei segnali di condivisione e di solidarietà, la consapevolezza della propria e altrui fragilità.

   A due anni di distanza da quella prima esperienza, molto è cambiato: la mia impressione è che ora siamo fortemente invitati, dalla narrazione ufficiale prevalente, a dimenticare quell’incanto, in parte angoscioso in parte gioioso, che ci siamo di nuovo rinserrati nei confini dell’io, e inoltre che ci siamo anche un po’ rinselvatichiti. Tuttavia, quell’inizio di condivisione e di solidarietà che intravvedemmo all’inizio forse non si è spento del tutto. Ad esempio, le inevitabili code alla posta diventano spesso occasioni per scambiare, con le altre persone in attesa, elementi di vissuto, esperienze, idee. Il mio intento in ogni caso è quello di contrastare l’invito ufficiale, che vorrebbe far tornare tutto come prima o quasi, salvo qualche aggiustamento sul versante green e un massiccio incremento della tecnologia informatica: credo invece che, senza una consapevolezza della trasformazione profonda che è avvenuta nel nostro sentire, non possiamo andare avanti sensatamente né fare tesoro delle esperienze che abbiamo vissuto.

   M’interrogherò sulle trasformazioni avvenute nei bisogni e nel desiderio. Di bisogni parlo al plurale, mentre del desiderio invece al singolare, e ne spiego subito il motivo. Mentre i bisogni sono molteplici ma non illimitati perché disegnati dal tessuto della necessità in cui essi si radicano, invece del desiderio intendo parlare al singolare: poco mi interessano infatti i desideri di questo o quell’oggetto, spesso intercettati e sollecitati dalla spinta consumistica a cui ora siamo di nuovo invitati per far crescer il prodotto interno lordo; m’interessa il desiderio senza oggetto, fluido, metamorfico, che si trasforma e soprattutto che ci trasforma – che modifica noi stesse/i – nel corso del suo affinamento. Mi sta a cuore che ci sia del desiderio: se la spinta desiderante viene a mancare del tutto, infatti, si cade in depressione, com’è accaduto a me e a molte, molti, durante questa pandemia.

   Una prima approssimazione al tema riguarda la distinzione fra bisogni e desiderio. Dalle femministe di formazione marxista, come hanno sottolineato Giovanna Borrello e Ida Dominijanni, il tema dei bisogni, legato a mancanze sempre insoddisfatte, a rivendicazioni e a richieste di diritti, era stato abbandonato già negli anni Settanta proprio grazie al femminismo, a favore del tema del desiderio, molto più promettente. Io negli anni Settanta avevo sì una formazione marxista più che femminista, ma non così radicata da impormi il tema dei bisogni come prioritario. Dunque l’incontro col tema del desiderio, avvenuto grazie al femminismo, grazie a Diotima negli anni Ottanta, non ha segnato una cesura netta rispetto a prima. È vero che qualche anno fa, in Ciò che non dipende da me, io avevo criticato l’eccessiva enfasi sul tema del desiderio nel pensiero della differenza sessuale, ma era una polemica tutta interna al nostro femminismo, volta a segnalare che non basta che ci sia desiderio femminile – desiderio di qualsiasi cosa – perché tutto vada bene. Non ritorno su quella polemica; mi basta ribadire che anche per me, come per le autrici della Libreria delle donne di Milano, è vitale che ci sia del desiderio, un desiderio anche indeterminato nel suo sorgere, per non sprofondare nella depressione.

  Vengo quindi a una prima approssimativa distinzione fra bisogni e desiderio: mentre i bisogni si radicano nel tessuto della necessità, invece il desiderio apre l’orizzonte della libertà. Un breve riferimento a Simone Weil: per lei la libertà inizia con l’accettazione della necessità e dunque anche con l’accettazione dei bisogni che la necessità ci impone. Ma questo significa che va accettato solo ciò che è necessario, non ciò che l’immaginazione ci fa credere tale. Questa visione, che è di impronta stoica e che può sembrare angusta, in realtà si rivela liberatoria: pensiamo solo al fatto che non possiamo non sottostare alle costrizioni che il potere ci impone, ma solo a quelle; non dobbiamo aderire intimamente all’immaginario del potere, al suo prestigio né alle sue pressioni mediatiche, facendo gli zelanti e andando oltre lo stretto necessario.

   Anche questo ci permette di discriminare fra i bisogni necessari, vitali, e i loro surrogati, spesso suggeriti dalla spinta consumistica del neoliberismo tuttora imperante. Inoltre, i bisogni profondamente sentiti, se accettati, così come l’accoglimento consapevole della necessità, ci aprono la strada della libertà. Tengo ferma dunque la distinzione fra i bisogni legati alla necessità e il desiderio che si colloca invece nell’orizzonte della libertà. Aggiungerei però che un desiderio profondo può trasformarsi in un bisogno irrinunciabile; allora esso diventa veramente trasformativo, ci fa fare i passi necessari per cambiare lo stato di cose esistente. Di questo tratta Anna Maria Piussi nel suo intervento a questo seminario. A me basta notare che la forbice fra bisogni e desiderio non è sempre così netta come può sembrare a prima vista, non è una divaricazione incolmabile.

   All’inizio de La prima radice, Simone Weil nomina i bisogni fondamentali degli esseri umani, distinguendo i bisogni del corpo da quelli dell’anima. Io però, come tutte le amiche di Diotima, non vorrei tenere separati questi due tipi di bisogni, perché noi siamo anime incarnate, corporee, senzienti, legate inscindibilmente a un corpo sessuato. Faccio solo un esempio per mostrare come i bisogni del corpo non possano essere separati da quelli dell’anima. Parlo di un bisogno elementare, il bisogno di cibo: esso non nutre solo il corpo, ma anche gli aspetti affettivi delle persone per cui il cibo viene cucinato. Preparare un cibo per gli amici comporta non solo la soddisfazione di un bisogno fisico, ma implica anche il coinvolgimento dell’affettività. Inoltre, i bisogni sono legati alla ripetizione: abbiamo bisogno di mangiare oggi, ma anche domani e dopodomani e così via. Tuttavia, come ho mostrato nel mio libro sulla vita quotidiana, la ripetizione di per sé non è mortifera, benché a prima vista possa sembrare scoraggiante. La ripetizione al suo meglio è una ripresa, e come tale può contemplare anche piccoli elementi di innovazione. Cucinare lo stesso cibo non ottiene mai esattamente lo stesso risultato. Solo se la ripetizione scade in routine, nel fare meccanicamente le cose pensando ad altro, diventa priva di senso. Invece nella presenza consapevole, corporea e affettiva insieme, un senso c’è, quello di nutrire sia il corpo sia la dimensione affettiva nostra e di coloro a cui il cibo è destinato. Su questo punto mi discosto dunque da Weil.

   La stessa autrice tratta anche di bisogni disposti a coppie di contrari, entrambi veri ed entrambi da soddisfare. Quest’ultimo aspetto vorrei tenerlo fermo e lo farò più avanti indicando alcuni bisogni opposti che si sono rivelati, almeno a me, in modo particolarmente acuto in questa pandemia: il bisogno di solitudine e quello di relazioni, il bisogno di sicurezza e quello di rischio.

   Ágnes Heller, in La teoria dei bisogni in Marx, parla di bisogni radicali: bisogni nati in seno al capitalismo, ma tali da eccedere la cornice capitalistica, capaci potenzialmente di farla saltare, come il bisogno di libertà, di sviluppo integrale dell’individuo e di reagire all’ingiustizia per tutti. Questi bisogni radicali, benché nati in seno al capitalismo, possono essere soddisfatti solo trascendendo il capitalismo stesso, facendolo collassare. Non vorrei riprendere in toto la cornice marxiana che inquadra la sia pur eretica posizione di Heller, ma vi faccio riferimento per chiedermi quali bisogni radicali possano oggi far saltare o almeno mettere seriamente in crisi la cornice neoliberista entro cui siamo collocati: penso ad esempio al bisogno di acqua e di cibo delle popolazioni più povere, che vivono in regioni aride e desertificate, al bisogno di porre fine alla distruzione dissennata della natura, i cui effetti stiamo tragicamente sperimentando anche durante questa pandemia, con le catastrofi ambientali sempre più ricorrenti per effetto del riscaldamento climatico. Questi bisogni sono presenti anche nell’agenda dell’attuale governo italiano e nelle indicazioni europee e non solo, ma non con quella radicalità con cui si manifestano nelle persone e nelle popolazioni che ne subiscono più direttamente le tragiche conseguenze. Penso ad esempio all’accorata protesta di Vanessa Nakate, una giovane donna attivista e ambientalista dell’Uganda, che si è unita recentemente al movimento contro il cambiamento climatico Fridays for Future, a cui aveva dato inizio tre anni fa Greta Thunberg.  

   Come si sono trasformati i bisogni durante questa pandemia? In linea generale, direi che essi, come accade in ogni situazione-limite, particolarmente dolorosa, di paura e di rischio, hanno subito una drastica riduzione all’essenziale. Questo almeno è accaduto a me.

   Non farò l’elenco dei bisogni essenziali che si sono rivelati irrinunciabili in questa pandemia: è evidente che essa ha aggravato la disparità economica e sociale al punto che per molti, che prima godevano di un certo benessere, il bisogno di sussistenza, di un tenore elementare di vita, è diventato centrale. Potrei forse dire, rifacendomi agli antichi Greci, che i bisogni che fanno star bene non sono poi molti: sono i bisogni di buona salute, di mezzi sufficienti per vivere – non della ricchezza –  e la possibilità di arricchire il proprio spirito e quello di chi ci circonda. Quindi il bisogno di amicizia, di relazioni, e la ricerca di ciò che è vero, buono, giusto e bello. Questa essenzialità, disegnata dalla saggezza degli antichi Greci, forse ci può servire da orientamento anche oggi. Qualcosa di questo lo riprenderò verso la fine.

   Vorrei ora rivolgere l’attenzione a due coppie di bisogni, opposti fra loro, ma entrambi vitali e necessari. In primo luogo, vorrei parlare del bisogno di solitudine e di quello di relazioni. Per ciò che mi riguarda, dal momento che vivo da sola, il bisogno di solitudine nella pandemia è stato fin troppo soddisfatto, ma forzatamente, mentre il bisogno di relazioni in presenza è stato molto frustrato. Indubbiamente, per alcune/i l’esperienza del confinamento ha rappresentato l’occasione per sperimentare momenti di solitudine e di rallentamento del ritmo, sempre troppo frenetico; è stata un’opportunità preziosa per imparare a stare da soli con se stessi. Per me, tuttavia, la solitudine coatta non è stata un’esperienza positiva: l’ho sofferta, patita, sentendo che talvolta rischiava di scivolare in un isolamento penoso. Ho patito molto l’estrema rarefazione delle relazioni e degli incontri in presenza. Questo è ciò che più mi è mancato nel confinamento: non i cinema né i ristoranti o altro, ma la presenza viva di altre e altri accanto a me. L’esperienza del confinamento ha risvegliato in me una fame, un’avidità di relazioni in presenza che è diventata un vero e proprio bisogno, un’ansia di comunicare avendo di fronte l’altra/o, un bisogno che non avevo mai provato prima con tanta intensità.

   Riguardo al bisogno di solitudine, ho sperimentato la differenza fra una solitudine coatta, che rischia sempre, come accennavo, di sconfinare nell’isolamento, e una solitudine scelta, che Françoise Dolto definirebbe forse una solitudine sana, necessaria, nel mio caso, per riflettere, pensare, scrivere. Infatti l’ho sempre cercata e coltivata, anche durante il confinamento, nel corso della solitudine forzata, e anche recentemente ho ritagliato alcune giornate di solitudine scelta per raccogliere le idee e per stare bene con me stessa. Quindi entrambi i bisogni, due contrari tutti e due necessari, si sono affinati e modificati durante la pandemia e durante il confinamento che l’ha accompagnata.

   L’altra coppia di opposti su cui vorrei soffermarmi brevemente è quella costituita dal bisogno di sicurezza e da quello di rischio. Le misure securitarie, in un esperimento pur necessario di biopolitica mai sperimentato prima, non hanno tuttavia eliminato il rischio – del contagio, della malattia, della morte. Il rischio non è eliminabile dall’esistenza umana. Il rischio Simone Weil lo ritiene un bisogno vitale, necessario quanto il suo contrario, la sicurezza. Weil pensava alla necessaria compresenza di di sicurezza e rischio nella vita quotidiana delle persone, nella sfera pubblica e nella politica: sicurezza per non sentirsi esposti a un senso di pericolo costante, rischio per innovare, per tentare strade nuove assumendosene la responsabilità.

   Noi possiamo pensare oggi alla sicurezza sul lavoro, assolutamente necessaria per evitare incidenti; ma è necessario anche un margine di rischio affinché sia data al lavoratore la possibilità di introdurre innovazioni nel metodo di lavoro, di esercitare il proprio pensiero e la propria libera iniziativa. Quanto siamo lontani ancora oggi da quest’ideale weiliano, in particolare dalla sicurezza sul lavoro, lo provano le innumerevoli cosiddette “morti bianche” (ma perché poi “bianche”? Sono morti insanguinate) che costellano quotidianamente e tragicamente il mondo del lavoro; penso alle due giovani operaie stritolate da ingranaggi difettosi e mal funzionanti; sono solo due esempi dell’assoluta mancanza di sicurezza sul lavoro. Anzi, mi sembra che, con il rischio del contagio, durante la pandemia, il bisogno di sicurezza sul lavoro sia stato ancora più disatteso di quanto non accadesse già prima. Quanto al rischio nel lavoro, inteso in senso positivo, cioè legato alla possibilità di innovare e di assumersene la responsabilità, anch’esso è un bisogno poco soddisfatto in molte mansioni lavorative, costrette a una ripetitività, o meglio a una routine, che non lascia alcuno spazio all’iniziativa del lavoratore, della lavoratrice.

   Tornando direttamente alla pandemia, occorre precisare che il rischio di ammalarsi e di perdere la vita è connesso strutturalmente alla fragilità, alla vulnerabilità degli esseri umani. Come dice Susan Sontag, tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, una nel regno dello star bene e una nel regno dello star male. Preferiremmo servirci solo del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto almeno per un periodo a riconoscersi cittadino anche di quell’altro paese. Nell’esperienza della pandemia, nostro malgrado, ci siamo ritrovati a confrontarci con la malattia e con la morte di persone care. Tuttavia, anche la vicinanza con la malattia e con il rischio di contrarla può essere la fonte di un arricchimento, di un approfondimento della consapevolezza se non altro della nostra costitutiva fragilità.

   Il rischio di ammalarsi non può essere eliminato del tutto dalla vita umana, perché questa è la condizione creaturale: neppure i vaccini, come stiamo vedendo, possono eliminare del tutto questo rischio; infatti si assiste a un gioco interessante, a una sfida sempre rilanciata fra la ricerca incessante sui vaccini da un lato e le mutazioni del virus per sopravvivere da un altro lato. La pretesa dei paesi del benessere è quella di un’immunizzazione securitaria che ci metta del tutto al riparo da ogni rischio: questo non è possibile, perché siamo costitutivamente fragili. Credo che uno degli insegnamenti più forti che provengono da questa pandemia sia proprio la consapevolezza della vulnerabilità come tratto ineludibile della condizione umana. Certo, i vaccini e le varie misure precauzionali giustamente raccomandate ci danno una certa sicurezza, ma non ci possono mettere del tutto al riparo dal rischio.

   Ho detto che i bisogni hanno subito una drastica riduzione all’essenziale. Questo non significa però che nell’essenziale, nel poco, non ci possa essere condivisione. Un breve racconto, vero, che mi è stato narrato da un amico sacerdote, ormai molto anziano, è illuminante al proposito. Questo sacerdote un giorno incontrò un povero che chiedeva l’elemosina e, poiché lui, il prete, non aveva moneta spicciola, diede al mendicante una banconota da 5 o 10 euro, la sola che aveva in tasca. Il povero gli disse, a mo’ di ringraziamento: “Ehi, andemo a berse un goto?” Il bisogno – di vino – il povero lo sentiva come un bisogno da condividere. Questo episodio suggerisce che chi ha poco o niente, quando ottiene qualcosa di più del suo niente, è pronto a spartirlo, a farne un’opportunità di condivisione. Così il bisogno si allarga a una relazionalità gioiosa: questo è un tratto che permette di distinguere i bisogni veri, che aprono ad altri, dai loro surrogati, che invece rimangono chiusi nella cornice egoistica dell’io.

  Di bisogni surrogati la società e i mass media oggi ne suggeriscono molti. Ad esempio, sembra che un bisogno fondamentale sia stata la riapertura dei ristoranti. Questo è in realtà – tranne ovviamente che per i ristoratori – un bisogno surrogato, che occulta il vero bisogno che c’è dietro: il bisogno di convivialità, di vivere insieme quel rito altamente civile che consiste nel condividere del cibo e contemporaneamente nello scambiarsi idee, vissuti, esperienze.

   Vorrei aggiungere che il bisogno surrogato si riconosce perché funziona un po’ come l’ansia: come quest’ultima si aggrappa a qualsiasi oggetto, si sposta continuamente, così accade anche al bisogno surrogato. Come, appena cessato un motivo d’ansia, subito se ne affaccia un altro, a cui l’ansia si aggrappa non cessando mai di assillarci, così i bisogni surrogati sono molteplici, mobili, disposti ad agganciarsi a questo o quell’oggetto, in una sequenza potenzialmente infinita; ma si tratta di una cattiva infinità.

  Invece i bisogni veri sono radicati profondamente nel tessuto della necessità. Li si riconosce veramente come tali sono una volta che sono soddisfatti, come ha notato Stefania Ferrando. E allora si appagano, si acquietano, ma al tempo stesso, come ho suggerito col racconto dell’elemosina al povero, aprono alla condivisione, alla relazione, non rimangono chiusi nell’appagamento solitario dell’io.

  Ho detto più volte che per me i bisogni si sono ridotti drasticamente all’essenziale durante la pandemia. Mi chiedo ora se una simile riduzione all’essenziale si possa attribuire anche al desiderio. In un certo senso sì, visto che, almeno per me, in un periodo in cui l’orizzonte si è ristretto fino a ridursi quasi alla mera sopravvivenza, l’istanza fondamentale è che ci sia del desiderio, che esso non si spenga del tutto. Pena la caduta nella depressione o nelle diverse altre patologie psichiche che hanno assalito molte persone durante questa pandemia.

  Dicevo che privilegio il desiderio senza oggetto, mobile, fluido, trasformativo, non il desiderio di questa o quella cosa. Ora vorrei parlare però del desiderio di verità. A questo punto, sembra che io mi contraddica in quanto parlo di desiderio senza oggetto e al tempo stesso nomino il desiderio di verità, che sembra invece indicare un oggetto. Tuttavia, come ha sottolineato giustamente Gloria Zanardo, la verità non è propriamente un “oggetto”, ma apre un orizzonte di trascendenza, invita alla ricerca di qualcosa che non potrà mai essere afferrato totalmente. Indica un orizzonte trascendente, che va ben al di là delle nostre forze limitate.

   Forse sarebbe meglio parlare di bisogno di verità. In effetti, il bisogno di verità è annoverato da Simone Weil fra i più importanti bisogni dell’essere umano; per lei è anzi il solo bisogno che non abbia un contrario. Infatti, non c’è affatto bisogno di menzogne, di false notizie, e invece ne sono state diffuse fin troppe durante questa pandemia, sul virus stesso e più recentemente sui vaccini. Da questo punto di vista, concordo pienamente con Weil, la quale, opponendosi all’impostazione liberale, vorrebbe limitare drasticamente la libertà di opinione e di espressione quando questa sfocia nella menzogna. Lei ritiene, a mio avviso giustamente, che chi possiede una cultura e ha delle responsabilità pubbliche e politiche debba essere, nel caso di diffusione di false notizie, redarguito – Weil dice addirittura punito penalmente – molto più severamente di chi non ha possibilità di informarsi correttamente.

   Torno però sulla questione: perché parlo di desiderio e non di bisogno di verità? Credo che se il desiderio di verità diventa così profondo, sentito e radicale da penetrarci in ogni fibra del nostro essere possa davvero trasformarsi in bisogno, un bisogno irrinunciabile.

   Faccio solo un esempio, relativo però non direttamente alla verità ma alla giustizia, un altro nome che, come la verità, indica secondo Weil una regione trascendente. L’esempio è quello di Ilaria Cucchi: in lei, il desiderio di giustizia si è trasformato davvero in bisogno di giustizia, un bisogno che l’ha spinta a lottare per dieci anni per ottenere finalmente giustizia per suo fratello – e anche verità sulla sua tragica sorte.

  Quando il desiderio di verità diventa così profondamente radicato in tutto il nostro essere, necessario come il fumo per il tabagista, come il vino per l’alcolista o come la droga per il drogato, solo allora diventa qualcosa di veramente irrinunciabile.

  Al tempo stesso, il bisogno di verità apre un orizzonte potenzialmente infinito: una vita intera non può bastare per esaurirlo. Occorre passare di relazione in relazione, attraverso confronti e scontri, per farlo venire veramente alla luce. Se è veramente radicato, il bisogno di verità apre alla politica così come la intendiamo noi, cioè al confronto, alle relazioni; esso spinge infatti a confrontarsi costantemente con altre in una ricerca incessante.

   Non si tratta affatto di creare un noi collettivo, temutissimo, e a ragione, da Simone Weil, ma di allargare il confronto con altre e altri per mettere alla prova il nostro bisogno di verità. Occorre distinguere dunque fra il bisogno di confronto, di scambio e di condivisione, che passa attraverso relazioni duali, e il bisogno collettivo, di massa, che invece è quasi sempre un surrogato: ad esempio, il consumatore green è un consumatore solitario, ma di massa, che si mette a posto la coscienza acquistando prodotti biologici al supermercato. Ben diversa è la trasformazione di sé e dei propri comportamenti che fa diventare la tutela dell’ambiente un bisogno radicale, profondo e trasformativo.

   Per me, il bisogno di verità è un impegno che mi coinvolge da una vita. Noi di Diotima abbiamo delle pratiche preziose per coltivarlo: il pensare in presenza, l’incontro e lo scontro con altre sono fondamentali per accorgersi degli errori e per rettificarli; sentiamo quando l’intervento dell’altra ci sposta verso parole vere che prima cercavamo a tentoni e che improvvisamente ci illuminano, tagliano con precisione chirurgica, rispondono al nostro sentire più profondo.

   Così, il bisogno di verità non è frutto solo di una ricerca solitaria, che pure è assolutamente necessaria, ma che può anche nutrirsi degli autoinganni dell’io o percorrere strade già battute e scontate, ma richiede il confronto con altre. Nelle pratiche di pensiero scambiato e condiviso con le amiche di Diotima, come dicevo, non si crea un noi collettivo – infatti, non siamo un gruppo, ma una comunità, composta da diverse singolarità in relazione fra loro –, ma si presta attenzione alla parola dell’altra, sentendo quando questa ci colpisce e tocca le corde più intime del nostro essere.

   Quindi, in conclusione, vorrei parlare sia del bisogno sia del desiderio di verità. Nominandolo come bisogno, tengo presente la pressione della necessità con cui esso si affaccia, la sua cogenza, quasi la costrizione a cercare parole vere e ad accoglierle quando altre ce le porgono. Chiamandolo desiderio di verità, mi si affaccia subito l’orizzonte di trascendenza che esso apre, tale che una vita intera non basta a soddisfarlo.

   Potrei parlare infine di amore della verità, un’espressione utilizzata da Weil che comprende in sé sia il bisogno sia il desiderio. Quindi, quando abbiamo a che fare con nomi come questo, che indicano una regione trascendente, un orizzonte che va oltre le nostre forze limitate, la forbice fra bisogno e desiderio non indica più una divaricazione netta, ma tende piuttosto a una coincidenza. Guardato da un lato, l’amore della verità è un desiderio per la tensione e per la ricerca infinita verso cui ci indirizza, guardato da un altro lato l’amore della verità è un bisogno per la cogenza con cui ci si impone e che ci induce a riconoscere le parole vere quando esse vengono pronunciate da noi o da altre. Le parole vere possono anche ferirci perché distruggono gli autoinganni dell’io, ma proprio allora sentiamo che colpiscono nel profondo, che ci toccano e che quindi sono vere.

   Spesso, in Diotima, ho vissuto questa esperienza, soprattutto grazie agli interventi quasi sempre veri e incisivi, capaci di tagliare nodi aggrovigliati o pensieri accomodanti, fatti da Luisa Muraro. Ma anche ora, quando ormai da tempo Luisa non partecipa più alla nostra ricerca comune, sono in grado di riconoscere le parole vere che una o un’altra amica di Diotima mi offre.

  Chiudo quindi esprimendo una profonda riconoscenza alle compagne di Diotima per il contributo prezioso che ciascuna dà all’amore della verità che tutte ci accomuna. Credo che la nostra pratica di pensiero scambiato e costruito in modo relazionale sia uno strumento fondamentale per quell’irrinunciabile che è per me il bisogno-desiderio di verità o, come l’ho chiamato alla fine, per l’amore della verità che li comprende entrambi.

Bibliografia essenziale

Lia Cigarini, La politica del desiderio, introduzione di Ida Dominijanni, Pratiche, Parma 1995.

Françoise Dolto, Solitudine felice, tr. it. di Sergio Atzeni, prefazione di Silvia Vegetti Finzi, Mondadori, Milano 1996.

Ágnes Heller, La teoria dei bisogni in Marx, tr. it. di Annamaria Morazzoni, prefazione di Pier Aldo Rovatti, Feltrinelli, Milano 1980.

Susan Sontag, Malattia come metafora e l’Aids e le sue metafore, tr. it. di Paolo Dilonardo, Nottetempo, Milano 2020.

Wanda Tommasi, Oggi è un altro giorno. Filosofia della vita quotidiana, Liguori, Napoli 2011.

Wanda Tommasi, Ciò che non dipende da me. Vulnerabilità e desiderio nel soggetto contemporaneo, Liguori, Napoli 2016.

Wanda Tommasi, Ora più che mai, “Via Dogana 3”, 6 aprile 2020.

Simone Weil, La persona e il sacro, in Roberto Esposito (a cura di), Oltre la politica. Antologia del pensiero “impolitico”, Bruno Mondadori, Milano 1996.

Simone Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, tr. it. di Franco Fortini, Comunità, Milano 1980.

Chiara Zamboni, Sentire e scrivere la natura, Mimesis, Milano 2020.

Chiara Zamboni, Una svolta esistenziale e politica da cui non si torna indietro, “Via Dogana 3”, 29 luglio 2020.