diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo edizione 18 - 2022

Femminismo ed ecologia

Ecofemminismo nell’America del Sud

Vorremmo incominciare a conoscere alcune strade del femminismo di aree e luoghi dell’America del Sud per vedere come le donne, che abbiamo conosciuto o letto, mettano in gioco il loro rapporto con la natura, quale visione stiano creando e quali pratiche politiche mettano in atto a favore della Terra.

Ci vogliamo muovere attraverso relazioni, cioè coinvolgendo donne di diversi luoghi in una interlocuzione a distanza per comprendere queste vie, non passando attraverso delle generalizzazioni, cioè un modello generale di visione e di pratiche del rapporto donne-natura, ma interrogando ed andando a fondo di alcuni ragionamenti e racconti di esperienza raccolti in uno scambio effettivo. Questo partendo dal presupposto che la conoscenza di alcuni percorsi circoscritti di pensiero, di vita, di esperienze dà una visione in realtà più ampia e più vera di ciò che ci sta a cuore – il legame tra le donne e la natura – rispetto a studi che si vogliono esaustivi ma che portano a delle generalizzazioni.

Da un primo confronto con alcune donne, con le loro testimonianze e con i loro testi, ci siamo rese conto che in molte esperienze[1] tante donne hanno un modo di comportarsi femminista (cioè fanno riferimento come scelta in modo privilegiato ad altre donne riconoscendo una genealogia femminile e un esercizio effettivo di autorità nell’ambito delle loro specifiche realtà) anche se non usano per se stesse il nome femminista[2]. Per cui le pratiche di donne in sintonia con la terra sono molto più estese di quanto non sia l’autodefinirsi femminista o ecofemminista, che risulta una parola che proviene dalla cultura europea e nordamericana.

Almeno tre punti emergono da storie di testimonianze di amiche e da testi letti.

In primo luogo queste donne partono da una visione del cosmo a cui esse stesse contribuiscono e in cui la Terra ha una posizione centrale.

Inoltre, a partire da alcune aree, si sta sviluppando la cultura del buen vivir, ovvero un insieme di concezioni e proposte nate dalla reinvenzione delle cosmovisioni dei popoli originari, in particolare della regione andina. Si tratta di un nuovo paradigma di civiltà, che mette al centro le molteplici relazioni di corrispondenza, reciprocità e complementarietà che legano esseri umani, esseri viventi e natura. Il buen vivir ha costituito la leva per la scrittura della costituzione sia della Bolivia sia dell’Equador. Una scrittura che ha espresso la visione e il desiderio dei popoli indigeni, soprattutto per ciò che riguarda i diritti della terra. Su questa parola c’è ora un dibattito esteso e approfondito in diversi luoghi dell’America Latina, al quale contribuiscono molte donne con una grande inventiva simbolica e di pratiche. Si può pensare a questo proposito alla creazione dell’espressione “corpo-territorio”, che – accostando le due parole – permette di superare una concezione del corpo e del territorio incentrata sul possesso a favore del riconoscimento dell’interdipendenza che rende possibile la vita. Secondo Veronica Gago, «il corpo si rivela così come una composizione di affetti, risorse e possibilità che non sono solo “individuali”, ma che assumono una dimensione singolare passando per il corpo di ciascuna, nella misura in cui ogni corpo non mai solo “uno” ma sempre con le altre e gli altri e anche con altre forze non umane»[3]

In terzo luogo le correnti di pensiero radicale dell’America Latina risentono della forza simbolica che è stata la teologia della liberazione e il concetto di giustizia sociale in essa implicito: una lotta per la liberazione dei poveri. Sono soprattutto le teologhe ecofemministe a ragionare su questo. Ad esempio Ivone Gebara, brasiliana, sviluppa alcuni concetti della teologia della liberazione in chiave ecofemminista, sostenendo che il benessere della popolazione più povera va di pari passo con il benessere delle donne e il benessere della terra. Ma, pur prendendo le mosse dalla teologia della liberazione, la critica non solo in quanto rimane ad una concezione dualista del Dio creatore e della storia umana, ma in più in quanto è androcentrica e non tiene conto del cosmo nel suo complesso. Non ha cambiato epistemologia[4]. Più che di giustizia, che per Gebara è un valore importante ma ambiguo, che può cadere in forme di idealizzazione assieme a quello di amore, verità etc[5], lei propone un cambiamento epistemologico che porta ad una trasformazione dell’atteggiamento etico. È la trasformazione del nostro legame e atteggiamento – l’ethos – nei confronti di tutti gli esseri che le interessa.

Chiara Zamboni

L’intervista che Antonietta Potente ha fatto con noi, che le abbiamo posto domande riguardo alla sua esperienza in Bolivia con particolare attenzione al legame tra la comunità con cui ha vissuto e la natura, ha avuto su di me l’effetto di trasformare un certo pregiudizio che mi ero formata. Soprattutto leggendo testi femministi occidentali che parlavano del rapporto tra la terra e le questioni sociali in America del Sud, mi ero fatta l’idea che ci fosse un forte legame tra questioni della natura, posizione delle donne e lotta per la giustizia sociale. Per questa mia precomprensione, nell’intervista ho posto domande riguardo appunto la giustizia.

Le risposte di Antonietta e l’insieme dell’intervista mi hanno fatto vedere che non è in gioco la parola giustizia, né come valore né come orientamento all’agire. L’insieme del suo discorso mostra che si tratta di un altro atteggiamento e di una diversa visione d’insieme. In una comunità come quella, in cui lei ha vissuto, le donne, gli uomini, le bambine e i bambini, gli animali, le montagne lontane e la terra vicina, lei che era ospite, i giovani, gli anziani e gli antepassados, stanno in un legame in cui ognuno ha una presenza e un compito concreto. Anche ai bambini più piccoli, ad un anno, viene dato l’incarico di occuparsi di un animale, farlo crescere. E ad Antonietta stessa, che era nella comunità da un anno, era stato affidato un agnello, per farlo diventare grande. Viene riconosciuta autorità femminile e lo si vede dal comportamento delle donne nella comunità. 

Chi non rispetta queste consuetudini – la violenza su una donna ad esempio – viene punito anche duramente. La terra è onorata e nutrita come perno di questa visione d’insieme. Eppure la vita è dura, coltivare è faticoso, il clima è freddo. Non c’è niente di facile in questa vita di montagna, ma si capisce dall’amore che Antonietta porta verso questa sua “famiglia” lontana, che di sensato c’è molto.

Così, in questo contesto, la parola giustizia è del tutto astratta e fuori luogo. Non è la misura di una vita sensata. E non è presente il pensiero di un riscatto emancipatorio che il legame tra giustizia e povertà implica. Ci sono state e ci sono sì lotte per questioni precise rispetto alla terra, all’acqua – a Cochabamba per esempio –, ma sono lotte che coinvolgono più comunità e che rappresentano azioni non tanto di controllo e conflitto di potere, quanto per il rinnovamento di questi legami sensati.

Ed infatti: quando c’è bisogno di acqua, si combatte allora per l’acqua, ma per quel tanto che basta.

Mariateresa Muraca

Il dibattito latinoamericano sul buen vivir giustamente prende avvio dal riconoscimento del suo fondamento nella cultura indigena. Allo stesso tempo, contro il rischio di operare generalizzazioni, molti contributi si propongono di mettere a fuoco le specificità dei diversi popoli indigeni che abitano il continente. In molti casi, tuttavia, l’esito è una proliferazione di punti di vista – evidente anche nella moltiplicazione delle parole che lo identificano nei vari contesti linguistico-culturali (per esempio sumak kawsay in quechua, suma qamaña in aymara, kvme felen in mapuche, tekó porã in guarani, bem viver in portoghese) – che può condurre a smarrire il portato trasformativo del buen vivir. La riflessione di Antonietta Potente traccia una via differente sia dall’essenzializzazione che dalla frammentazione del buen vivir, proprio perché è radicata in relazioni concrete e attenta alla modificazione di sé, dell’altro e del mondo che da esse scaturisce. È una posizione in sintonia con quella assunta da altre donne, come Julieta Paredes (Hilando fino desde el feminismo comunitario) che, dalla prospettiva del femminismo comunitario, presenta il buen vivir come un orientamento, un cammino che si va delineando a partire dal riconoscimento e dal potenziamento delle alternative che già esistono

Caterina Diotto

Dell’esperienza in Bolivia con una comunità di Aymara di cui Antonietta ci ha raccontato mi hanno colpita due cose. La prima è che sembra delinearsi una particolare forma della relazione: potremmo chiamarla un esserci a partire dal corpo. Il tessuto di relazioni reciproche che costituisce la comunità, e la posizione sociale all’interno di essa, si costituisce a partire dal corpo di ciascuno e ciascuna, dai suoi bisogni, dalla sua partecipazione agli equilibri armonici tra le cose, dal suo esserci e muoversi negli spazi comuni. La comunità è una comunità estesa: animali, piante, persone, la terra, il cielo, gli astri, gli antepassados. Tutte queste componenti partecipano della comunità a partire dalla loro corporeità, dal loro esserci come anime incarnate e dal piacere. Il concetto di buen vivir ha a che fare anche con questo. Ivone Gebara nei suoi testi, pur riprendendo lo spirito generale della teologia della liberazione come attenzione per gli ultimi, la critica per non essersi affrancata dal paradigma antropocentrico e patriarcale, invocando la ricerca di una epistemologia differente, ecofemminista. L’accostamento tra il pensiero di Gebara e il tipo di intreccio di relazioni descritto da Antonietta mi sembra sorgivo di nuove possibili riflessioni in questa direzione.

Trovo interessante anche il senso del tempo che sembra emergere dalle sue parole. Non un tempo compartimentato tra passato presente e futuro, quanto un tempo dell’ora composto di molti strati compresenti. Un tempo denso in cui accadono e si intrecciano inestricabilmente sia l’ora, sia il passato e la genealogia che da esso deriva – gli antepassados sono invitati alle azioni quotidiane così come a quelle di lotta – sia il futuro. Un tempo in cui, credo, la relazione tra ciò che è stato fatto, ciò che è ora e ciò che va fatto per il futuro non è lineare ma fertile di rimandi inattesi.

Anna Maria Piussi

Nella narrazione di Antonietta della sua esperienza di vita quotidiana in una comunità Aymara in Bolivia a un certo punto lei spiega le motivazioni della sua scelta, tra le quali il bisogno di “un’altra anima, la lettura della vita da un’altra parte”. Queste sue parole mi richiamano l’esigenza profonda della ricerca della libertà femminile, al cuore del femminismo della differenza, e insieme l’esigenza della ricerca di nuove forme di rapporto con la natura, a cui siamo interessate. Mi ha colpito la sua affermazione che le persone con cui ha abitato e l’hanno ospitata, non supportano con ideologie o sistematizzazioni di pensiero le loro forme di vita, il loro legame di reciprocità con la terra e con il cosmo, il rapporto tra visibile e invisibile, ecc. Sono persone che vivono in “uno stato pre-teorico, originario”, e anche i giovani che hanno studiato in città hanno in modo spontaneo questa relazione con la terra e con la vita, l’hanno imparata dagli antepassados, dalla madre. È una relazione che non impari dai libri, non la impari dalle teorie, dice Antonietta, e lei stessa l’ha imparata vivendola nella quotidianità della famiglia indigena ospitante.

A confronto con forme di vita comunitarie come queste, dove ogni membro, vivente e non vivente, ha un suo posto e concorre all’armonia relazionale con il tutto, e dove è centrale il gusto profondo della vita (anche nei suoi lati difficili e dolorosi), emergono i limiti di tante posizioni ecologiste di matrice occidentale (e prevalentemente maschile), che puntano a indurre intellettualisticamente la consapevolezza di un necessario rinnovato rapporto con la natura e con il pianeta, peraltro spogliati della loro soggettività e assunti come oggetti di analisi scientifiche o di programmi di tutela. Il racconto di Antonietta sembrerebbe mostrare come solo l’aver fatto esperienza diretta di queste forme di vita, l’aver nutrito per lungo tempo l’anima corporea (sua espressione) con la cura della vita seguendo la sapienza indigena, possano provocare quella conversione ecologica di cui abbiamo bisogno per stare bene e per generare nuova civiltà. Immettersi con forza e libertà femminile in un cammino di trasformazione delle nostre forme di vita (del Nord del mondo) in risonanza con pratiche e culture come quelle narrate da Antonietta, o prendendo da esse ispirazione, mi sembra possa contribuire a generare quell’epistemologia e quell’ethos ecofemminista necessari per il nostro tempo.  


[1] Come quella di Mariateresa Muraca con le donne contadine dello stato di Santa Caterina in Brasile, di cui parleremo, e nell’intervista ad Antonietta Potente che proponiamo in questo numero della rivista.

[2] Si veda Ivone Gebara, Longing for Running Water, Fortress Press, 1999, Minneapolis p. 4.

[3] Veronica Gago, La potencia feminista: o el deseo de cambiarlo todo,Traficantes de Sueños, Madrid 2021, p. 97.

[4] I. Gebara, Longing for Running Water, op. cit., pp. 45-47 e Id., Intuitiones ecofeministas. Ensayo para repensar el conocimiento y la religión, Editorial Trotta, Madrid 2000, pp. 66-69.

[5] I. Gebara, Longing of Running Water, op.cit., p. 44.