diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 7 - 2008

Lei non sa chi sono io

Dislocarsi per amore di quella cosa lì

Nel ‘43 a Londra,  pensando alla  futura ricostruzione della Francia dopo la fine del conflitto, Simone Weil sosteneva la necessità di abolire i partiti politici e adottare provvedimenti che fossero in grado di impedire qualsiasi cristallizzazione di relazioni, anche quelle che potessero nascere intorno a riviste. [i] Partiti, gruppi, chiese, ogni tipo di organizzazione collettiva, affermava, impediscono il pensiero personale – e quale  pensiero  può esistere che non sia personale?- e l’ attenzione necessaria alla ricerca del bene e della verità. Il riconoscersi all’interno di una identità collettiva, l’appartenere, determina una scissione nella persona che, esponendosi pubblicamente, sa di dover rappresentare  un predeterminato punto di vista. E quindi inizia il suo intervento dicendo: come comunista, come socialista… Non dice io penso, ma il mio gruppo pensa…

La fedeltà ad un punto di vista posto fuori di sé, da rendere di volta in volta presente prima di tutto a sé stessi, è ottenuta attraverso il timore della scomunica, sono gli affetti – la paura di perdere le relazioni e di danneggiare quindi il proprio interesse (non inteso in senso strettamente economico), che intorbidano il pensiero e impediscono di assumere una posizione personale, libera.

I partiti, diceva S. Weil, sono totalitari perché invece di mirare al bene comune, mirano al raggiungimento del potere, e quindi al rafforzamento della propria parte,  e così il bene proprio – del partito- da mezzo si trasforma in fine.

Finita l’epoca dei partiti le coalizioni che gestiscono oggi la vita politica e amministrativa, non hanno più un punto di vista ideologico da rendere presente ( rappresentare), ma non per questo lasciano maggior spazio alla soggettività personale degli eletti, i quali sono tenuti ad una fedeltà di parte: è pura logica di potere quella che prescrive il comportamento di chi sta al governo e di chi sta all’opposizione. Il copione polemico del gioco rappresentativo si allontana sempre di più dalla vita quotidiana dei cittadini e dai loro bisogni. Anche a livello locale, dove i provvedimenti su cui si delibera riguardano la vita di una città, con i suoi problemi di servizi sociali, di inquinamento, di viabilità, di uso degli spazi  e del patrimonio pubblico, di convivenza tra diversi, si riproduce la stessa scena rituale: chi è all’opposizione denuncia il malgoverno dell’avversario anche quando le decisioni cui si oppone sono le stesse che aveva  annunciato di voler prendere quando, magari solo qualche mese prima, era al governo.

Tra chi sta al governo e chi sta all’opposizione si può praticare con successo la lettura del pensiero, ogni mossa è prevedibile, obbligata e si può dare per scontata.

In questo sistema invischiante che non lascia posto né al pensiero né all’invenzione personale è chiaro non possa emergere soggettività femminile. Le poche donne che si sono lasciate sedurre dalla rappresentanza sono prigioniere della logica istituzionale e del prescritto gioco tra le parti. La  capacità creatrice delle donne si svela invece quando si attiva nella vita sociale di un luogo, creando relazioni nuove ed imprevedibili, che  mettono in crisi  vecchie appartenenze e collocazioni ideali. Quello che nasce allora non trova corrispondenza nelle rappresentanze ed ha origine solo dal coinvolgimento personale di alcune persone che, lasciate cadere vecchie appartenenze, a volte con sorpresa, si ritrovano ad essere insieme, per amore di quella cosa lì. Spesso ciò che muove è l’amore per il proprio territorio, la difesa dell’ambiente e della  salute. E’ accaduto col no TAV in Val di Susa, lo abbiamo visto a Vicenza con la lotta no al Dal Molin e certamente sta accadendo anche in Campania dove le donne sono in prima fila a difendere la salute dall’inquinamento delle discariche.

Poiché quello che accade non è leggibile attraverso lo schema delle alleanze tradizionali subito si affaccia l’interpretazione screditante della strumentalizzazione e, nel caso della Campania,

dell’ infiltrazione  mafiosa.  C’è anche chi accusa questi movimenti spontanei di autodifesa di particolarismo locale, mancherebbe, a chi difende il suo territorio, l’ottica dell’interesse nazionale e la capacità di elaborare strategie globali di risoluzione dei problemi. Al contrario si può pensare che se tutti difendessero così accanitamente il loro, certe scelte devastanti dovrebbero essere rimesse radicalmente in discussione.

A chi ha a cuore qualche cosa per la città o per il paese in cui vive il gioco democratico lascia poco spazio d’azione. Per amore della cosa si deve imparare a dislocarsi, a mettere a rischio relazioni, lasciando cadere appartenenze che da tempo non abbiamo rimesso in discussione. Le appartenenze sono questione di affetti ci dice Simone Weil. Sono cristallizzazioni di relazioni. Alcune, se penso alla mia storia, direi che le abbiamo addirittura ereditate nascendo, altre le abbiamo assunte frequentando determinati contesti, intessendo relazioni di scambio e di dipendenza che ci mantengono in una rete di debiti e di crediti con determinate persone, per cui sentiamo che c’è un problema di fedeltà.

Quanto si può essere infedeli?  Quanto dei legami che costituiscono la nostra identità siamo disposte a mettere a rischio?

Che l’ amore di una cosa  possa mostrare diversamente il reale, -uscendo dalle letture condivise all’interno di alleanze e di appartenenze fisse – perchè l’amore tiene viva la speranza e fa cercare aperture invisibili, perché quella cosa non la vuoi dare per morta in anticipo, l’ho sperimentato in prima persona qualche mese fa a Verona con il cambiamento della giunta.

Pochi anni fa, quando il governo della città era venuto fortunosamente  ( a causa di una scissione interna a F.I.)  nelle mani del centro sinistra,  ci era stato possibile, attraverso una originale forma di coprogettazione con l’assessora alle Pari Opportunità e alla Cultura delle Differenze, dare vita ad un centro interculturale di donne, Casa di Ramìa, nel quartiere universitario e multietnico della città.

Al momento della sua creazione e apertura Casa di Ramìa era frutto del desiderio condiviso di un gruppo di donne, più italiane che straniere, – fondatrici dell’Associazione Ishtar- e di una amministratrice alle prese con il suo nuovo compito. Il progetto si fondava, almeno in parte, su un’immaginazione proiettiva: che le straniere nutrissero un desiderio di incontrarsi con noi pari a quello che noi avevamo di conoscerle al di là delle occasioni di incontro che la vita quotidiana ci offre, segnate dalla disparità sociale, che vedono donne e uomini stranieri collocati nei lavori produttivi e dei servizi al livello più basso, sprezzando il livello professionale acquisito nei paesi d’origine. Dovevamo poi verificare che il nostro bisogno di incontro multiculturale era solo parzialmente condiviso dalle donne straniere che nel tempo però hanno fatto di Casa di Ramìa una cosa loro, soprattutto un luogo di ritrovo delle loro comunità o di attività tradizionali o rituali. La possibilità di usufruire della Casa ha stimolato alcune donne straniere a dar vita a gruppi informali o a vere e proprie associazioni femminili legate all’origine: la domenica è il giorno delle badanti ucraine, il sabato dell’associazione  delle donne nigeriane, e da poco è nata Lankika l’associazione delle donne dello Sri Lanka, così numerose nel quartiere e che occupano tutti gli interstizi temporali  della vita della Casa, perennemente invasa da bambine che apprendono i gesti delle danze tradizionali.

Quando in maggio è cambiata l’amministrazione comunale ed è stato eletto al primo turno con grandissima maggioranza un sindaco leghista, che ha fatto della campagna per la sicurezza il suo cavallo di battaglia,  le nostre amiche politiche, impegnate ora a giocare il ruolo dell’opposizione, hanno cominciato a dare per scontato che l’esperimento Casa di Ramìa fosse concluso e a darla per morta, prima ancora che i nuovi amministratori si fossero accorti della sua esistenza. Cominciava a girare la voce della chiusura, messa in giro da chi diceva di temerla, in quella logica di lettura del pensiero che regge il gioco politico, che anticipa la mossa dell’altro e in qualche modo lo costringe a realizzare la tua aspettativa. Bisognava invece scommettere sulla possibilità di trovare ascolto nella nuova giunta. Almeno provarci. Per una come me, che vanta nella sua genealogia paterna un nonno che fu trai fondatori del PCI nel 1921, cercare una relazione con l’assessore di AN non era affatto ovvio, tuttavia era necessario. Se la cosa cui tieni non è tua, ma è divenuta vivente di vita propria e preziosa per alcune,  parte della tua storica identità diviene solo un inciampo e bisogna sporgersi fuori di sé e provare ad interloquire. Che con il nuovo assessore, maschio, alle Pari Opportunità si potesse parlare me l’aveva assicurato un’amica, una donna che amo e stimo, la quale conosce e frequenta persone  di ogni parte ed ambiente, senza pregiudizi ideologici, con una sua particolare capacità di presenza personale che le permette di entrare con molti in una comunicazione non banale. Senza la sua mediazione non sarebbe stato pensabile da parte mia, né  accettabile da parte dell’assessore, l’ invito a partecipare ad una festa multiculturale a Casa di Ramìa, nella quale tutte le abitanti del luogo avrebbero fatto mostra di sé. Così, grazie ad una amicizia comune, che  ha permesso un incontro al di là delle frontiere ideologiche, la Casa è tuttora aperta e viva.

L’amore è una grande forza modificatrice e fonte di invenzioni e di stratagemmi, come sapevano Socrate e Diotima, e come a tutte è capitato di scoprire quando ci è accaduto di innamorarci. Quando l’ amore ci guida siamo noi innanzi tutto ad essere modificate, ma questa trasformazione  riverbera nella realtà.

[i]               Vedi Simone Weil,  Nota sulla soppressione dei partiti politici, trad. it Giancarlo Gaeta, in Diario anno IV,.n 6, giugno 1988, ( ed.orig. in Ecrits de Londres, Gallimard 1957 )