diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo edizione 18 - 2022

Altri mondi al mondo

Dalle acque del mare, tracce della memoria viva del presente

Da qualche mese è uscito Archivi dell’acqua salata. Stragi di migranti e culture pubbliche, una ricerca svolta negli ultimi sei anni con il supporto di Clotilde Barbarulli e Liana Borghi. A Liana, attivista lesbica colta e sapiente, instancabile tessitrice di relazioni transfemministe e creatrice di spazi di confronto e trasformazione collettiva che ci ha lasciate a novembre e ci manca molto, desidero dedicare la presentazione di questa ricerca che si è fatta libro grazie al sostegno di Isabella Peretti e Stefania Vulterini, curatrici della collana Sessismoerazzismo di Ediesse/Futura edizioni[1].

La scintilla è scoccata nell’estate 2011, alla scuola estiva della Società italiana letterate e dell’Associazione Il Giardino dei ciliegi di Firenze[2], dedicata agli Archivi dei sentimenti e delle culture pubbliche. Intenzione delle appassionate ideatrici, Clotilde Barbarulli e Liana Borghi, era affrontare il tema degli affetti a partire «dall’archeologia delle emozioni traumatiche, per indagare il rapporto tra memoria e discorso culturale; per vedere come il ricordo si inscriva performativamente nello spazio pubblico»[3].

L’intervento di Clotilde Barbarulli Gli archivi dal mare salato[4] mi colpì profondamente: con l’intenso approccio politico che la contraddistingue, la studiosa affrontò il tema dei naufragi di migranti nel Mediterraneo e delle politiche neoliberiste che portano a tali stragi, tratteggiando un possibile “archivio salato dal mare”, contenente le storie di chi in quel mare si è perso, di chi al viaggio è sopravvissuto, dei familiari rimasti là, e di chi nelle terre lambite da quel mare vive. Dopo la scuola estiva, spontaneamente iniziai a raccogliere tracce delle stragi e dei naufragi marini, collezionando articoli e notizie al riguardo, sollecitata dalla domanda di Clotilde: «quale archivio abbiamo per i nostri sentimenti verso tali eventi?»

L’approccio storico (sono laureata con una tesi sul movimento femminista bresciano degli anni ’70 realizzata con interviste alle militanti dell’epoca) si univa allo sguardo interculturale formatosi in un decennio di lavoro come operatrice in uffici per persone straniere e nell’impegno politico  con l’Associazione Diritti per tutti[5], organizzazione antirazzista bresciana che, nel 2010, supportò la  protesta degli immigrati saliti su una gru per chiedere il permesso di soggiorno come dignitosa fuoriuscita dalla condizione di  sfruttamento e invisibilità prodotti dalla clandestinità.

Nel 2003 avevo partecipato in veste di coordinatrice organizzativa ad un corso per mediatrici culturali, progetto scaturito dagli incontri in consultorio tra donne native e straniere che da anni si riunivano per il curioso gusto della reciproca conoscenza. Delfina Lusiardi ideò insieme ad altre donne impegnate nell’ambito della formazione questo corso destinato a donne migranti, Il Bagaglio invisibile, partendo da ciò che si rendeva evidente in quegli incontri: la competenza femminile nell’accoglienza e nella creazione di spazi che rispondono al bisogno di radicamento. In particolare, la sapienza femminile nella creazione della “casa” mostrava come la migrazione potesse divenire un processo di trasformazione della città arricchente per tutti e tutte.  Il libro Il bagaglio invisibile. Storie di vita e pratiche di mediazione[6] che racconta a più voci l’esperienza vissuta da donne migranti mi stimolò ad ampliare ulteriormente la ricerca, grazie alla tessitura di relazioni che mi misero a contatto con i diversi “bagagli invisibili” giunti nella mia città e provenienti da posti lontani.  Ho imparato così a vedere come donne ucraine, albanesi, marocchine, siriane, brasiliane, libanesi, ghanesi, si stavano radicando nelle nostre città e paesi, mettendo in gioco strategie differenti, invenzioni felici e scelte dolorose. Grazie al confronto ed alla conoscenza abbiamo imparato la consapevolezza del dono di sé che viene dall’ascolto reciproco e dalla disponibilità alla relazione. La valorizzazione delle esperienze delle donne straniere da parte delle native è stata la pratica che ha permesso ai “bagagli invisibili” di tutte di rendersi visibili e di creare spazi abitabili nelle differenze.

Quando, nell’ottobre del 2013, avvenne l’immenso naufragio di Lampedusa, all’epoca la strage marina più grande dopo la seconda guerra mondiale, nella quale morirono trecentosessantotto persone, sentii che quanto stava avvenendo mi coinvolgeva intimamente. Partecipai alla chiamata sull’isola promossa dai movimenti antirazzisti per scrivere dal basso una carta dei diritti: la Carta di Lampedusa[7]. Forte è stato l’impatto emotivo della tre giorni su quell’isola, insieme a centinaia di persone, diverse tra loro, unite dal tentativo di ribaltare l’immaginario sulla migrazione e le politiche governative improntate su sicurezza e razzismo istituzionale.

Al ritorno dall’isola, preparando alcune presentazioni pubbliche della Carta di Lampedusa, creai un archivio di quella strage. Raccogliendo immagini, articoli, frammenti di vite, diventava per me sempre più evidente quanto conta il modo in cui le storie e gli eventi vengono narrati. Costruire gli “archivi dell’acqua salata” diventava una necessità forte, un’urgenza politica. Volevo indagare come le stragi marine di migranti entrano a far parte delle culture pubbliche, in che modo affetti e sentimenti relativi a queste tragedie segnano l’immaginario collettivo, come si costruisce la dimensione sociale delle emozioni e, di conseguenza, la formazione di opinioni politiche. La memoria culturale ha a che vedere con la gestione del potere. Cosa viene scelto di ricordare? Cosa viene deciso di dimenticare? Quali eventi si commemorano? Quali fatti storici diventano feste nazionali? Per quali avvenimenti si costruiscono monumenti?

Ho iniziato così a leggere saggi, raccogliere articoli, vedere film e documentari dedicati alle persone migranti, alle loro traversate. Si creava un mosaico, un racconto composto da squarci narrativi sui maggiori naufragi avvenuti, più che una canonica ricostruzione storica.

Per comprendere meglio il contesto ho utilizzato romanzi, utili strumenti per la loro capacità di fotografare i mutamenti della società attraverso sguardi differenti di soggettività plurali. La letteratura infatti oltre alla funzione di memoria storica svolge, nel mondo globalizzato, anche un ruolo di ibridazione sociale, culturale, identitaria. Ho usato come fonti anche opere artistiche per l’importanza che rivestono nel creare immaginario e suscitare emozioni che possono influire e cambiare le culture pubbliche.

Ho ricostruito questi contesti conscia del mio posizionamento[8]: sono una donna cisgender, bianca, stanziale, cittadina, istruita, nutrita, con facile accesso alle cure mediche, lavoratrice con contratto a tempo indeterminato; finora ho viaggiato per turismo, sempre ottenendo senza problemi i visti dei paesi in cui volevo recarmi, o senza visto poiché chi ha il passaporto italiano può entrare liberamente in 156 paesi. Consapevole dei privilegi che tutte queste condizioni determinano, senza aver alcun merito al riguardo, ho scelto di stare dalla parte di chi, da anni, contesta le leggi sull’immigrazione, in particolare la Bossi-Fini, e individua nelle politiche che le attuano i mandanti delle stragi marine.

Sono convinta che ogni persona, indipendentemente da dove sia nata, qualunque sia il genere e l’orientamento sessuale che incarna, debba godere di alcune intangibili libertà: lasciare il luogo d’origine senza rischiare di morire, costruire una vita degna nel luogo in cui vive, avendo garantiti i diritti sociali: un’abitazione adeguata, la tutela della salute, l’istruzione, l’accesso a un lavoro  privo di sfruttamento e discriminazione, la partecipazione alla vita politica, culturale e sociale.    

Di libro in libro, e ritrovando in mostre e film immagini che lasciano tracce indelebili nella memoria, gli archivi dell’acqua salata prendevano forma come una narrazione di storia del presente che ci riguarda tutte e tutti. Raccontare delle persone morte in mare è una forma di scrittura storico-politica dolorosa che ripercorre recenti stragi, eventi drammatici e conflittuali, e li mette al centro delle culture pubbliche. Un trauma è forse sopportabile se l’esperienza scaturita da un evento violento viene narrata, assunta nella storia di vita, singola e collettiva. Narrare l’inenarrabile come forma di resistenza, rendendolo una memoria affettiva condivisa: ho sentito che questo era il mio compito.

Di contro a un linguaggio giornalistico e istituzionale che mostra in modo distaccato e seriale immagini di barconi e masse anonime di persone, puntando sull’aspetto securitario, le diverse opere che raccontano i naufragi danno spazio alla vita e all’umanità delle persone coinvolte nelle migrazioni contemporanee. In alcuni casi sono proprio donne e uomini migranti a dire con parole proprie ciò che sta avvenendo globalmente a partire dal loro vissuto personale, uscendo così dalla semplificante rappresentazione binaria che si fa di loro: povera gente bisognosa oppure pericolosi invasori.

Ho dato spazio a queste narrazioni affinché le persone immigrate non risultassero, soprattutto nei transiti più pericolosi e nelle stragi marine, solo come vittime passive, essendo determinate protagoniste dei viaggi intrapresi. La loro soggettività è al centro delle dinamiche migratorie, e scardina le logiche di mercato basate sui dati oggettivi come offerta e domanda di lavoro nella sua organizzazione globale, eccedendole.

Scrivere questo libro ha mosso diverse emozioni: dalla rabbia al senso di impotenza perché le morti di cui narro sono morti evitabili, create da politiche migratorie, italiane ed europee, incuranti del valore delle vite umane. Il desiderio di giustizia che attraversa l’archiviazione, muove le azioni di chi si batte per il recupero dei corpi delle persone annegate, per l’identificazione dei cadaveri, per la celebrazione di rispettosi funerali, per avere nomi e non numeri sulle tombe, per costruire monumenti.

Dire i nomi, ricordare le biografie, tenere in vita le persone uccise sono gesti che facciamo, nei presidi di Non una di meno[9], di fronte ad ogni intollerabile femminicidio, mettendo in atto la pratica femminista, imparata dalle compagne latinoamericane, che porta dal lutto alla lotta. Come far uscire il dolore, la tristezza, la paura dal corpo per superare il lutto, per trasformare questi sentimenti in energia rivoluzionaria? Attraverso forme di denuncia sociale e rituali simbolici nello spazio pubblico, atti di giustizia per mantenere la salute mentale di fronte al trauma e farsi del bene, agendo collettivamente.

Con gli “archivi dell’acqua salata”, contenitore dove trovano spazio diverse storie, punti di vista, narrazioni di chi arriva e di chi è già qui, ho voluto contribuire ad una cultura pubblica plurale, aperta al riconoscimento di “soggettività non conformi e non identitarie, portatrici di desideri e pratiche di trasformazione, in una ricerca del comune che esprima la tensione a costruire un orizzonte condiviso nella diversità”[10].

I frammenti che compongono l’archiviazione permettono di evocare racconti personali, storie di vita che rimarrebbero al di fuori della Storia, brandelli che insieme costituiscono una memoria performante e inclusiva delle soggettività e dei loro sentimenti. Frammenti di vite che, se colti con attenzione, nel flusso incessante della comunicazione, possono lasciare tracce significative nelle culture pubbliche formando un intreccio di umanità su cui costruire radici comuni per una società solidale.

Una targa all’ingresso del cimitero di Lampedusa ricorda che lì hanno trovato sepoltura un numero imprecisato di donne e uomini morti nel tentativo di raggiungere l’Europa. La quasi totalità delle tombe non riporta un nome e le uniche notizie recuperate dalle storie di queste persone riguardano le circostanze della loro morte o del ritrovamento dei loro corpi. Sulla targa compare anche una poesia di Emily Dickinson:

Provare lutto per la morte di chi
     non abbiamo mai visto –
     implica una parentela vitale
     fra l’anima loro – e la nostra –
    Per uno sconosciuto – gli sconosciuti non piangono[11]

È questa “parentela vitale” tra esseri umani che va nutrita, ponendo fine all’assurda opposizione tra persone native e migranti, per preservare ciò che abbiamo in comune, quella necessità di salvarsi, di vivere vite sicure e degne, con la volontà di «tenere insieme le differenze di chiunque” nella lotta “per migliorare questo mondo: il valore della vita umana, del rispetto per le persone»[12]. Una pratica politica irrinunciabile.


[1] Si veda: https://www.ediesseonline.it/prodotto/archivi-dellacqua-salata

[2] Per la storia delle scuole estive consultare i seguenti siti: http://xoomer.virgilio.it/raccontarsi, http://xoomer.virgilio.it/raccontarsi/edizioni_precedenti.html, https://www.raccontarsialgiardino.it

[3]Clotilde Barbarulli e Liana Borghi, Le nostre idee per il convegno Archivi dei sentimenti e culture pubbliche, 4-6 marzo 2011, testo consultabile sul sito dell’Associazione Il Giardino dei ciliegi a questa pagina: http://www.ilgiardinodeiciliegi.firenze.it/nuovosito/attivita/Incontri-seminari/Incontri/anno%202010-2011/Archivio%20sentimenti.htm

[4]Clotilde Barbarulli, Archivi dal mare salato, intervento del 26 giugno 2011 alla Scuola e Laboratorio di Cultura delle Donne, testo alle pagine 39-48 del report: https://www.raccontarsialgiardino.it/wp-content/uploads/2021/03/2011-Librino-Duino.pdf

[5] Si veda: http://dirittipertutti.gnumerica.org/chi-siamo

[6] Pamela Marelli e Delfina Lusiardi (a cura di),  Il bagaglio invisibile: storie di vita e pratiche di mediazione interculturale, Assocoop, Brescia, 2004, p.11.

[7]La Carta di Lampedusa è una carta che riguarda le libertà di tutt*, tenendo conto delle diverse esperienze che si vivono a partire dal genere che si incarna, affinché ogni persona che si sposta per scelta o costrizione, possa realizzare senza discriminazione i propri progetti di vita, si veda http://www.lacartadilampedusa.org/index-italiano.html

[8]Per approfondire il concetto di posizionamento elaborato da Adrienne Rich, http://www.medmedia.it/review/numero2/it/art3.htm

[9] https://nonunadimeno.wordpress.com/

[10] Clotilde Barbarulli , Gli archivi dal mare salato, cit., p. 47.

[11] http://questastoria.com/cimitero-lampedusa/

[12]Alessandra Sciurba, Salvarsi insieme. Storia di una barca a vela sulla rotta dell’umanità, Ponte alle Grazie, Milano, 2020, p.61.