diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 9 - 2010

Pensare in presenza

Dalla Scuola di Scrittura Pensante

 

 

Maddalena Pezzato

Godimento della presenza, lievito politico

 

 

L’esserci fisico degli altri e delle cose è il modo in cui la categoria della presenza si lascia meglio pensare, perché appunto essa viene abitualmente concepita come il qui ed ora misurato a partire dall’esserci di un corpo-relazione, cioè poi della carne. Tuttavia la mia esperienza mi dice che la categoria della presenza è anche altro, e anzi io credo che quella aperta dal corpo sia fondamentale ma precisamente al modo di un basso tono a cui possiamo non prestare attenzione perché (qualora non sia espressamente fonte di dolore o di disorientamento) essa è il “buono” non tematizzato, quello della materia e dell’essere, che diventa manifesto solo quando viene a mancare. In questo senso forse mi pare possibile parlare di godimento piuttosto in termini di quel piacere silenzioso che c’è come ciò che fa bene, quale è appunto l’essere presenti fisicamente, il viversi nel proprio corpo in relazione ad altri, e il vivere degli altri corpi e delle cose che ci circondano. Direi che l’esperienza della presenza alla libreria delle donne, fra donne, per me è significativa in questo senso. E se fossi tra uomini? Mi domando se, in questa eventualità, i riferimenti alla sfera della sensualità e dell’erotismo non diventerebbero allora più evidenti. In ogni caso mi sembra che l’aspetto della differenza sessuale non sia ininfluente in un discorso sulla presenza come immediato fattore di godimento.

In merito alla mia esperienza al corso di scrittura mi preme parlare dunque dell’ altro modo secondo cui si fa esperienza di presenza, e secondo cui il trovarsi insieme è erotico. Quanto dico mi sembra sia anche suggerito dal testo di Chiara Zamboni, lì dove parla del corpo come di ciò che ha con le persone legami incrostati di parole sedimentate, segnati dalla storia personale, intessuti delle parole più importanti che hanno marcato la nostra esperienza affettiva. C’è infatti, per me, una presenza aperta dalla parola e dalla conoscenza che attraverso la parola si dispiega. È questa la presenza capace di accendere, come scrive Chiara Zamboni, facendo sentire molto forte sia l’essere dell’altro sia il nostro. La mia esperienza mi dice che sono la parola e la conoscenza a rendere pienamente erotico lo spazio dei corpi, e in questo senso il godimento è tanto più forte quanto più c’è già scritta una storia, di amicizia o di pensiero. E’ come il godimento della propria casa, degli oggetti familiari, che ci parlano di noi e nei quali ci riconosciamo; e questo godimento lo sperimentiamo quando troviamo qualcosa di noi anche fuori, o quando gli altri cercano qualcosa di loro stessi in noi. Mi pare che ci voglia, perché questo piacere della presenza si dispieghi superando l’effetto di anonimato, un po’ di tempo; che ci voglia il farsi di una storia, affinché ci sia il godimento della narrazione. Tempo, ma anche impegno, partecipando attivamente, mettendosi in gioco a tutto tondo, condividendo il mondo emotivo e quello del pensare. Aspetti questi che non sono involontari come l’immediata apertura agli altri, perché essi rispondono solo alla presenza del desiderio, il vero motore di tutto. Che sono anzi a volte problematici per chi, come me, ha la nostalgia di una presenza lontana, che scappa, che si nasconde, che abita sempre altrove.

 

 

 

Stefania Ferrando

Presenza fuori misura

 

Quando vengo a Milano, mi capita spesso di passare di fronte alla stazione Cadorna. Nella piazza c’è una scultura: un ago da cucito enorme, con un filo colorato nella cruna, che sprofonda nell’asfalto e spunta dall’altro lato, come se dovesse ricucire quel lembo di strada. Oldenburg ha fatto tante altre opere come questa: biciclette ciclopiche, gigantesche racchette da pingpong, un mastodontico cono gelato rovesciato al contrario sul tetto di un palazzo. Oggetti fuori scala, che se ne stanno lì, tra le case, nel centro delle città.

C’è qui, in questa smisuratezza, qualcosa che mi rapisce. Il godimento della presenza, di cui Chiara Zamboni parla, ha, per me, qualcosa a che fare con questo. C’è, nella presenza, qualcosa di eccessivo, di fuori misura. La smisuratezza è nella presenza dell’altro, nel suo desiderio e nella sua domanda, è nella presenza del mondo, con i suoi tratti sovrabbondanti, che toccano nel corpo, nella carne, e ci fanno imbattere in qualcosa di noi che è inatteso, e a volte pare ingovernabile. E il godimento è per questo di più, per questo eccesso. Ma il grande ago, o la bici gigante, non invadono con la loro presenza. Questa presenza non dilaga. Sono fuori misura, ma ci stanno. E così dovrebbe essere anche nella nostra esperienza, altrimenti la presenza ci risucchia e siamo invasi dall’angoscia.

Come fare? Non si può negare la smisuratezza, la presenza non si lascia ridurre a qualcosa di afferrabile, ma non si può neppure starle di fronte, così, a mani vuote. Bisogna trovare delle parole da far girare attorno a questa presenza di cui si gode, farla passare nel simbolico, e questo ho cominciato a intuirlo anche grazie all’esperienza della prima scuola di scrittura. Ma c’è ancora un passo da fare.

Ad un certo punto Chiara Zamboni, parlando dei rapporti che il lato inconscio del corpo ha con gli altri e con le cose, scrive che essi sono incrostati di parole, impregnate dalla nostra esperienza affettiva. E le parole diventano così non solo ciò che consente di mediare, ma anche ciò che è già, in sé, carico di presenza, che si porta dietro rimandi, echi di legami sotterranei e tenaci. E per questo le parole possono trascinare con sé un fardello eccessivo, che rallenta o impedisce la mediazione di ciò che ci accade e ci lascia soli, nel silenzio, con la presenza, tra parole che non la toccano e altre che non sappiamo toccare.

Occorre, allora, mediare e spostarsi anche rispetto alle proprie parole. Lo spazio per poter stare nella presenza, senza negarla, ma senza che il suo eccesso ci divori, domanda non solo parole, ma un’invenzione di parole, la libertà di sapersi spostare non tanto rispetto al brusio delle mediazioni date circolanti, ma, ancor di più, rispetto a quelle segnate dalla nostra storia, cariche di richiami e risonanze, e per questo così difficili da ricontrattare, o da lasciare o da giocare con leggerezza. Si tratta solo di un’intuizione, che ho intravisto in una delle prime lezioni di quest’anno. Nella seconda esercitazione, quella in cui ci è stato chiesto di descrivere la copertina della nostra autobiografia, è emerso un residuo di immaginario arcaico, un risucchio verso il passato, forse verso la madre, che aveva impedito, a me, e anche ad altre, di trovare idee e soluzioni per pensarci, e per farci, protagoniste del nostro tempo. Ecco, ho pensato, anche queste parole, pulsanti di affetti e legami profondi, vanno rilanciate. Come diceva Giovanni della Croce, bisogna accettare di perdere, solo così si può essere presi. È solo nel momento in cui ci si sposta dal punto in cui si era, correndo il rischio di lasciar andare qualcosa, insieme a quella parte di sé che ad esso era così intimamente, e pulsionalmente, legata, che si è presi dall’apertura agli altri e alle cose, che si gode della presenza, sapendo stare nel paradosso del legame con qualcosa di fuori misura che però ha un suo posto.

 

 

 

 

Sara Gandini

Le mie amiche sono bellissime

 

 

Le mie amiche sono bellissime. Lo premetto sempre quando racconto di loro. Si chiamano Laura e Laura. Per distinguerle parlo di Laura che sta a sinistra e di Laura che sta a destra – nella mia mente. Con Laura di sinistra ho vissuto anni di conflitti feroci, prima di riuscire a trovare la giusta distanza. Con Laura di destra basta poco per capirsi: fin da subito ho avuto la consapevolezza che sarebbe stata la sorella della mia vita.

Quando abbiamo deciso tutte e tre di partecipare alla Scuola di scrittura pensante ero felicissima. L’idea di condividere con loro questa esperienza mi eccitava. Vivevo come un lusso il concedermi alcune ore per noi, tutti i sabati mattina, per più di tre mesi. Vivevo come un privilegio il potermi concedere questo spazio, perché sapevo che sarebbe stato un nutrimento per me, per il mio pensiero, per il mio cuore. Ma sapevo anche che non sarebbe stato facile. Si trattava di una sfida con me stessa prima di tutto, perché da sempre era radicata in me la convinzione di non saper scrivere, di non avere il gusto della scrittura. Il senso di inadeguatezza faceva problema però l’idea di condividere questa avventura con le mie amiche era l’ingrediente necessario e sufficiente per rendere l’esperienza interessante. Sapevo che la mia voglia di partecipare, di fare i salti mortali per trovare il tempo per esserci, dipendevano in gran parte da loro, dal fatto di poter godere della loro presenza, della loro bellezza.

La bellezza cui penso ha a che fare con la felicità di incontrarle, di scambiare sguardi di intesa, di intuire dal loro viso, da come si muovono, se sono preoccupare, arrabbiate, se sentono il bisogno di discutere, di confrontarci. Ha a che fare con un desiderio intenso, un bisogno quasi fisico, di condividere i pensieri che si affannano nella mia testa, che mi fanno felice o che mi inquietano. Ma ha a che fare anche con i colori con cui si vestono, con le collane che scelgono. Perché la bellezza fa gioco. La cura di sé, del proprio corpo è un regalo che si fa a sé e agli altri, e quindi ha a che fare con la relazione. Per questo ogni tanto faccio attenzione a come si vestono le persone cui tengo. Come si fa a non badare a come si presenta la maestra, per esempio? Le collane che sceglie, come tiene i capelli, gli sguardi, i sorrisi, mi dicono di lei, del suo umore. E possono rendere la scuola più bella.

Ho capito l’importanza di questo tipo di esperienze, sensazioni, vissuti, quando ho incontrato la politica delle donne. La consapevolezza del piacere dello scambio in presenza, dell’importanza dei corpi, dell’eros circolante, e la narrazione di queste esperienze, sono divenuti ingredienti fondamentali dei miei interventi pubblici. Per questo quando la scorsa settimana sono stata a Roma alla scuola di politica dell’UDI ho citato alcuni brani del libro “Pensare in presenza” di Chiara Zamboni, e proprio quelli scelti per il Deber. In particolare ho citato il punto in cui la Zamboni spiega come “il godimento della presenza sia una cifra nascosta ma essenziale della politica. Godere della presenza accompagna un’apertura involontaria agli altri, a cui partecipiamo con tutti i nostri sensi.” Questa è una delle ragioni per cui mi sono innamorata della politica delle donne. Le femministe hanno avuto il coraggio di nominare la dimensione del piacere, del desiderio, dell’eros come elementi irrinunciabili della pratica politica. E questo era un dato evidente nella mia esperienza. Io ho sempre sentito l’urgenza di occuparmi del mondo in cui sto, ma mi rendevo conto che la condivisione di impegni, pensieri, riflessioni non può prescindere dal piacere dell’incontro. Trovare il coraggio per affrontare conflitti, nodi, scacchi, è strettamente legato alla qualità delle relazioni e quindi anche al godimento della presenza, della bellezza dell’altro, della sensualità dell’incontro. Si tratta di un piacere imprescindibile, e rappresenta un motore potente delle relazioni fra donne, che moltiplica le energie.

Tuttavia queste parole, specialmente quando sono usate nell’ambito della politica, fanno problema, spiazzano. Nel secondo paragrafo infatti l’autrice si interroga sulle possibili obiezioni di un immaginario lettore interloquendo con la cultura da cui provengono. L’autrice sa che queste parole si presentano con una carica eversiva. E questo le rende alle mie orecchie particolarmente interessanti. Perché se da una parte l’eros è una carica pulsionale che attrae, che coinvolge, che apre, che spinge verso l’altro, dall’altra però può spaventare, inquietare, a causa del vissuto inconscio che porta con sé e che agisce con forza.

Chiara ci ricorda infatti che “ogni volta che percepiamo gli altri, le cose, i luoghi, allora il lato inconscio del corpo con la sua storia sedimentata è presente nell’atto percettivo, lo è carnalmente. L’inconscio sensuale, erotico influenza la nostra storia”. E subitaneo arriva alla mia mente il ricordo della sensualità materna. Si tratta di un vissuto ritornato con prepotenza nella mia vita grazie all’incontro con mia figlia. Il lato inconscio del mio corpo si è risvegliato con l’allattamento. Uno dei momenti più intensi era quello della poppata notturna. Ricordo che mi alzavo nel mezzo della notte, quando tutti dormivano. Buio totale, silenzio assoluto. In quei momenti io e lei ci ritrovavamo. Quella poppata è stata l’ultima a cui io e lei abbiamo rinunciato, quando la mia bimba ha raggiunto il primo anno di età, ma la nostalgia di quel momento, solo nostro, è rimasta.

Il vissuto rispetto alla mancanza, come dice l’autrice, rimane e “il lato inconscio del corpo ne porta memoria., perché per esso il passato è sempre presente”. La percezione del vuoto in me agisce, trasformandosi, e cercando altre strade.

Ora la mia bimba ha otto anni e viene con me alla scuola di scrittura pensante, e mentre lei fa i suoi compiti nell’altra stanza, io mi nutro delle parole, del pensiero e della presenza di alcune delle donne che rendono bella la mia vita: Laura di sinistra, Laura di destra e la mia maestra. Scoprendomi una grafomane, con il gusto per la parola scritta.