diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 11 - 2012

Vita Quotidiana

Curare, badare. Dar parole al sapere della vita quotidiana

* Intervento al convegno Curare, ed essere curati, Milano 17 gennaio 2003
(Convegno organizzato dal Consiglio dei ministri/Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna Pubblicato negli Atti del convegno)

 

È possibile trasformare in un bene per tutte e per tutti il sentimento di estraneità, per nulla rassicurante che alcune donne percepiscono rispetto alla lingua che viene avanti nel pubblico, la lingua dis-incarnata che troviamo ovunque, perfino là dove si parla di esseri incarnati in un corpo che soffre, che cresce, che invecchia, che si ammala… che teme il contatto di mani indifferenti e distratte.

Ci sono molte donne sensibili al peso delle parole, alcune “mai del tutto a loro agio nella lingua di legno” (Julia Kristeva). Queste donne possono fare molto se, anziché mettere subito a tacere il disagio – l’irritazione, o l’offesa che una parola provoca – lo accettano come spia di quell’estraneità, che non è segno di loro inadeguatezza, ma segno di un sentire che invita a tenere distanti da sé le parole che fanno resistenza, e vieta di usarle come se quel disagio iniziale non ci fosse mai stato.

Ringrazio chi ha voluto questo convegno. Nell’invitarmi al confronto di oggi, Grazia Colombo mi ha fatto capire che questo poteva essere una risposta efficace all’irritazione che abbiamo avvertito in molte quando è cominciata a circolare, al momento dell’applicazione della legge Bossi-Fini, la parola “badanti”. “Badanti” per dire di donne straniere soprattutto (anche di uomini, ma in misura minore), alle quali chiedono un aiuto, una cura assidua quotidiana nella loro casa, donne e uomini resi fragili da una grave malattia o dalla vecchiaia avanzata; per definire il lavoro di persone che sappiano stare in intimità con corpi bloccati nel movimento, bisognosi di un contatto che comunichi tenerezza, sollecitudine, gesti ricchi di esperienza e di attenzione; per indicare una relazione che richiede il saper stare pazientemente nel tempo dell’attesa, ascoltare i silenzi, decifrarli per poter rispondere con intelligenza.

Partire da questa irritazione nell’affrontare il problema che abbiamo davanti (che non è quello di trovare un sinonimo al termine “badanti”, ma piuttosto di chiederci come mai si è ricorsi a questa espressione e perché ci risulta inaccettabile), è una buona strada per non perdere il contatto con quanto più profondamente sappiamo, in questo caso l’esperienza della casa materna, sapere che abbiamo conservato dentro di noi, grazie alla memoria cosciente e inconscia.

Fare pensiero è possibile per tutti. (Tutti, uomini e donne, siamo pensatori dato che il pensiero è la cosa universalmente distribuita tra gli umani, come lo stesso Descartes ci ricordava). La filosofia non ha un oggetto specifico, ma se ha un campo di ricerca che le compete per eccellenza è quello del rapporto tra le parole e il reale, le parole e le cose, le parole e l’esperienza. E questo fin dalle sue origini. Il pensiero della differenza ha fatto di questa attenzione una pratica politica e l’ha chiamata “politica del simbolico”. Una politica che si prende cura delle parole che ci scambiamo. Il partire da sé, che abbiamo ereditato dalle pratiche più originali del femminismo, ci aiuta a non disancorarci dal sentire quando facciamo un lavoro che interroga e ricerca parole. La lingua che ci scambiamo mette al mondo frammenti di realtà. Ne va della realtà quando ci scambiamo parole che omettono, cancellano, distruggono ciò che è essenziale.

Nel caso della parola “badanti”, è l’elemento dello scambio, il contenuto relazionale che viene omesso, lasciandolo senza rappresentazione. E questo veicola un’immagine a dir poco impoverita delle relazioni di cura che hanno luogo nella casa. Distrugge, cancellandolo, il significato dei gesti della vita quotidiana, che sono la radice dell’essere, del convivere.

Quando si è cercato di mettere in parole questo lavoro che le donne hanno sempre fatto e continuano a fare, aiutandosi tra loro (madri e figlie, sorelle e cognate, amiche, vicine di casa) e facendosi aiutare, il linguaggio dei media e della politica è inciampato in un ostacolo. Non disponeva di parole. E allora ha tentato di scavalcarlo prendendo da lingue regionali una parola che, però, è risuonata male soprattutto alle orecchie femminili. Non è un caso.

 

Per dire “l’arte o le arti della vita quotidiana”, l’ “arte della casa”, una teologa svizzera, Ina Pretorius, ha fatto tesoro di una parola del lessico filosofico di Heidegger, Dasein (l’esserci, l’essere nel mondo), e l’ha risignificata in un senso più vicino alla materialità dell’esistenza componendola con la parola Kompetenz (competenza). Daseinskompetenz, la competenza dell’esserci, è una parola che lei mette a disposizione di donne e uomini.

“ Nel mondo, scrive Ina Pretorius, c’è molta competenza dell’esserci, per fortuna. Se non ci fosse staremmo peggio di adesso. Molti uomini e donne posseggono tali capacità, anche se, a dire il vero , gli uomini sotto il patriarcato hanno avuto meno opportunità di sviluppare una Daseinskompetenz” […]. Erano troppo occupati a tenere sotto controllo ‘il tutto’, a organizzare, a tracciare confini e ad affermare la propria identità come esseri razionali superiori. E troppo lontani da quelle realtà che non si possono affrontare o trasformare con le strategie rettilinee del fare, ma spesso solo per vie traverse, con abile attesa e rilanci nel momento giusto. Tuttavia, c’è molta Daseinskompetenz nel mondo. Quello che manca (o che scarseggia) è una filosofia di questo speciale modo di agire, che prenda sul serio il fatto che il patriarcato ha delegato sistematicamente l’arte o le arti delle vita quotidiana alle donne, per alleggerire gli uomini.”

E aggiunge che “fare filosofia della competenza di esserci significa […] non farsi impressionare dalle parole gonfiate e mettersi alla ricerca di parole buone, in modo che l’essere non finisca nel nulla.” Ina Pretorius rivolgeva il suo discorso alle insegnanti svizzere di applicazioni tecniche ed economia domestica, che vedevano minacciato il loro lavoro dalla riforma del sistema scolastico. Risale al novembre del 2000 e lo troviamo pubblicato nel n. 62, della rivista “Via Dogana”. “Perché, si chiede all’inizio del suo discorso, le arti del vivere dovrebbero avere meno spazio nei programmi ministeriali ?” La sua risposta è: “Perché sono considerate ancora o di nuovo come affari di donne e dunque privati. […] Di conseguenza, la soluzione più pulita è quella di tagliare fuori dalla scuola pubblica (dove è finita per qualche errore) l’arte della casa. Risultato logico: più inglese, più calcoli, più business e computer. Via le materie che ci ricordano che gli esseri umani sono altro che programmi di computer. Quell’altro, le donne lo gestiranno comunque in qualche modo, visto che l’hanno sempre saputo fare, visto che il sesso debole è sempre stato abbastanza forte per fare due-tre lavori, mentre il sesso forte al massimo faceva qualche guerra en passant, se il solo guadagnare soldi diventava troppo noioso…”.

Ina Pretorius ci fa vedere con lucidità e ironia il problema sul quale ci stiamo interrogando: il problema non è l’assenza di un saper rispondere ai bisogni della vita quotidiana, affettivi, materiali e spirituali, né la mancanza di una competenza relazionale fine, capace di disporsi con saggezza e intelligenza di fronte alle discontinuità, all’imprevedibile mutevolezza della vita, ma la mancanza di parole per dire questo complesso sapere. Parole, dice, che non siano gonfie di retorica, o incapaci, aggiungo, di afferrare la cosa essenziale in questo saper prendersi cura della vita ogni giorno, sapere nel quale c’è un’eccellenza femminile di gesti e parole.

Non parlerei dunque di “clandestinità”, “invisibilità” per definirne i tratti del suo mostrarsi. Se c’è un lavoro che si dà in presenza è proprio questo. Allora come mai siamo così poveri di parole per significarlo, per restituirlo all’ordine simbolico, per riconoscerlo ? All’inizio, negli interventi di saluto, la signora Gracchi lamentava che quando lei chiede ai politici di prestare attenzione all’importanza del lavoro femminile nella casa, “gli uomini guardano da un’altra parte”. Rispetto al lavoro di cura, si può dire che il patriarcato ha reso possibile per gli uomini tenere lo sguardo girato dall’altra parte perché lo sguardo femminile restava inchiodato lì. Gli uomini sono cresciuti con il privilegio dell’oblio, se così possiamo chiamarlo, mentre alle donne questo privilegio non è stato concesso. Anch’io dico con Ina Pretorius, fortunatamente.

L’immagine della casa materna, “la casa dentro”, come la chiama Marguerite Duras in un testo bellissimo de La vita materiale, è presente in tutte e tutti, sottolineo tutti. Semplicemente succede che la si dimentichi. Anche una donna, in alcune fasi della vita, può rimuoverla o tenerla lontana, ma con questa immagine, presto o tardi, si trova a fare i conti, sia che la rifiuti, sia che l’accolga. La “casa dentro”, “la casa materiale” è la misura di quel saper prendersi cura di sé, della casa, degli altri, i figli, il marito… che non ci lascia tranquille. Ci sono momenti nei quali si risveglia con tale insistenza e chiarezza da non poterla proprio ignorare. “La casa dentro, la casa materiale. La prima scuola è stata mia madre stessa. Come organizzava le case. Come le puliva”, scrive Marguerite Duras. Quando si risveglia in noi questa immagine viva della casa è per suggerirci qualcosa, o anche – quasi sempre è così- per rimproverarci qualcosa.

Nella sua relazione, Marina Piazza osservava che alcune donne, quando si trovano a trasformare in professione il lavoro della cura, dell’assistenza alle persone, rifuggono dal maternage, un sentimento che avvertono come minaccioso per la loro identità sociale. Possiamo leggere questo atteggiamento come rifiuto della tonalità affettiva con la quale il lavoro di cura è stato loro mostrato nella casa d’origine. Ma sono più portata a pensare che le lavoratrici in questione rifuggano dal destino assegnato alle donne dal patriarcato e sentano la spinta a risignificare il proprio lavoro in senso libero.

Il fatto è che molta competenza professionale ha la sua radice in quell’immagine viva della cura che ci portiamo dentro. Nel rimuoverla, in questa come in altre professioni, si opera un taglio alla radice del nostro saper essere nel mondo, del nostro saper fare spazio all’altro, dal quale ha origine il saper stare con apertura e intelligenza nel fluire degli eventi, con le loro convulsioni e imprevisti, nelle relazioni e nei diversi contesti, senza lasciarci confondere dall’inevitabile disordine e dall’opacità.

È noto che molti saperi formalizzati – che orientano le pratiche terapeutiche, pedagogiche, ed anche la ricerca scientifica – sono debitori di questo sapere informale, fonte delle nostre invenzioni creative.

 

Concludo con una breve riflessione sulla natura di questo sapere.

Nella mia esperienza, la “casa dentro” è l’aspetto manifesto del sapere, per lo più inconscio, che mi radica nella vita, ispira gesti che mal sopportano l’eccesso di parole, è traducibile nella lingua del racconto e della poesia, mentre resiste alla definizione concettuale. Ci mette di fronte al paradosso che nel diritto e nella contrattazione possono entrare solo gli aspetti meno personali, meno emotivi, meno dipendenti dai contesti, di un sapere che è per sua natura personale, relazionale, contestuale.

Resta da chiederci cosa rimane. E domandarci, raccogliendo le osservazioni di chi ha affrontato il problema con un taglio diverso (sociologico, economico, sindacale, giuridico), dove possiamo cercare parole da offrire a questo sapere della vita quotidiana così difficilmente descrivibile con categorie scientifiche, ancor meno riconducibile a misure certe che lo rendano contrattabile. Riprendo la domanda posta da Grazia Colombo: come possiamo trasmetterlo, insegnarlo a chi non l’ha ricevuto, o risvegliarlo in chi l’ha smarrito ?

Anche questa volta mi è di aiuto il pensiero di una donna, la filosofa spagnola Marìa Zambrano: a Cuba, nell’esperienza dell’esilio dalla dittatura franchista, nel 1948 tiene una lezione che pone al centro il problema di una storia umana incompleta, poiché non ha saputo scendere nei “luoghi più segreti dell’essere”, la “vita quotidiana”, “quella che trascorre senza stridori e che forma la trama, il canovaccio su cui soltanto si può disegnare l’azione straordinaria, l’evento trascendente”.

“Per essere completa, scrive Zambrano, totalmente e veramente umana, la storia dovrà discendere fin nei luoghi più segreti dell’essere, fino a quelle che la nostra lingua, con tanta bellezza, denomina “las entranas”, le viscere. Le viscere sono la parte meno visibile, non semplicemente perché non lo sono , ma perché fanno resistenza a diventarlo. E le viscere sono la sede dei sentimenti.”

“Lasciata nell’oscurità dal metodo scientifico di fare storia”, “quella vita anonima” trova nella letteratura la sua multiforme ricchezza e intensità di espressione.

Allora, con la letteratura forse possiamo risvegliare le immagini che ci portano al “centro” del nostro essere, facendole emergere, nei momenti di particolare bisogno, dall’oscurità in cui si erano cacciate. Questa è una delle strade possibili. Ma ce ne possono essere altre.

Marìa Zambrano ci direbbe che per generare una “cultura della cura”, oggi tanto più necessaria quanto più totale è il potere di un’informazione capace di registrare solo la distruttività degli esseri umani, occorre insegnare la Pietà, “la radice di tutti i sentimenti amorosi”. Ci avverte, nel suo scritto, di non confondere la Pietà con la filantropia. “Pietà è saper trattare con il mistero”. È “la guida per non perderci” in quel “territorio immenso che ci avvolge e ci abbraccia, che ci rifiuta gettandoci a volte nell’angoscia e nella disperazione, e questo non è una realtà chiara e distinta. Eppure sta lì: e con essa dobbiamo vedercela in ogni istante. È semplicemente la nostra propria vita. Il mistero non si trova fuori: è dentro e in ognuno di noi e, al tempo stesso ci circonda e ci avvolge. In esso viviamo e ci muoviamo.”

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

Secondo l’ordine in cui compaiono nel testo, ho fatto riferimento a:

Clément, Julia Kristeva, Le feminin et le sacré, Paris, 1998

Ina Pretorius, La filosofia del saper esserci, in “Via Dogana”, n.60, marzo 2002

Marguerite Duras, La vita materiale, Milano 1988

Marìa Zambrano, Per una storia della pietà, in “aut aut”, n. 279, maggio-giugno 1997