Conflitti per il bene comune
Per pensare il conflitto sui beni comuni ci si può appoggiare a qualcosa di molto consistente: pratiche di conflitto e di creazione del bene comune sono già in corso nella politica per parte di donne, nella politica della differenza, esistono già da molti anni: penso, solo per dirne alcune, alla rete delle “città vicine” e delle vicine di casa, alle donne di “no dal molin” a Vicenza, indietro fino al “movimento di autoriforma” della scuola e dell’università (Vita Cosentino, una delle iniziatrici di quel movimento, ha parlato di “lingua come bene comune” e di scuola e università “libera pubblica e leggera”[1]). Ricominciare a pensare e a dire l’università, la conoscenza, il sapere come bene comune è stata infatti una delle questioni, se non la questione, della mobilitazione dell’autunno 2008 e che ritorna in questi giorni di riforma dell’università. Del pensiero di quella esperienza diranno le studentesse e gli studenti della nostra università che interverranno fra poco.
Come posta in gioco i beni comuni sono già all’opera nella politica delle donne, certo, ma non si tratta di un conflitto tra gli altri, è un conflitto primo, di civiltà.
Lo scontro mette avanti l’idea, e l’ordine di decisioni che la accompagnano, che la titolarità e la gestione privata di un bene ne garantisce al meglio il funzionamento e il rendimento. Inoltre funzionalità e rendimento sono prioritari rispetto alla diffusione del godimento di quel bene – è meglio un’università efficiente anche se per pochi, che un’università per molti ma disfunzionale.
Più da vicino si vede poi che l’idea di funzionamento e di rendimento non è generica, si ispira a un modello ben definito: quella della produzione e dello scambio di merci. Con un importante aggiornamento però: non si tratta di una semplice mercificazione, la grammatica è quella di un’economia della merce vivente, della merce che ha inglobato aspetti dell’intelligenza vivente per descrivere e mettere in opera il proprio funzionamento. Tempo e quantità dei prodotti, che devono essere inversamente proporzionali – più prodotti nel minor tempo possibile – sono le chiavi che attribuiscono valore a qualsiasi oggetto preso in considerazione: un ateneo, uno studente, un curriculum. Tempo breve dell’esecuzione e proliferazione dei prodotti, è la formula dell’efficienza che, a sua volta, diventa sinonimo del meglio.
Un’altra idea che connota fortemente questa idea di fondo è che ciò che è di tutti, il pubblico (dall’università, al sistema sanitario, ma anche l’arte, il paesaggio, l’acqua), è inefficiente, rimane inerte perché non è mosso da interessi individuabili, mentre una sua privatizzazione interviene a renderne il godimento effettivo e mirato. Detto in altre parole, quel che è di tutti è di nessuno, quel che è privato importerà a qualcuno che se ne occuperà effettivamente. Per un circuito perverso la proprietà diventa la garanzia di tutela di quel bene.
Ora, questa è un’idea miserabile e violenta della realtà, della vita, delle relazioni. Al fondo c’è la convinzione che gli esseri umani sono individui, che agiscono mossi dall’interesse, cioè dal calcolo dei costi e benefici, e sono unità separate, cellule di egoismo produttivo, che entrano in relazioni primariamente competitive. Rimane sullo sfondo, ricacciato nell’impensato, il debito che ogni essere umano, che ciascuna e ciascuno, ha verso altro. Il suo bisogno di altro, di un’altra, di altri, per essere. La violenza di questa idea si rafforza ulteriormente: il legame, tra esseri e tra esseri e luoghi e cose, diventa gestibile, manipolabile, attraverso la misura del denaro. Chi non può provvedere, in quel modo e in quel modo soltanto, ai propri bisogni fondamentali, scompare dalla scena, non ha nemmeno più voce, fa solo un rumore non riconoscibile, e dunque non entra nel gioco delle negoziazioni. Quel che non può pagare con il denaro, lo pagherà con la vita.
Dicevo che le donne sanno da tempo, e ora lo sanno politicamente, che la realtà, la vita, le relazioni non funzionano così. Da sempre sanno che la relazione e non l’individuo è la realtà prima, e che non è la proprietà o l’appropriazione la forma prima delle relazioni con il vivente. Ed è un sapere che viene dal vivere stesso.
Oggi condividiamo il senso di una crisi di civiltà insieme ad altri. Il movimento dell’Onda da molto tempo si batte proprio su questo terreno – e Francesco Raparelli che parlerà tra poco lo dirà in dettaglio. Il lavoro da fare, a questo punto, per parte della politica delle donne è di potenziare le possibilità di alleanza e di conflitto. Il bene comune, i beni comuni, possono diventare una posta in gioco di un conflitto condotto insieme. Perché sia una condivisione che non cancella la differenza – è su questo criterio che mi sono regolata – va messa in gioco la diversità delle rispettive memorie di genere, le inclinazioni, l’orizzonte di un sapere simbolico e storico che ritaglia il conflitto secondo posizioni asimmetriche eppure passibili di stare in relazione.
Quali sono i punti di conflitto quanto ai beni comuni? Ne dico qui due soltanto, per cominciare.
- E’ senz’altro una notizia degna di nota il premio Nobel assegnato a Elinor Ostrom, che dagli anni Ottanta si è dedicata al tema dei “commons”, dei beni collettivi. Il suo lavoro è importante, ha molti elementi fecondi, ed è anche molto significativo il fatto che la commissione del Nobel abbia individuato nel suo lavoro una questione cruciale. L’ultimo suo libro tradotto in Italia quest’anno – una raccolta di scritti curati da lei – riguarda La conoscenza come bene comune[2]. Il precedente, tradotto nel 2006 trattava di governo dei beni collettivi (Governare i beni collettivi, Marsilio 2006).
Ora, però, nelle sue ricerche la questione delle regole – per quanto inserite nel quadro dell’autogoverno – di misure condivise per un uso che tuteli questi “beni collettivi”, è una questione centrale. Perché l’insistenza sulle regole o, come usa nel dibattito, la questione della governance? Perché i beni sono pensati sulla base dell’idea di proprietà, che da individuale diventa collettiva. Questo è un primo punto di conflitto.
L’insistenza sulle regole nasce da un assunto storico e proprio della civiltà anglosassone, di cui Ostrom partecipa, ma che diventa una sorta di evidenza per il resto del mondo. L’idea che gli esseri umani sono individui portatori di interessi e mossi da un impulso proprietario-appropriativo. Ecco perché nel suo lavoro, come in altri, ricorre spesso la figura, lo spettro, del free rider (il nostro portoghese, che prende l’autobus senza pagare il biglietto, approfitta di un servizio pubblico in modo strettamente individuale, se non parassitario). Da cui la necessità di regole, intese a limitare un’inclinazione irresistibile. Attenzione, Ostrom ha ben presente la dimensione collettiva, naturalmente, e la cooperazione che contrappone – o talora affianca – alla competizione, ma rimane che cooperare è una attività seconda, che deriva dalla convenienza del comportamento cooperativo: si sta in relazione per un calcolo a somma positiva quanto ai propri interessi individuali.
La nostra politica poggia da un’altra parte. Nella matematica politica della differenza l’uno non è numero, si parte dal due in su, dalla relazione in poi. Che sia necessaria la relazione per cominciare anche solo a pensare alla condivisione di beni, lo mostra benissimo il dibattito giuridico sui beni collettivi: per trovare un movente anche solo a porre la questione viene evocata la relazione e la responsabilità verso le generazioni future. Ora, la nostra politica con la relazione prima tra madre e figlia ha fatto il punto sulla questione da decenni.
A questo si aggiunge che la nostra memoria di genere, così come si manifesta al presente, ci consegna un’inclinazione femminile all’impersonale.
Nel Grande seminario di tre anni fa, insieme ad Angela Putino, avevamo lavorato sulle promesse e rischi di questa inclinazione all’impersonale, cioè una certa capacità femminile di agire, di saper fare, fare bene. Spesso viene riconosciuto che una donna ha capacità relazionale, sa lavorare in gruppo, svolge i propri compiti con impegno e responsabilità. Insomma sarebbe meno individualista, meno egocentrica, e più attenta alla riuscita delle situazioni, ivi incluso il benessere delle persone coinvolte. Allora avevo lavorato anche sui rischi di questa inclinazione, ma oggi non è questo il punto.
Avevo portato, tra gli altri, l’esempio di cronaca di una dottoressa che aveva denunciato il fatto che alcuni malati di cuore venivano sollecitati all’intervento chirurgico in casi di patologie che potevano essere risolte altrimenti. Dal punto di vista dell’impersonale, quella presa di posizione stava dalla parte delle ragioni dei corpi e delle cose, e non del giro di denaro e di interessi che si possono costruire attorno alla salute. Insomma, viene messa in gioco e in avanti, una competenza su quel che è richiesto esattamente, precisamente, in quel contesto.
E’ questa una capacità femminile di stare alla lettera della realtà che è insieme un restringimento e un ampliamento del senso delle cose: c’è la precisione nell’individuare quel che serve – quel cuore non ha bisogno di un intervento chirurgico per stare meglio – c’è l’andare oltre gli interessi privati dei medici coinvolti.
Lo direi così: c’è un’inclinazione per una donna ad avere cura delle cose, ancor prima, e più fortemente, del senso di sé che ne trae. C’è una forza del richiamo a “fare bene” le cose, a farle compiutamente, a farle secondo quanto richiedono. A far fare un giro largo alle situazioni in cui ci troviamo. Il cosiddetto tornaconto personale si fa flebile. Ridetto in termini filosofici: l’io non fa ingombro e insieme c’è una capacità autorevole, una pienezza della propria presenza, che sorpresa, arriva all’efficacia sì, ma per tutt’altre strade. Per le vie di una comunanza, di un più grande e non di una restrizione.
Si tratta di un sapere che conta già su alcune parole. Penso al testo di Luisa Muraro che anni fa registrava un certo “realismo femminile” in La nostra comune capacità di infinito[3] – e al modo in cui ribaltava in occasione la difficoltà femminile a dire ‘io’ registrata da Irigaray – , ai lavori di Zamboni e di Buttarelli sull’azione perfetta e sulla passività[4]. Sono tutti nomi di uno stare presso il comune. Un agire responsabile ed eccedente, non egocentrico ma più ampio, per la massima efficacia e libertà.
Questo è senz’altro un punto di contatto molto consistente con le parole e la politica del movimento. Il comune che si gioca contro delle rinnovate enclosures, recinzioni, privatizzazioni della terra nel XVII secolo, di beni materiali e immateriali oggi. Per il movimento si tratta di una genealogia interna al canone maschile, un fronte che si riapre tra proprietari ed espropriati e, oggi, sulla concezione della vita: tra una concezione individualistica o transindividuale. La differenza passa tra i punti di appoggio in questo conflitto, per parte di donne esiste un pensiero, un senso di sé come viventi che non è passato – e che non può passare, a meno di serie amputazioni di esperienza – per l’individualismo proprietario.
- Accenno a un secondo punto. Nei dibattiti e anche nei conflitti correnti, si fa una distinzione all’interno dei beni comuni, da una parte le risorse naturali e dall’altra i beni che riguardano le attività umane. L’acqua e la conoscenza, ad esempio. Torno di nuovo a Elinor Ostrom che suddivide i beni naturali e i beni prodotti. Ora, ha senso per la nostra politica la distinzione tra naturale e artificiale? E, soprattutto, che cosa implica per l’agire politico assumere o meno questa distinzione? In una parola direi che la posta in gioco è mettere al centro il lavoro, così come inteso nella tradizione maschile occidentale, o meno.
Da tempo sappiamo che i corpi, il vivente, non sono solo biologia. Sappiamo che un corpo vive di materia e di linguaggio, qui in Italia lo sappiamo attraverso la relazione e la lingua materna. Non esiste corpo che per essere non passi anche attraverso atti simbolici.
Da tempo sappiamo che esistono attività di relazione tra viventi che non rispondono né all’appropriazione né alla produzione. E’ questo un punto di contatto che va ancora lavorato con le parole del movimento. Siamo in una posizione conflittuale comune contro l’idea che una risorsa naturale viene trasformata dal lavoro e che questa trasformazione è l’inizio di un diritto di proprietà – è questa la narrazione del padre dell’individualismo proprietario, John Locke. Tuttavia più che il lavoro e la produzione, e il senso che prendono e su cui confliggere, è più fecondo spostarsi su quelle attività, di tradizione femminile, che oggi sono messe sotto il titolo di cura.
Possiamo così portare il conflitto anche sulle cosiddette risorse naturali, e in particolare sull’idea dominante che non sono loro a dover essere privatizzate, bensì la loro gestione (l’acqua rimane bene pubblico, privatizzata sarà la sua gestione, come antidoto agli sprechi della gestione pubblica). Come sappiamo che un corpo non è materia disponibile, così sappiamo che non esistono beni che ci appartengono e ci competono perché li produciamo e beni invece disponibili di per sé e le cui forme d’uso sarebbero secondarie. Non esiste una partizione netta tra natura e tecnica. Le lotte e i libri di Vandana Shiva[5] aggiungono altri elementi, dispongono secondo altre genealogie questa partizione impossibile e mi permettono di fare un’ultima considerazione. Il conflitto sui beni comuni è posta in gioco condivisa tra donne e uomini, sì, e di questi tempi è posta in gioco al di là dei confini di culture e di provenienze. Abbiamo a disposizione altre parole e pratiche, dalle quali farci interpellare, con le quali entrare in risonanza.
[1] Sono alcuni dei testi prodotti dal Movimento per l’Autoriforma Gentile: Vita Cosentino, Guido Armellini et al. (cura), Lingua bene comune, Città aperta, Troina 2006; Vita Cosentino, Giannina Longobardi (cura), Pubblica, libera, leggera: il Movimento per l’autoriforma della scuola, Vincenzo Ursini, Catanzaro 1999.
[2] Elinor Ostrom, Charlotte Hess (cura), La conoscenza come bene comune, Bruno Mondadori, Milano 2010; Elinor Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia 2006.
[3] Luisa Muraro, La nostra comune capacità d’ infinito, in Diotima, Mettere il mondo al mondo, La Tartaruga, Milano1990, pp. 61-76.
[4] Chiara Zamboni, L’azione perfetta, Centro Virginia Woolf, Roma 1994; Annarosa Buttarelli (cura), La passività, Bruno Mondadori, Milano 2006.
[5] V., tra gli altri, Vandana Shiva, Le guerre dell’acqua, Feltrinelli, Milano 2004.