diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo edizione 18 - 2022

Saperi circolanti

Come un corso d’acqua

Chi ti scriverà, luce divina
che procedi immutata ed immutabile
dal mio sguardo redento?
Io no: perché l’essenza del possesso
di te è “segreto” eterno e inafferrabile;
io no perché col solo nominarti
ti nego e ti smarrisco;
tu, strana verità che mi richiami
il vagheggiato tono del mio essere.

(da Luce, Alda Merini)

Sono parole, quelle di Alda Merini, che esprimono con efficacia l’impossibilità di mettere per iscritto alcune verità che sono, tra l’altro, quelle fondamentali per l’animo umano. È come se a queste ci si possa avvicinare con l’intuizione, con il sentire, più che con un discorso logico e lineare che, nel descriverle, correrebbe il rischio di snaturarle, fissando nella carta dei concetti parziali che da soli non le esauriscono e che, anzi, inchiodandole a quella parzialità le tradiscono.

Sento che questo rischio è più che mai attuale anche per me, che mi appresto a raccontare un’esperienza che ho vissuto insieme ad altre donne e a qualche uomo nello svolgersi del corso di aggiornamento Pratiche e culture della differenza nel lavoro educativo e di cura. Un’esperienza che ci ha formato, ma soprattutto ci ha attraversato, travolgendo tutti i nostri sensi, interni ed esterni, e mettendoci in contatto con un sentire che era insieme personale e collettivo. È in questo sentire, più che mai reale e innegabile eppure non del tutto dicibile, che sono venuti a galla nodi, ricordi, emozioni, intuizioni e antichi e radicati saperi; è lì che si sono formati legami, nuove prese di consapevolezza, sguardi diversi verso il mondo e verso l’essere. E se è stato proprio questo sentire il cuore pulsante della nostra esperienza, lo stesso è anche ciò che è più difficile mettere in parola, perché è segnato da un qualcosa – che Chiara Zamboni individua come inconscio – tanto reale quanto inesprimibile e perché affidandosi al linguaggio ci si sottomette a un ordine simbolico preesistente nel quale la portata innovativa dell’esperienza fatica a farsi spazio (Zamboni, 2019).

È stato un corso – o per-corso – a sé, che si è discostato dai modelli accademici di apprendimento. Si è definito man mano e solo in corso d’opera si sono manifestate l’intento dello stesso e la sua portata trasformativa e simbolica. Per curiosità ho fatto una piccola ricerca nel vocabolario Treccani e, con mia sorpresa, ho constatato che i significati attribuiti al termine “corso” sono per la maggior parte dinamici (corso d’acqua, corso degli eventi, cammino, corsa…) e solo al quinto significato si citano i corsi universitari come “serie di lezioni e di esercitazioni che hanno lo scopo di dare all’allievo l’istruzione sufficiente in una materia, in un’arte, in una professione” , ed è la prima interpretazione del termine che rimanda a qualcosa di statico. Vorrei quindi suggerire a chi legge di discostarsi dall’immaginario di quest’ultima definizione e di sostituirlo con l’immagine di un ruscello che nel suo andare incessante e irregolare si modella a seconda delle caratteristiche del terreno, increspandosi sulle rocce, facendosi più torbido nel terreno argilloso, più rapido nelle pareti scoscese e più calmo e lucente nelle pianure soleggiate. Così, nel corso degli incontri, anche il nostro cammino si è modellato e rimodellato nel seguire le risonanze che in noi provocava, le domande che lo interrogavano, le emozioni che imploravano una sosta per lasciar penetrare in profondità alcune riflessioni, le circostanze esterne che imponevano tempi e modalità diverse da quelle pianificate…

I compagni e le compagne di cammino erano professioniste e professionisti il cui lavoro ha a che fare con la cura: educatrici, infermiere, assistenti sociali, antropologhe, psicologhe, pedagogiste, un’ostetrica, un architetto, artiste, maestre, danzatrici, mediatrici culturali. Io, da educatrice e pedagogista, ero approdata a questo corso con un forte bisogno di tornare al cuore e al senso del lavoro di cura, che sentivo messo fortemente in discussione dal distanziamento sociale, dalle mascherine, dall’incursione del virtuale nelle relazioni interpersonali e nella vita stessa.

Tutti e tutte ci portavamo dietro la ferita di un isolamento prolungato, di una rivoluzione nel nostro modo di lavorare, che fino ad allora aveva poggiato le sue basi sulla vicinanza fisica ed emotiva (che poi, ha senso parlarne come di due sfere distinte?) e che d’un tratto è diventata pericolosa e perfino illegale. Tutte e tutti, anche se in modo diverso, provavamo un senso di smarrimento di fronte a questa rivoluzione improvvisa e irreversibile.

Non so cosa ognuna e ognuno si aspettasse in particolare da questo percorso, personalmente avevo intuito che avrebbe portato qualcosa di inatteso e di sorprendente e per me era vitale ritrovare la capacità e il motivo di accendere la meraviglia, lo stupore che avrebbero potuto far scattare la passione che sentivo essersi spenta, o smarrita dietro gli schermi.

Per tenere traccia del nostro procedere e perché potessimo fare tesoro della ricchezza della differenza di cui ognun* è portatore e portatrice nella sua originalità, ci è stato proposto di tenere un diario condiviso: uno strumento che ci avrebbe accompagnato e sul quale avremmo potuto appuntare sensazioni, domande, pensieri evocati dai vari incontri. Rileggerlo in un secondo momento mi ha dato l’opportunità di tornare sull’esperienza vissuta arricchendola di molti altri particolari e nuove sfumature che in prima battuta non avevo colto e che solo tramite le parole delle altre, degli altri sono venute alla luce. Ho chiesto alle mie compagne e compagni di viaggio di poter utilizzare alcuni estratti di quel meraviglioso strumento corale anche in questa narrazione: perché il mio racconto possa – seppur timidamente – testimoniare quanto l’esperienza possa farsi apprendimento se le si concedono lo spazio e il tempo per sedimentare e interrogare la vita e quanto, in questo processo, sia fondamentale metterla in parola per raccontarla ad altre e ad altri.

La fonte: riabilitare i sensi

Come il ruscello ha origine da una fonte, così anche un percorso deve avere un punto di partenza. Il nostro viaggio è iniziato dall’esplorazione di ciò che ci permette di sentirci esseri vivi, senzienti, appartenenti al mondo e con la possibilità di interagire con esso: i sensi.

Questo approfondimento è avvenuto in modo insolito: non una cattedra, non dispense teoriche e schemi da seguire, ma un cerchio di persone che interagivano, degli stimoli percettivi/di riflessione costituiti da quadri, arabeschi, disegni di nostra produzione da contemplare, una pera affogata nel cioccolato da assaggiare, melodie da ascoltare… In tale setting atipico sono cadute le maschere di ruolo dietro le quali un po’, forse, ci nascondevamo: eravamo arrivat* come professionist*, forti dei nostri saperi, in cerca di nuove e aggiornate nozioni per migliorare il nostro metodo, il nostro approccio e crescere professionalmente, invece ci siamo ritrovat* semplicemente persone invitate a incamminarsi alla scoperta di loro stesse.

Il cammino è stato intenso e intrigante: non ci è stato detto di “guardarci dentro”, ma di “guardarci”, punto. Guardare a noi stess* in tutta la nostra tridimensionalità, ovvero realizzando che siamo un unicum indivisibile dove gli stimoli percettivi colti dai sensi, i pensieri e le emozioni, il corpo, il movimento, il nostro senso interno sono in continuità gli uni con gli altri in maniera fluida. Piano piano siamo arrivat* a fare nostro quell’ «immaginario femminile che coglie la continuità del corpo con la parola»[1] di cui parla Letizia Comba, riconoscendo che non c’è dicotomia tra dentro e fuori, tra mondo interiore e mondo esteriore, tra invisibile e visibile, ma che tutto è intimamente connesso e che certe caratteristiche che pensiamo come “meramente fisiche” in realtà hanno ripercussioni su tutto il nostro essere.

Dai primi due incontri si percepisce che la ricchezza a cui questo corso ci porterà non consisterà “soltanto” in una serie di nuove informazioni da assimilare, ma sarà invece una forma di allenamento a stare nel mondo in una forma del tutto nuova, più recettiva e globale… Non solo, come si suol dire banalmente, “con la testa e con il cuore”, ma anche e soprattutto con tutte noi stesse, a partire dal nostro corpo e dai nostri sensi.[2]

In questa prospettiva, i sensi non sono semplicemente gli organi grazie ai quali fisicamente vediamo, ascoltiamo, sentiamo, gustiamo e tocchiamo ciò che ci circonda, ma sono una chiave d’accesso: sono loro che stanno sulla frontiera tra l’esterno e l’interno, loro che presiedono il confine tra noi e il mondo e che contemporaneamente stabiliscono una continuità tra queste due dimensioni. È tramite i sensi che il nostro corpo – finito – si apre al mondo – infinito (J. L. Nancy, 2008). La stessa possibilità di accedere a noi stessi come esseri viventi unici e originali è data da un senso, meno considerato rispetto ai cinque più conosciuti, ma altrettanto importante e fondamentale: la propriocezione o senso di sé[3].

Il valore più grande certe volte non sta nell’imparare essenze nuove ma vedere sotto una luce nuova essenze già presenti in noi: come la bellezza dietro l’occhio, l’immensità dell’orecchio e la nobiltà del gusto.

Così, da un cerchio di donne, dalle parole dietro ad uno schermo, da una pera infusa nel cioccolato e un ritratto di donna altra nella mente, cominci a fare tesoro di pratiche, di saperi e di storie: gli incontri si fanno più intimi, gli sguardi meno assenti, l’occhio distratto si ferma ad osservare come se fosse quello di un bambino in gita.

Allo stesso tempo, una spirale di emozioni ti assale, il sapere nuovo deposita in te anche una sorta di malinconia che un po’ ti divora: la maggiore consapevolezza dei sensi ti fa comprendere anche il loro limite, e come umanamente tutti i dettagli non possono essere colti per quanto vorresti. Allora quel “poco” (paragonato al mondo) che PUOI umanamente cogliere ti fa sentire esattamente così, umano.

Nei miei limiti, nei miei confini cerco di sostare, cerco di comprenderli e cerco di andare oltre alla loro mera conoscenza, l’uso della parola “cerco” non è dettato dal caso.

Mi sento ancora in “ri-CERCA” di quello che Letizia Comba in Diotima, mettere al mondo il mondo chiama il sesto senso: la percezione interna di sé.

Allora continuo, con l’aiuto di donne, con l’aiuto dei miei sensi, con l’aiuto di me, Giulia, ad abitar-mi.

«Poiché è il nostro sguardo che rinchiude spesso gli altri nelle loro più strette appartenenze è anche il nostro sguardo che può liberarli» (Amin Maalouf)[4]

È in questo modo, senza grandi premesse teoriche né infiniti manuali, che si è fatta strada tra di noi la pratica del partire da sé. Non ci è stata trasmessa come principio generale calato dall’alto – solo successivamente se ne è parlato come di uno dei pilastri dell’approccio femminista –, ma da subito è stata la principale modalità di interazione proposta all’interno del corso e di essa è stata immediatamente colta la portata innovativa e trasformatrice che questa pratica ha in sé.

Ancora una volta rimango colpito da una prassi cui non sono abituato. L’esposizione, la messa in campo della propria esperienza personale intima (Rosanna prima, Cristina e Maria poi). Personalmente penso che sarà una delle peculiarità di questo percorso più intriganti ed importanti. L’importanza del proprio sentire/esperire intimo in un processo di ragionamento, di scoperta.[5]

Sempre di più, poi, l’abbiamo vissuta come necessità: come è possibile, infatti, guardare all’altra persona rispettando la sua globalità, la sua complessità, il mistero che è e il sapere di cui è portatrice se non coltiviamo la capacità di stare con noi stess*, se non riconosciamo la ricchezza dell’esperienza personale, se consideriamo il nostro corpo come un involucro a sé stante, se non diamo valore alla nostra percezione di noi e non ci diamo spazio per prendere confidenza col mistero che ci abita? Se noi ci immedesimiamo nel nostro ruolo di professionist* tanto da dimenticare il nostro essere, prima di tutto, persone, come facciamo a vedere chi ci sta davanti altrimenti che come “utente di servizio”?

Quando si sta nell’involucro del “professionista” il rischio è di disabilitare i sensi, compreso la vista perché diventa solo osservazione secondo obiettivi (di mantenimento di un potere), la maggior parte di questi, decisi dalle istituzioni. Il gusto se ne va, il piacere anche. Se mi soffermo un poco provo disgusto, di ciò che è imposto e di ciò che non ha, appunto, senso. Riabilitare il gusto è prendere consapevolezza di questa disabilitazione. Riprendere consapevolezza è ‘risvegliare’ la coscienza, quella del corpo, la ragione della vita, quella essenziale, del nutrimento dal di dentro dei corpi. Non sempre è dolce. A volte si piange, ho pianto. Mi trovo, talvolta, a ruminare questo risveglio.[6]

Il fragore dell’acqua… e il resto tace

A quale sponda mi farai giungere

mio triste cuore?

Quale segreto si cela al di là del fiume?

Quali profumi mi aiuteranno a sentire meno la stanchezza?

In che modo il dolce sussurro del tuo battito mi indurrà alla meta?

A quale diaspora senti di appartenere?

In che modo la narrazione dominante ti ha fatto credere di essere in esilio?

Dice Cristina: se non ti allieti dei tuoi stanchi passi, se non ti allieti del tuo immoto sentire, l’esilio sarà la tua ignara illusione. Allietati donna del tuo struggente ruggito e vivi libera dall’angoscia, da quel struggente sentire che ruggire non può[7]

Nel suo andare il ruscello si fa torrente, e il torrente diventa un fiume che corre veloce. La corrente può essere pericolosa, può travolgere e stravolgere, può portarti dove non vuoi veramente andare e il suo fragore può rendere difficile l’ascolto di altre voci più lievi, ma essenziali, come il battito incessante del cuore, il proprio respiro, il rumore dei passi, dei pensieri, del sentire…

Rifletto su quanto poco mi capita di dedicare un tempo a me stessa, alla riflessione di ciò che la narrazione altrui mi suscita, al sentirmi prima, durante e dopo i colloqui che svolgo quotidianamente. Quasi le narrazioni egemoniche mi schiacciano e mi impediscono di ritagliarmi del tempo per lavorare su di me, sulla narrazione del sentire.[8]

Lo scrosciare dell’acqua rischia di diventare così un rumore di fondo che annebbia i sensi e noi rischiamo di abituarci presto a questo sottofondo e di finire col credere che sia l’unico suono che la natura ci offre, l’unico a cui dare credito.

Sono stati dedicati diversi incontri del corso al tentativo di riconoscere, individuare, nominare questo rumore prepotente. È quella storia egemone – per usare la stessa espressione che ci è stata proposta e che via via si è impregnata di significato – che troneggia nei nostri servizi, quella forma pregiudicante di codificazione e classificazione delle domande e degli accessi che ci dà l’illusione di cogliere alla prima occhiata chi è la persona che abbiamo davanti, che bisogni ha, quali povertà, sfortune e colpe la conducono al servizio in questione.

Ho collegato queste «teorie che anticipano l’altro» di cui parla Mortari alle storie egemoni di oggi, e ho pensato a quanto sia difficile staccarsi da queste impostazioni, interpretazioni, insegnamenti, convinzioni, protocolli, regole, prassi (insomma, da tutto ciò che “bisognerebbe fare”), per abbandonarsi all’ascolto dei nostri sensi e delle nostre sensazioni quando siamo nella relazione con l’utente. È faticoso perché tutto ciò semplifica lo svolgimento del nostro fare quotidiano e soprattutto ci fa sentire meno esposti. Ma come può realizzarsi una relazione di cura se non c’è un sentire pieno e vivo della storia dell’altro – e in essa della mia? Cosa che è probabilmente altrettanto difficile, perché significa lasciare che la sua storia metta a nudo i miei punti deboli, ma necessaria.[9]

Come scrive Silvia, queste infrastrutture teoriche e burocratiche finiscono per impigrire la nostra capacità di entrare in contatto con noi stessi, col nostro sentire che nell’intimo, inevitabilmente, viene scosso dall’incontro con l’altro, l’altra. Anche se non ce ne accorgiamo. Anche se non vogliamo. Anche se non lo ammettiamo. È uno scossone che avviene al di là della nostra volontà e che ci modifica da dentro, nonostante spesso si faccia l’immane sforzo di mantenere quantomeno apparentemente una propria intangibile e distaccata integrità professionale, e che se ascoltato avrebbe una grandissima potenza trasformativa nel gioco delle parti della relazione educativa e di cura. Purtroppo, non siamo né incentivat* né preparat* per coglierne i segnali e lasciare che ci guidino verso strade inattese e non protocollate, per questo servono una postura attenta e una comunità di altre e altri con cui insieme mettere in parola questa dimensione, riconoscendone legittimità e importanza.

Il sentire ha un carattere di clandestinità. Non se ne conosce spesso l’origine. Eppure ci abita, in qualche profondità o sulla superficie della pelle. Dargli spazio e voce a volte è un lavoro archeologico, genealogico, politico. È come se altre parti di noi dovessero sdoganarlo. Poi altre dovessero esprimerlo. Lì ci sentiamo guerriere e bambine, giocose e lagnose. Sole. Poi uno sguardo d’intesa. Da una sconosciuta, da un’altra. E tutto si prepara a cambiare. Come ogni rivoluzione, è un corpo a corpo. Mentre la bellezza appare, la pace diventa un orizzonte che si allontana sempre di più.[10]

Abbiamo constatato, infatti, quanto il non essere sole e soli in questo processo di emersione del sentire sia fondamentale per non lasciarsi prendere dallo sconforto, dall’illusione che quest’ultimo sia un qualcosa di irrazionale potenzialmente dannoso, quindi da ignorare, e non un segnale reale con una sua logica interna, un campanello d’allarme che mette in guardia dalla riproposizione continua di modelli di azione preimpostati.

Quanto le storie egemoni screditano e schiacciano anche il valore politico ed etico del lavoro di cura, del lavoro sociale? Quante volte nel mio quotidiano sento il senso del lavoro sociale perdersi in dei cavilli burocratici o in delle procedure asettiche? Allora penso al mio lavoro qui, oggi, e cerco di trovarci il valore più bello e profondo che ammetto, spesso lo sento scivolare via, quando mi sento “sola” in quello che faccio e soprattutto in come lo penso. Mi fermo e penso a quanto sia vero che il sentire accade al di là della nostra volontà, quando quello che ascolto e che ricevo diventa qualcosa di me che si infila sotto la pelle e da lì non ci va più via, quando mi do la possibilità di sentire.[11]

L’acqua scrosciante e rumorosa è costituita anche dalla Storia che da sempre ci sentiamo raccontare e a cui abbiamo finito per credere, cioè quella scritta dai letterati, uomini, bianchi, occidentali, eterosessuali, quella considerata la “storia ufficiale e universale” degli eventi e dell’“evoluzione” umana e sociale, studiata tra i banchi di scuola. La ripetuta narrazione di questa stessa Storia è insieme il prodotto e la matrice di una cultura e di un linguaggio dei quali siamo figli e figlie, nei quali ci viene automatico pensarci e pensare il mondo. È stato essenziale poterci concentrare, a partire da diversi punti di vista, sull’analisi di questi automatismi linguistici – che spesso diventano anche schemi automatici di pensiero e di azione – decostruendoli e esplorandone le implicazioni.

Riprendo dagli appunti l’importanza del “nominare i legami”. Dire le cose è un’azione fondamentale per rendere visibile e tangibile ciò che, dal punto di vista istituzionale e normativo, si presenta come inatteso (utilizzando il termine di Chiara Sità). Chiamare le cose, dare loro un nome le fa esistere: permette di crearle – da un punto di vista normativo – o semplicemente permette di farle passare dall’invisibilità alla visibilità – dal punto di vista dell’esperienza, dimensione in cui queste cose già sono ed esistono. Queste riflessioni mi hanno riportato alla mente gli Antenati Aborigeni di cui Chatwin narra ne Le vie dei canti, che creano il mondo dando un nome alle cose; in altre parole, l’importanza della parola che nomina le cose, rivelandole e facendole diventare parte imprescindibile dello spazio che abitiamo.[12]

Oggi la lezione mi ha fatto riflettere sull’insufficienza del linguaggio per descrivere identità e ruoli familiari: come mi chiamo? Co-mamma? Papà? Compagna della mamma? E questo oltre ad essere spiazzante per chi incontra una famiglia composta da 2 mamme o da 2 papà, è spiazzante anche per chi fa parte di questa famiglia. Culturalmente non siamo ancora pronti a nominare una simile situazione e sappiamo che ciò che non è nominato, paradossalmente, non esiste. Viviamo ancora in un mondo fatto di realtà sommerse, di tesori nascosti, che, finché non vengono menzionati, non emergono, non risalgono in superficie, mostrando il proprio pregio e il proprio valore. Il linguaggio è insufficiente a mostrare le diverse sfumature emozionali e della realtà: è come guardare una foto in bianco e nero, di mezzo ci sono mille sfumature di grigio che un occhio non esperto e non abituato, non nomina e che quindi non percepisce come esistenti.[13]

Forse è stato questo il tratto di cammino più impervio e faticoso da percorrere: eravamo invitate a fare il grandissimo sforzo di guardare a noi stesse e a tutto il nostro sapere dato per acquisito, sedimentato nel tempo, utilizzando delle lenti diverse che ci imponevano di cambiare prospettiva, di relativizzare concetti che davamo per assodato, di interrogarci circa modi di fare e di dire che ormai fanno parte di noi, o semplicemente di notare squarci di realtà su cui mai ci eravamo soffermate. Inoltre, siamo state costrette dalla situazione generale a svolgere questo modulo totalmente a distanza in forma online, cosa che ha contribuito a complicare sia il passaggio di informazioni, sia una elaborazione condivisa delle stesse, ma non ci ha impedito di coglierne la ricchezza e di farci mettere in discussione da quello che emergeva nel confronto con le relatrici e tra di noi.

Perdere le certezze, abbandonare ciò che si sa e si conosce, o si pensa di sapere e di conoscere, ma esplorare i margini, le frontiere, l’iniziale incognito. Tutto questo sconvolge, ma non mi sono mai sentita così viva come ora, così fortunata, così piena di entusiasmo per tutto quello che il percorso con voi mi sta dando… Sono smarrita, ma una parte di me di è ritrovata, sono confusa, ma nello stesso tempo sto iniziando a conoscermi davvero. Non vedo l’ora di poterci ritrovare di persona e proseguire questo inaspettato e sconvolgente viaggio insieme![14]

Abbiamo avuto l’opportunità di approfondire e analizzare molte situazioni in cui avvengono e si perpetuano secolari discriminazioni che con uno sguardo semplicistico potrebbero sembrare superate. Sono discriminazioni celate in sottili dinamiche sociali e comunicative, in rapporti di potere che non lasciano spazio a storie non conformi alle aspettative. Spesso i luoghi adibiti alla cura, che più di altri dovrebbero tutelare le minoranze e tutte le diversità, sono così irrigiditi dai protocolli e dall’impersonalità del “si è sempre fatto così” che faticano ad aprire brecce nelle chiusure discriminatorie del sistema dominante.

Mentre scrivo mi tornano alla mente alcuni interventi, testimonianze, racconti, video, testi e concetti che mi sono rimasti impressi. Sono tantissimi e sarei tentata di riportarli tutti, entrando il più possibile nello specifico, ma mi rendo conto che le prese di consapevolezza conquistate in numerosi incontri, tramite un continuo confronto, a fronte dell’ascolto di contenuti complessi riportati da chi per anni ha studiato un determinato tema o che ne ha vissuti gli effetti sulla propria pelle, non potrebbero essere espressi da me in questa sede senza risultare eccessivamente semplificati. Questo sia perché non vi sarebbero lo spazio e il tempo sufficienti per dar loro il rilievo che meritano, sia e soprattutto perché io non ho la preparazione adeguata per parlarne.

Mi limito quindi focalizzarmi su una chiave di lettura che ci è stata data al corso: di fronte alle destabilizzanti dinamiche discriminatorie approfondite, come professioniste del lavoro di cura abbiamo una porzione – seppur limitata – di potere che ci permette di fare la differenza. È nelle relazioni interpersonali che possiamo decidere di agire delle (micro)aperture o delle (micro)chiusure che a loro volta possono dare o togliere potere alle persone con cui lavoriamo, riconoscendo e dando valore a quell’irriducibile differenza di cui sono portatrici e preparandosi ad accogliere quell’inatteso che ci imporrà di cambiare le nostre procedure consolidate, i nostri servizi e anche un po’ noi stess*.

Come un mosaico non finito ritaglio e posiziono gli inestimabili interventi che in queste due giornate mi hanno (RI)GENERATO. La sensazione è proprio questa: continua ri(nascita), quando ti si aprono davanti nuovi modi di pensare altrimenti, non si è più gli stessi. Si è ricchi e io in questo momento mi sento proprio così: ricca e rigenerata, non finita.[15]

La gioia della foce

Ormai ci troviamo in un fiume in piena, dove l’acqua raccolta dalle sparpagliate fonti e dai numerosi affluenti scorre fertile, gioiosa, ricca di vita e di movimento, pronta a riversarsi con un maestoso estuario sul mare e poi sull’oceano, pronta ad abitare le immense e luccicanti distese delle relazioni ritrovate e i più profondi abissi che l’incontro e il confronto con l’Altro, l’Altra portano con sé.

Dopo mesi di incontri online in cui ci siamo concentrate sull’importanza e la necessità di riabilitare un sapere più circoscritto, situato, che parte da noi, da quello che siamo, dalle nostre esperienze e dall’ascolto del nostro sentire, ecco che finalmente si apre la possibilità di incontrarci per davvero, corpo a corpo, faccia a faccia, senza dispositivi tecnologici di mediazione.

Dopo il Lockdown, abbiamo finalmente la possibilità di incontrarci, una immensa gioia!

[…] Mi ha fatto tanto piacere condividere i dolcetti e condividere anche le nostre esperienze, che attraverso i vostri racconti le ho vissute tutte, mentre siamo sedute insieme nel cerchio di narrazione. Mi sa che è diventato una dipendenza quella del cerchio ad ascoltare storie personali/ professionali di donne che hanno lottato per il bene degli altri, e lo stanno ancora facendo con amore e passione senza mai perdere la speranza.[16]

A farci gustare ancora di più la gioia dell’essere in presenza è stata l’unicità degli ultimi magici incontri vissuti insieme. Similmente a quanto accaduto all’inizio del corso quell’unica volta che ci eravamo vist* in presenza, era stato predisposto un setting di lavoro molto insolito, nonostante ci trovassimo in un’aula universitaria: i banchi e le sedie erano stati spostati, nascosti, e il pavimento tappezzato di coperte, cuscini, tappeti morbidi e variopinti ai quali ognuna aggiungeva il suo, componendo un grande mosaico per terra dove una a una prendevamo posto, sedendoci in cerchio dopo esserci tolte le scarpe, quasi come percepissimo una sacralità nell’atmosfera, data non solo dalla fiamma traballante della candela posta al centro, ma dalla tangibile energia e inequivocabile emozione che in quel cerchio prendevano corpo e spessore.

Abbiamo abbandonato le penne e i quaderni per prendere appunti quasi subito, nel momento in cui abbiamo capito che non sarebbero serviti perché era altro quello che ci aspettava. Quegli ultimi incontri laboratoriali ci avrebbero offerto uno spazio nostro: spazio fisico, mentale, relazionale, immaginativo. Spazio per muoversi e sostare, per ricordare e raccontare, per ascoltarsi e ascoltare, per sentire e lasciarsi andare. Spazio non per parlare di cura, ma per prenderci cura di noi.

Un foulard soffice dalle tinte delicate è stato fedele compagno delle nostre narrazioni: passandoci questo testimone ci siamo raccontat*, in seguito a piccoli input che venivano proposti dalle facilitatrici, stralci delle nostre storie che nemmeno noi pensavamo di ricordare. Abbiamo così ripercorso le impronte che più o meno consapevolmente seguiamo e quelle da cui tentiamo di fuggire, i nodi antichi e quelli recenti che hanno influenza sulle nostre strade e sulle scelte che facciamo, gli incontri e le figure che ci hanno segnato, ma anche il primo pensiero fatto al mattino, l’ultima persona con cui abbiamo parlato, l’immagine che in un dato momento avevamo nel cuore. Unica regola: chi aveva in mano il foulard aveva la parola, le altre e gli altri ascoltavano senza intervenire. Nell’ascoltare le voci altrui accadeva che man mano si facesse chiarezza anche dentro di sé, nella loro storia si poteva scorgere un’eco della nostra, nelle loro interpretazioni e riflessioni emergevano elementi utili per rileggere i nostri ricordi, dare un senso diverso ai fatti, percepire alcune proprie emozioni ancora nascoste, inespresse, ristabilire un contatto col proprio sentire.

Ho partecipato a un sogno. Penso che non ci sia niente di più potente di un cerchio di condivisione, dove le parole si intrecciano e gli intrecci diventano sostegno, culla, CASA. Senza aspettative o richieste, ma semplicemente supportando e offrendosi alla bellezza, con quel che si è.[17]

Alla narrazione come gesto di cura, talvolta si affiancavano altre modalità espressive, a volte spontanee, altre volte proposte dalle conduttrici dell’incontro. Così ci siamo ritrovate cullate da melodie più o meno note cantate in coro, oppure appese a un filo che ci connetteva tutte in una intricata ragnatela; ci siamo scambiate complici sguardi interdetti nell’ascoltare interi discorsi in lingue per noi incomprensibili; abbiamo assaggiato e gustato cibi preparati da alcune di noi che sapevano di storie e culture vicine e lontane; ci siamo cimentate, tentennanti e impacciate, ad intrecciare nodi per comporre una nostra versione di quipo peruviano. La condivisione di esperienze così semplici da un lato, dall’altro così fortemente significative ha contribuito a rendere il nostro gruppo una piccola comunità di cura, in cui tramite gesti, sguardi e attenzioni abbiamo imparato ad occuparci le une delle altre e, soprattutto, abbiamo imparato a guardare a noi stesse come a un’unità complessa e indivisibile, composta da variegate dimensioni in continuità l’una con l’altra.

Ciò che in ambiente accademico occupa interi paragrafi e capitoli di libri e manuali, in questo percorso lo abbiamo sperimentato. La cura è qualcosa di rotondo, che racchiude in sé molti piani e dimensioni; è circolare, perché nelle relazioni che si creano il dare è strettamente connesso al ricevere.[18]

Una delle dimensioni più dimenticate quando si parla di educazione è quella corporea: viene sempre più naturale pensare di avere un corpo, e non di essere il nostro corpo, pertanto nella maggior parte dei discorsi e degli interventi pedagogici questo viene escluso, ritenuto un elemento accessorio della persona o considerato solo nella sua estetica (quando si valutano l’igiene, la trasandatezza o meno di una persona etc.).

Sentire il corpo, recuperare ogni sua parte, accorgersi che c’è, sempre, in ogni momento del nostro Essere. Mi dimentico di lui solitamente? Si, mi servo di lui solo come trasportatore di pensiero, di anima, di sentimenti ed emozioni. Razionalmente so che anch’esso ha bisogno di essere riconosciuto perchè ha valore, perchè senza di esso null’altro potrebbe esserci. Difficile per me, eppure ultimamente ho ricordato quanto il corpo possa sostenermi, ancorarmi saldamente al terreno facendo aderire ad esso completamente le piante dei piedi quasi a dare più forza anche al mio esprimermi, spesso titubante perchè lo ritengo di poco valore (ma chi sono io per…).[19]

Dunque, quando uno dei nostri incontri è stato dedicato interamente ad attività di danzaterapia e pedagogia del corpo, in molte siamo rimaste sorprese dalle corrispondenze tra movimenti, pensieri ed emozioni che abbiamo sperimentato mentre, in quel caldo pomeriggio di maggio, danzando tra gli alberi del giardino universitario, ascoltavamo quello che il nostro respiro, i nostri muscoli, la fluidità dei nostri gesti ci raccontavano di noi. Come suggerisce Gamelli in Pedagogia del corpo, «la nostra capacità di ascolto, cassa di risonanza della nostra interiorità, si modula sull’apertura dei nostri sensi al mondo»[20].

…Lo sperimentare il respiro e il movimento in svariate condizioni ha simulato il nostro quotidiano: a volte dobbiamo spingerci controvento, altre invece veniamo sospinti, quasi senza sforzo in avanti, a proseguire il viaggio. Mi è piaciuto il concetto del respiro che cambia, che a volte può essere pieno e forte di aria, a volte vuoto e leggero, ma che entrambe le condizioni siano necessarie per il nostro esistere. […] Oggi ho sperimentato nuovamente la potenza del respirare consapevolmente: calma la mente, chiarisce i pensieri, rinfranca il corpo trascurato.[21]

Io sono il mio corpo. Io sento toccando, ed è il mio corpo a sentire, sono io, ed è il mio corpo che sento, ed è me che sento. Non riesco a toccare senza essere toccata. C’è una reciprocità tra di noi, che non riesce ad estinguersi. Il mio corpo è fuori. Il mio corpo è aperto ed esteso. Io sono il mio fuori. L’anima è fuori, disseminata in ogni cellula di pelle e se ti tocco è la mia anima a toccarti e ad essere toccata.[22]

A sancire la continuità tra interiorità ed esteriorità, tra noi stessi e gli altri e tra noi e il mondo è stata l’esperienza finale in cui è sfociato il corso: il laboratorio di arte comunitaria, guidato dal collettivo artistico Ideadestroyingmuros. È avvenuto in due luoghi e momenti distinti, a Palermo a giugno 2021 e a Verona a settembre 2021, perché tutti e tutte coloro che avevano seguito il corso, provenienti principalmente da queste due aree geografiche, avessero l’opportunità di parteciparvi. Com’era avvenuto già per i sensi, per il corpo, per la narrazione e per altri termini comunemente usati o procedure attuate automaticamente, anche all’arte è stato attribuito un senso nuovo, più ampio: non più la creazione estetica prodotta dal genio del singolo artista, ma il processo creativo tramite il quale una comunità, a partire da un’idea, da un’intuizione, arriva a darle corpo e forma. Sta tutto lì, in quel processo: lì vi è la fatica fisica del fare, lì si intrecciano relazioni, lì c’è il confronto tra modi di operare diversi, tra modi di pensare altri, lì ci sono le narrazioni e i significati che ogni persona collega a quel fare, agli oggetti che passano di mano in mano, ai materiali utilizzati che a loro volta stimolano i sensi…

Con questi laboratori si è lavorato a due installazioni: un nido, a Palermo e una tenda che riproducesse l’ambiente marino, a Verona; per ognuna si è impiegata una settimana di tempo. Io ero presente a Verona, quindi le poche pennellate che riporto partono da quella esperienza, a cui ho avuto il singolare privilegio di partecipare insieme a mia figlia Lia di due mesi e a mia madre, a cui ho chiesto di accompagnarmi per aiutarmi nell’accudimento della bambina. È difficile, se non impossibile, riassumere in poche righe la portata rivoluzionaria di quel laboratorio.

Eravamo tante donne di tante età, di tanti colori, lingue e provenienze; c’erano ricercatrici universitarie e piccole artigiane, c’erano madri, nonne, sorelle, figlie, c’erano bambine, bambini, giovani e anziane; c’era anche qualche uomo; c’erano studentesse che avevano frequentato il corso, ma sono passate anche persone che davano il loro contributo forse senza neanche intuire che si trattava di un’iniziativa proposta dall’Università. Nel fare, infatti, sparivano le etichette e sbiadivano pregiudizi e aspettative: eravamo tutte prese, tra forbici, vestiti e macchine da cucire, dall’opera che insieme stavamo creando, tutte cercavamo il modo di esserci utili a vicenda contribuendo alla costruzione della tenda, ma anche accudendo l’una i figli dell’altra. L’ambiente – la sede di Casa di Ramia – era informale, accogliente, sapeva di casa, di cibo, di polvere e sudore, di sorellanza e complicità. Tra una sessione e l’altra di lavoro c’era il tempo di una merenda insieme o di una pratica yoga proposta da una compagna brasiliana per rilasciare le tensioni accumulate durante il giorno. Mia figlia è diventata un po’ anche figlia dell’intero gruppo, lasciandosi cullare da molte mani diverse, e le altre donne per me sono diventate un po’ madri e maestre di una genitorialità comunitaria e condivisa.

Ecco come, alla fine, il fiume si è riversato nel mare. È successo nel momento in cui ho percepito che tutto quello che avevo appreso, studiato, tentato di imparare per diventare una professionista della cura “migliore” aveva sconfinato, investendo l’intero mio essere, occupando uno spazio dove identità privata e professionale non erano più nettamente separate. Uno spazio in cui il prendersi cura non è unilaterale, riferito a professioni specifiche o a “utenti” dei servizi, ma è un movimento proprio dell’essere umano che è chiamato, in sé, con gli altri e le altre, a coltivare umanità.

L’acqua è sensibile alle parole

La parola detta vibra

Siamo acqua viva

Nate dalle acque versate delle madri

Da un ombelico

Da una sorgente

Vicino ad un fiume

Il mare era il destino

Tutto va al mare

Mi rifletto infinitamente piccola nei pezzi tagliati,

il cielo è una tenda

una tenda è il mare[23]


[1] L. Comba, Ciò che non è verificabile in Azzolini, Cavarero, Comba, Muraro, Piussi, Sartori, Tommasi, Zamboni, Boella, DIOTIMA. Mettere a mondo il mondo. Oggetto e oggettività alla luce della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1990, p. 159.

[2] Margherita, diario condiviso.

[3] Cfr. L. Comba, Ciò che non è verificabile, cit.

[4] Giulia, diario condiviso.

[5] Marco, diario condiviso.

[6] Rosanna Cima, diario condiviso.

[7] Cristina S., diario condiviso.

[8] Giorgia, diario condiviso.

[9] Silvia C., diario condiviso.

[10] Livia, diario condiviso.

[11] Lisa, diario condiviso.

[12] Linda, diario condiviso.

[13] Elena, diario condiviso.

[14] Giorgia, diario condiviso.

[15] Giulia, diario condiviso.

[16] Fatima, diario condiviso.

[17] Giulia, diario condiviso.

[18] Diario della Tenda Verde. Consultabile a questo link:

https://www.laboratoriosaperisituati.com/formazione/corso-di-aggiornamento/laboratori-di-arte-comunitaria/tenda-verde

[19] S., diario condiviso.

[20] Ivano Gamelli, Pedagogia del corpo, Meltemi, Milano 2006, p. 74.

[21] S., diario condiviso.

[22] Emilia, diario condiviso.

[23] Diario della Tenda Verde.