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per amore del mondo Numero 8 - 2009

Fare Mondo

Come la strada più lunga. Studio Guglielma: una vocazione alla creazione sociale

 

Mi vuoi bene?
Si, tanto.
Ma quanto?
Come la strada più lunga.
 
(Chinese, 1976)

 

  1. La matrice affettiva delle imprese femminili

 

Qualche anno fa mi trovavo presso il Centro Documentazione Donne di Mestre-Venezia per un lavoro di consulenza ai servizi della Biblioteca. Alla mia associazione di servizi e formazione era stata richiesta una consulenza e una breve formazione per le operatrici della Biblioteca. Nei momenti di pausa curiosavo tra i tanti scaffali che ordinati, quasi con devozione, raccoglievano e rendevano disponibili alla lettura tantissimi testi di donne, pensatrici, letterate, storiche. Mi capitò tra le mani un libretto minuscolo della casa editrice Scritti di Rivolta Femminile dal titolo suggestivo: la strada più lunga. Uno dei tanti libretti verdi di Rivolta, uno dei gruppi più significativi del femminismo italiano degli anni Settanta. Li conoscevo bene essendo una lettrice, fin da giovanissima, di Carla Lonzi, fondatrice e figura autorevole del gruppo e della casa editrice.

Cominciai a sfogliarlo e vi trovai subito un ex ergo che mi colpì come una piccola folgorazione: “Mi vuoi bene?/ Si, tanto. /Ma quanto? /Come la strada più lunga” (Chinese, 1976, p. 5). Il libretto si presentava come una raccolta di immagini fotografiche delle donne di Rivolta che erano state riprese in momenti di discussione durante gli incontri di gruppo. Le foto erano in bianco e nero, pulite e sobrie. Le donne, belle e giovani, erano ritratte in momenti pensosi, di parola, di discussione intensa, di chiacchiera forse disimpegnata. Quei versi mi tornarono spesso nella mente nelle giornate successive. Mi domandavo cosa volesse dire l’autrice rispondendo, alla domanda di un’altra di quantificare il bene, non con la dismisura infinita dell’amore: tanto quanto un mondo, tanto quanto l’immensità del mare… ma qualificandolo in un come, con la misura di una strada da fare, una strada che va percorsa e che non si presenta come scorciatoia, ma lunghezza-lentezza da attraversare, calpestare ‘come una lunga strada’. Al salto nell’immenso viene preferito camminare passo dopo passo, essendo la prova del bene non saltare un necessario tragitto.

La metafora di una lunga strada da percorrere sta, secondo la mia lettura, per una misura rigorosa che le donne in alcuni contesti di pratica e di riflessione presero a cercare nel tentativo di trovare le mediazioni capaci di ordinare le relazioni femminili con modalità differenti da quelle vigenti nell’ordine patriarcale. Questa strada, che per le donne degli anni Settanta, iniziatrici di una rottura fortissima, era tutta da esplorare e da inventare, per le donne venute dopo, per la mia generazione ad esempio, era già aperta e in parte disponibile. Apertura che non esonera per niente le donne venute dopo dal cercare una misura in proprio, che sia in grado, oltre che di fare ordine nelle relazioni, di esplorarne le potenzialità creative e politiche a partire dalla propria esperienza e dalle mutate condizioni date dal proprio tempo storico.

Via via che queste riflessioni fin qui presentate si andavano chiarendo nella mia mente, affioravano anche continue associazioni con la mia esperienza di pratica di relazioni che da anni mi impegnava molto. Riconoscevo infatti una medesima matrice affettiva oltre che nelle nostre relazioni politiche anche nelle iniziative e intraprese che ne erano il frutto più prossimo. Percepivo un filo di continuità molto forte sfogliando quel libretto verde nella sala di consultazione del Centro donne: gesti di scrittura molto forti avevano dato vita ad un patrimonio di cultura femminile importante, oltre che a spazi pubblici, luoghi e situazioni che davano visibilità sociale e valenza politica a tutto questo. Passando poi dal filo della continuità con le donne venute prima all’inevitabile discontinuità con la mia generazione mi apparve chiaro che strumenti, pratiche e terreno di lotta si erano molto modificate nel tempo. Circondata da libri che parlavano di autocoscienza, di sessualità, di aborto, di salute delle donne, di corpo e di una sua libera riappropriazione, di sottrazione alle relazioni di dominio con l’altro sesso, di servizi per l’infanzia capaci di sostenere la maternità, pensavo alla grande differenza tematica del dibattito a me attuale.

I temi emergenti,  che anch’io con altre avevamo contribuito a mettere in circolazione, erano ben diversi. Non più di sessualità si parlava con enfasi ma di lavoro e denaro, non più di scrivere diari personali da rendere pubblici per contribuire ad operare quello spostamento ‘personale è politico’, tanto caro e importante per le donne negli anni Settanta, quanto piuttosto a come marcare con la propria soggettività, prossimità all’esperienza e con un senso libero della differenza femminile le variegate imprese e avventure femminili, l’essere delle donne ovunque in ambiti e professioni.

Attraverso l’autocoscienza, la pratica di relazione e la pubblicazione dei diari, sostenute dalle molteplici iniziative dell’ampio e diversificato movimento di critica sociale e di libertà e liberazione delle donne noto come femminismo, le donne hanno spostato la soglia della dimensione pubblica immettendovi soggettività.

La rottura di quei recinti millenari che confinavano il vissuto personale ad una dimensione impolitica e privata, e le relazioni femminili al caos o alla lotta per il riconoscimento maschile, aveva liberato la possibilità di pensare, praticare, nominare lo stare al mondo delle donne. Dopo anni dedicati a gruppi esclusivamente di parola (Libreria delle donne, 1987; Schiavo 2002) emerse un bisogno di incrociare una pratica del fare che attorno al bisogno di luoghi comuni e di spazi femminili desse valore pubblico a relazioni e agire femminili. E’ della metà degli anni Settanta la costituzione di gruppi che si dedicarono alla realizzazione di qualcosa: librerie, case editrici, riviste, luoghi di ritrovo e socialità. Rivolta Femminile era tutt’altro che un’esperienza isolata, infatti nel 1975 nacque sempre a Milano la casa editrice La Tartaruga, dedicata alla letteratura femminile e sull’esempio della Libreria delle donne di Milano nacquero librerie anche a Torino, Bologna, Roma, Firenze, Cagliari. Seguirono negli anni Ottanta le Biblioteche delle donne come quelle di Mestre-Venezia nella quale mi trovavo e quella di Parma, oltre agli innumerevoli Centri di documentazione donne sparsi in tutt’Italia.

Capivo ora meglio il senso di tutti quegli scaffali pieni di libri scritti da donne e che di donne parlavano, capivo il senso della Biblioteca e del Centro nel quale mi trovavo e mi sembrò di camminare e di sentire sotto i piedi la terra di una lunga strada percorsa. Molta strada era stata fatta sotto forma di imprese di passione e desiderio, di fare e di creare, di invenzioni pratiche e simboliche che erano diventate spazio e dimensione pubblica nella città di donne e uomini, per generazioni presenti e future come lasciti reinvestibili, reimpiegabili al bisogno.

Lessi in tutti quei gesti di scrittura che erano diventati libri negli scaffali, in quegli spazi curati, accuditi e aperti al pubblico, un carattere proprio delle imprese femminili: una inconfondibile matrice affettiva declinata come imprese di scrittura e non solo. Imprese che ai miei occhi disvelavano i suoi molti sensi essendo la scrittura inserita in una dimensione più ampia di iniziative, movimento di idee e persone, invenzione di pratiche, stili relazionali che fanno sì che il libro-oggetto sia parte di qualcosa di più ampio, parte di una tessitura, un textus,  un testo sociale (De Vita, 2004).

 

  1. Vocazioni alla creazione sociale

Perseguendo al fine di esaurire la metafora della strada più lunga, è arrivato il momento di mostrare come percorrendo una strada già aperta sia tuttavia necessario, per iniziare qualcosa in proprio, operare in due sensi: mettere a frutto la continuità con le donne venute prima e accogliere ed elaborarne gli elementi di discontinuità (Corsi, De Vita, Giardini, 2001).

Leggere e interpretare in modo originale (a partire da sé) la propria esperienza e le circostante e le condizioni del proprio tempo storico, rischiando in proprio e azzardando percorsi non già aperti e segnati è infatti la condizione per diventare autrici di un proprio inizio che, non dimentico dell’origine, tuttavia da essa non rimane soggiogato. Cercare il proprio inizio coincide, nell’esperienza mia e delle mie socie, con la ricerca di una nostra propria forma, della vocazione del nostro fare impresa. Impiego una parola impegnativa quanto desueta come ‘vocazione’ avendo in mente i percorsi religiosi ma anche quelle vocazioni laiche, come quella di cui vado parlando, anch’esse una combinazione straordinaria di cercare e trovare. Scrive Cristina Campo “Esiste per ciascun viandante un tema, una melodia che è sua e di nessun altro, che lo cerca fin dalla nascita e da prima di tutti i secoli, pars, hereditas mea. Come, dove discernerla?”, (Campo, 1987, p. 137). E’ la domanda di chi percorre un cammino nell’attitudine a cercare un tema o vocazione, ed è solo trovando il proprio tema che è possibile che un destino prenda forma, che le vite si facciano esperienza, capaci di creare quel movimento di rispondenza tra desideri e bisogni e che gli elementi di necessità si aprano a quella dimensione che fa del loro essere limite, un limite-movente, mobile in quanto desiderante.

Con la lente della discontinuità le donne di Rivolta riprese nello foto, che si incontravano avendo in comune l’impegno politico – che volontariamente e gratuitamente coltivavano – mi sembravano molto diverse da me. Per me l’impegno politico da qualche anno era andato quasi a coincidere con un lavoro, con la creazione di un’attività autonoma svolta con altre, un’esperienza di autoimprenditorialità, capace di rispondere alla passione politica e al bisogno di vivere del proprio lavoro. La prima conseguenza di questa diversa collocazione è che le relazioni politiche con alcune amiche erano diventate anche relazioni di lavoro, essendo l’altra diventata oltre che amica significativa, una ‘collega’, anzi più precisamente, una ‘socia d’impresa’. Così il nostro comune fare impresa oltre che significare un’avventura corsa assieme, passione e relazione, diventava qualcosa di meno metaforico e alla maniera allegorica, impresa nel senso letterale e non solo, riuscendo la letteralità del fare impresa, a svegliare sensi e significati spirituali(De Vita, 2004).

Quando assieme ad altre tre socie ho fondato la nostra Cooperativa Studio Guglielma non avevamo dubbi che ci saremmo chiamate ‘Guglielma’ perché da molti anni è la nostra santa protettrice, una donna venerata come santa nel tardo medioevo a Milano e i cui seguaci al processo dicono di lei che era l’incarnazione dello Spirito Santo al femminile, e che era venuta a compiere quello che Gesù aveva cominciato per parte maschile (Muraro, 1985). Già l’Associazione Mimesis – la nostra esperienza precedente alla costituzione della Cooperativa Guglielma – aveva denominato la sua traiettoria operativa Progetto Guglielma quando da associazione di studenti appassionati di teatro e di politica, divenne nel 1994 un’impresa sociale con la scommessa di mettere in gioco il desiderio di fare cultura e politica, l’esigenza di guadagnarsi da vivere e l’aspirazione a lavorare assieme. Una santa che ben risponde a donne che si sentono parte di una genealogia femminile e che da lì prendono lo slancio per iniziare qualcosa in proprio, seguire un’intuizione e un desiderio, esser fedeli a una necessità.

Studio Guglielma dal momento della sua nascita si occupa di ricerca e progettazione sociale, di accompagnamento agli enti pubblici e alle istituzioni per la realizzazioni di azioni complesse, di accompagnamento sociale e di promozione della cittadinanza attiva e dei processi partecipativi in contesti urbani (quartieri), di mediazione sociale nel territorio. E’ un modo molto sintetico e del tutto parziale per spiegare quello che facciamo. Correndo il rischio di oggettivare la competenza che ci è propria la potrei definire ‘una intelligenza a comporre’ dimensioni che il più delle volte tendono ad essere separate. Componendo e combinando si è pure andata formando la nostra professionalità più matura in un processo che non affiancava più differenti competenze separate ma le abbinava e così facendo le moltiplicava. Ci siamo avvicinate a scoprire il nostro proprio, la nostra vocazione, quando l’elenco delle cose che avevamo imparato a fare negli anni, tante e diverse, hanno cominciato a riordinarsi a partire da un solo nucleo. L’elenco delle cose che sapevamo fare si presentava sinteticamente così: progettare e gestire servizi per l’università e gli enti pubblici; ideare, progettare, gestire, valutare corsi di formazione con adulti e adulte orientati alla creazione d’impresa e alla gestione creativa dei conflitti, accompagnare enti pubblici e imprese sociali nell’ideazione di servizi, svolgere indagini e ricerche-intervento sul territorio. Quando la cooperativa è nata ci fu un grande sforzo, significativo e fruttuoso, per precisare su cosa potevamo puntare per far sì che una piccola struttura potesse, oltre che stare sul mercato, non smarrire il suo tratto di differenza dal punto di vista della forma organizzativa e del valore e del senso politico delle nostre relazioni e trovare lo slancio per significare positivamente questa differenza. Lucia Bertell, la presidente della cooperativa, ne parla così in uno scritto:

Sono le relazioni esistenti tra noi, con le loro perdite, la loro qualità, che negli anni hanno preso sempre maggiore consistenza attraverso il modo, il tempo e lo spazio che ci siamo date per coltivarle e attraversarle in una dimensione così complessa, difficile e conflittuale come quella lavorativa. Sono le prove che queste relazioni hanno superato in tanti anni di vita associata e d’impresa sociale, riuscendo a salvaguardare il piacere della relazione e un di più che sta nel continuare a volerci bene, che ne hanno fatto la qualità. Sono queste prove che hanno contribuito a dare forma concreta, tangibile e percepibile, per quanto sempre misteriosa, ad un richiamo che ci aveva fatte incontrare e che ci aveva messe insieme, che ci aveva portate a inventarci un lavoro e a far nascere un’impresa: la nostra vocazione. Un richiamo a metterci alla ricerca e in cerca della politica, per trovare e ri-trovare gesti e azioni significative e pregnanti, linguaggi e movimenti che dal partire da sé e dalla  pratica delle relazioni prendono ispirazione e orientamento per stare e trasformare qualcosa dell’esistente passando dal nostro rapporto con esso. Elaborare e concepire il proprio rapporto con l’esistente, il presente e la realtà conosciuta è, nella strettoia di una difficoltà, l’autentico grimaldello del rendere politico, trovare politico, fare politico ciò che politico non sembra, e  rendere dislocabili e marginalizzabili le forme usurate di questo agire, quelle che hanno perso credito e forza attrattiva agli occhi di donne e uomini negli ultimi decenni. (Bertell, 2006, p. 72).

 

L’aspirazione a farsi ricercatrici-cercatrici di una politica elementare è il nucleo comune e condiviso che marca la differenza della nostra impresa e che ha significato concretamente poter cercare e trovare una originalità e una vocazione del nostro far-essere e stare assieme. La creazione sociale esprime il desiderio e la necessità che le relazioni intercettino fortemente ma liberamente le condizioni poste dalla realtà. In tal senso dai contesti che abitiamo o scegliamo di frequentare ne deriva una misura concreta. I contesti mostrano e precisano quali sono le condizioni con le quali il nostro desiderio di creazione e di non adattamento integrativo deve misurarsi. Disfatto da qualche decennio quello che un tempo potevamo chiamare genericamente il contesto sociale, i contesti sono particolarmente importanti per chi voglia non solo essere attore o attrice sulla scena pubblica recitando la propria parte, ma autore e autrice di contesti, essere nella posizione di crearne con una potenzialità creativa e politica, con-testi dunque.

La pratica del contesto è stata la nostra scuola e la cosa che avevamo da pensare, il nostro compito. Nella misura in cui quello che faceva di noi un’impresa era: voler lavorare assieme per guadagnare da vivere, e continuare a cercare assieme la politica che sembra perduta, questo incrocio di necessità e bisogno ha trovato nella pratica del contesto il suo radicamento e il suo luogo terzo, il suo medium. Limite e slancio per far-essere impresa le relazioni femminili,  per farle andare dappertutto, e per imparare a riconoscere autorità femminile ovunque avremmo incontrato donne che la fanno esistere e la sanno mettere in circolazione, in un percorso che desse corpo, mente, parole inventive per i nostri legami e la loro complessità, facendone una storia, anzi di più, una Vocazione. La pratica del contesto è stata dunque per noi la condizione che ha fatto evolvere la storia verso l’impresa e la sua autorialità, facendo emergere l’originalità della nostra traiettoria. Abbiamo capito che ci appassionava un doppio movimento: curare le condizioni, ricamarci attorno, combinarle e ricomporle, mettendo all’opera l’allegoria d’impresa che permette alla luce delle condizioni di sprigionare il possibile perseguendo l’impossibile, avere maggiore presa sulla realtà, inventandola, fantasticandola, creandola, facendola esistere con la misura del proprio desiderio (Bertell, 2006, p. 73).

 

 

Creare con-testi, fare creazione sociale significa, tra le altre cose, proporre quel movimento di continuità e di discontinuità, di nuovo inizio, di quei gesti fondativi delle donne che negli anni Settanta hanno spostato la soglia della dimensione pubblica mettendo in circolazione soggettività attraverso la massiccia produzione di scritture, iniziative, pratiche: testi sociali. Lo hanno fatto introducendo nelle forme tradizionali della politica degli impensati: la pratica delle relazioni, la pubblicazione dei diari e tutto quell’ampio movimento di critica e di lettura del mondo. Dopo diversi decenni da quell’inizio così dirompente, altre generazioni di donne, in condizioni del tutto differenti, si fanno autrici di scritture collettive, diari e testi sociali che attorno ai nodi del proprio tempo: lavoro, economia, organizzazione, nuove forme della politica e della democrazia, si fanno autrici di testi e contesti, in una pratica di relazioni consolidata che permette di  cominciare a scrivere e a descrivere delle creazioni anche il suo lato d’ombra.

 

  1. Il lato oscuro della creazione: un inferno tutto femminile.

Dopo tanti anni di pratica delle relazioni e d’impresa sono sempre più persuasa della grande necessità di cominciare a raccontare il lato oscuro delle creazioni femminili. Si tratta infatti non solo di colmare un vuoto di simbolizzazione e di nominazione, che potrebbe orientare molto nella gestione dei tanti conflitti che viviamo, ma anche di farne occasione di straordinario apprendimento. E’ infatti prerogativa dei fallimenti e delle catastrofi relazionali portare alla luce, in quel movimento uguale e contrario all’intesa e alla felice comunicazione e costruzione, qualcosa che è brutto ma è essenziale. I conflitti ci danno infatti l’occasione di scarnificare, scorticare quello che in altre condizioni è ricoperto o rivestito di carne. Uso questo linguaggio per associazione a quanto Gregory Bateson dice a proposito della verità: è come uno scheletro che è certamente brutto ma è ‘essenziale’. Nei conflitti si toccano infatti i nuclei profondi, dove quel che è essenziale per noi, risulta visibile e tuttavia intangibile e non negoziabile: il nostro duro nocciolo.

Nella biblioteca di Mestre-Venezia dove trovai il libretto verde molta letteratura era disponibile nel senso di mostrare ed enfatizzare la positività di azioni e parole di donne per donne ma non c’era  uno scaffale dedicato ai fallimenti, alle catastrofi di tante imprese femminili, e a quell’esperienza violenta e quasi selvaggia che sono alle volte i conflitti nei rapporti tra donne. Ciò che trovo molto interessante, dopo aver attraversato pochi ma significativi conflitti con altre donne, è la piega distruttiva e totalizzante che essi prendono e che, a differenza di quelli tra uomini, sono talmente carichi di densità affettiva da tendere a dis-fare tutto, a operare la creazione nel suo senso contrario: una disfatta o una de-creazione.

Una chiave di lettura che mi ha permesso di imparare qualcosa di me e della relazione dalla dimensione conflittuale riguarda proprio l’azzeramento della capacità di fare mediazione, di parzializzare, di circoscrivere e circostanziare. Così pure la fragile capacità ironica e ludica attorno alle situazioni critiche e alla competenza a trattarlo, a giocarci, a prenderlo in mano. C’è un carattere ‘drammatico’ nella conflittualità femminile che tende a non scansare il lavoro di mediazione dove si annida il negativo, a non conoscere il Purgatorio, luogo di transito tra i vertici del positivo e quelli del negativo. Nel medioevo, quando assistiamo all’invenzione del Purgatorio, viene forse sentita, per parte maschile, la necessità di simbolizzare uno spazio terzo, uno spazio di mediazione, nel quale disattivare, almeno parzialmente, la dimensione più distruttiva del negativo. Vedo in questo senso gli uomini e la cultura patriarcale meglio attrezzata a mettere in salvo opere e relazioni, a non investire del medesimo pathos drammatico le situazioni conflittuali con derive certamente più strumentali ma tuttavia più funzionali. Non è poi così estranea quella dimensione ludica, a giocare e a fare a pezzi il conflitto, a suddividere in ambiti attraverso l’impiego dei ruoli e del riconoscimento del potere/dei poteri.

La differenza femminile nel conflitto parla con una straordinaria intensità affettiva e volge al peggio il medesimo motore della più riuscita e produttiva creatività. Nella mia esperienza diretta e osservando situazioni conflittuali e molti gruppi di donne in formazione ho verificato un grande spreco di energie femminili attorno ai conflitti in tali proporzioni da sentire che la scarsa competenza a stare e a so-stare nei conflitti il più delle volte tiene in ostaggio energie e intelligenze mettendole fuori uso, quasi non più impiegabili. E’ da questo tratto che tende all’assoluto a rendere, credo, molti conflitti tra donne insanabili. Tuttavia è proprio questa stessa dimensione di assoluto che permette, quando il conflitto è ben trattato, di ‘portare in salvo l’essenziale’, di operare le mediazioni necessarie mettendo in campo mediazioni originali, rispettose del nucleo di ognuna, differenti dalle forme del compromesso o dell’aggiustamento strumentale, e dunque non a ribasso. La dimensione assoluta infatti non rinuncia mai alla più alta pretesa e aspettativa, ed è per questo che quando si riesce a drammatizzare e sdrammatizzare i conflitti, a giocarci un po’ rendendoli afferrabili senza rimpicciolirli, semplici senza semplificarli, realmente tangibili a partire da situazioni concrete e puntuali piuttosto che fantasmagorici e diluiti in un tempo irreale,  essi sono una straordinaria fonte di fine intelligenza delle relazioni e del farsi delle opere comuni.

Nella quotidianità della pratica di impresa con altre donne sono state molte le occasioni per sperimentare queste possibilità creative del conflitto, la possibilità di reimpiegare al meglio il lato oscuro delle relazioni e delle creazioni. Rinunciando a voler portare tutto alla luce, senza tuttavia dismettere la fiducia che l’altra possa capire, dai conflitti  e dai fallimenti vengono orientamenti di grande importanza per potenziare la libera espressione della differenza femminile che nella sua irriducibile tensione all’assoluto che forse del Purgatorio preferisce fare a meno.

 

“Io voglio essenziare la creazione” (Gualtieri, 1995, p. 51).

 

 

NOTE BIBLIOGRAFICHE

 

1.Chinese Maria Grazia (1976), La strada più lunga, Scritti di Rivolta Femminili, Milano.

2.Libreria delle donne di Milano (1987), Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, Torino.

  1. Schiavo Maria (2002), Movimento a più voci, Franco Angeli, Milano.
  2. De Vita Antonia (2004), Imprese d’amore e di denaro. Creazione sociale e filosofia della formazione, Guerini, Milano.
  3. Corsi Rita, De Vita Antonia, Giardini Federica (2001), Genealogie del presente, in DWF n. 49 gennaio-marzo.
  4. Campo Cristina (1987), Gli imperdonabili, Adelphi, Milano.
  5. Muraro Luisa (1985), Guglielma e maifreda. Storia di unì’eresia femminista, La Tartaruga, Milano.
  6. Bertell Lucia (2006), La creazione sociale, in Anna Maria Piussi (a cura di), Paesaggi e figure nella creazione sociale, Carocci,(2006).
  7. Gualtieri Mariangela (1995), Fuoco centrale, I Quaderni del Battello Ebbro, Bologna.

 

Abstract: In un andare e venire tra esperienze politiche delle donne degli anni Settanta e l’esperienza di impresa di un gruppo di donne della generazione venuta dopo, l’autrice mostra – intrecciando riflessione teorica e racconto dell’esperienza – attraverso quali caratteri si qualifichi un modo di fare impresa da parte femminile e quali le principali criticità. Attingendo alla decennale pratica associativa e d’impresa con le socie di Studio Guglielma. Ricerca e creazione sociale, una cooperativa di ricerca e progettazione sociale, viene messa a tema la matrice affettiva dell’intraprendere femminile, la potenzialità creativa di questo procedere e la dimensione conflittuale con la quale imparare a trattare.

Vocazione alla creazione sociale è dunque ricerca rigorosa e appassionata delle mediazioni necessarie e inventive per cercare e trovare la politica, in un tempo in cui sembra smarrita, senso e valore delle relazioni umane con donne e uomini, gusto della creazione e dell’innovazione, scrivendo e disegnando tessiture sociali. Testi sociali originali come i percorsi di chi ne è autore e autrice, tra dramma e gioco nei conflitti.

 

 

Profilo: Socia fondatrice con Lucia Bertell, Roberta Del Bene e Lara Corradi di Studio Guglielma. Ricerca e creazione sociale, una società cooperativa che opera a Verona da sei anni occupandosi di ricerca e progettazione sociale. E’ ricercatrice di pedagogia sociale presso l’Università di Verona nella quale si è formata con alcune docenti della Comunità filosofica Diotima, e nel cui ambito ha incontrato le attuali socie d’impresa.