diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 12 - 2014

Ho Letto

Chiara Turozzi, Il femminile esorbitante

L’Iguana, San Bonifacio (Vr) 2012

 
 

È il primo libro della collana di saggi della casa editrice L’Iguana, nata da circa un anno, che si rivolge a un pubblico femminile ma non solo. Ormai ha diversi titoli in catalogo.

Chiara Turozzi è l’ideatrice de L’Iguana, nata per un suo desiderio di portare alla pubblicazione testi di narrativa, di poesia, di ricerca pensante con una particolare attenzione e cura per la scrittura. In questo senso la scelta di iniziare la collana saggi con questo libro scritto da lei ha il sapore di una indicazione di campo per il taglio della casa editrice, una specie di manifesto per indicare quale sia la tendenza nelle scelte operate dall’editrice. In questo senso è doppiamente interessante leggere il libro: per quel che dice e per quel che indica come via aperta di tipo editoriale.

Si tratta di un libro che affronta l’impresa non facile di dare conto del pensiero femminile in periodi di tempo molto lunghi, tempi che attraversano i secoli, partendo dal Medioevo fino ad arrivare alla contemporaneità. Si tratta di un’operazione di scrittura, che risulta sempre arrischiata – ogni volta che viene intrapresa – perché tanti e possibili sono i criteri di scelta nella vastissima produzione femminile di testi significativi. Perché tramandare alcuni, scegliendoli, piuttosto che altri? Perché alcune pensatrici e non altre? I criteri sono sempre necessariamente di parte.

La parzialità, ovviamente relativa, è segno della passione che guida questo genere di lavoro. Infatti, quando si è una donna, leggere la ricchezza storica del pensiero femminile non è semplicemente confrontarsi con una tradizione già resa canonica. È impossibile un atteggiamento di distacco, di semplice interesse conoscitivo e di ragionamento critico come si ha nei confronti del sapere maschile. Raccontare il pensiero femminile essendo una donna tocca intimamente, non solo nei confronti di posizioni che accogliamo ma anche rispetto a quelle che critichiamo.  Affina una capacità visionaria, che ci introduce alle figure di donne del passato, con documenti e riferimenti precisi, e in più le immagina nei loro contesti, le “vede” e ne fa partecipi noi che leggiamo.

Allora in questo senso, prima di affrontare i nodi passionali, che hanno guidato Chiara Turozzi nel leggere le donne del passato, vorrei portare l’attenzione sul suo manifesto d’intenti – le prime pagine del libro – che intitola Chi ha paura di Simone de Bouvoir? Ora, in effetti, questo è un titolo azzeccato perché proprio a de Bouvoir l’autrice, pur trattandola, dedica poco spazio nel corpo del testo. Questo le permette di argomentare le sue scelte volutamente e necessariamente di parte.

Il punto centrale della sua dichiarazione di intenti è ciò che l’ha portata a strutturare secondo un certo stile il libro. Prendendolo in mano si vede come ci siano – per gruppi di pensatrici – ogni volta un breve testo introduttivo e poi alcune pagine tratte dalle loro opere. Questa scelta, che potrebbe alludere a una antologia, in realtà ha un’altra intenzione. Nasce dal desiderio di far apprezzare la qualità della scrittura, che si può cogliere solo leggendola. E inoltre presuppone che il pensiero singolare di un’autrice sia incarnato esattamente in quel tipo di scrittura scelto, che non può in alcun modo essere parafrasato.

Proprio questo infatti è il taglio di Femminile esorbitante, che spiega anche il titolo. È la scrittura il luogo nel quale si esprime un femminile che eccede la normatività dei codici dati. In questo senso la scrittura è una pratica creativa, che sfugge a ogni catalogazione rigida, e che è orientata dal desiderio di trovare una corrispondenza intima e di verità tra le parole e le cose.

D’altra parte la scrittura si confronta con una lingua fatta di fenditure, di buchi, nella consapevolezza che quel che orienta lo scrivere, quel che più sentiamo vitale è proprio ciò di fronte a cui la scrittura fallisce. Con un mio esempio: se siamo orientate all’essere, sperimentiamo comunque che parlare dell’essere è un esercizio votato al fallimento perché non lo possiamo cogliere con il linguaggio, e tuttavia l’esperimento ci impegna sempre di nuovo. E infatti questo, nelle grandi pensatrici, invece di risultare un ostacolo insormontabile, è diventato una scommessa. La sfida di fare di una mancanza il lievito per una ricerca di scrittura, per delle invenzioni.

Il desiderio di Chiara Turozzi è che chi legge questo libro si senta autorizzata a sua volta a scrivere. In effetti – lei nota – la scrittura femminile è diffusa e scandisce le giornate intersecando il lavoro, la quotidianità. Spazio di libertà di pensiero guadagnata con passione e fatica.

L’autrice giustamente non fa differenza tra letteratura, filosofia, teologia, studi scientifici in stile narrativo, pamphlet politici. In questo eredita e fa suo uno dei guadagni del femminismo che ha sottolineato la centralità della scrittura come forma del pensiero femminile fuori dai generi canonici. Esorbitante, appunto.

Allora è interessante andare a vedere che stile di scrittura abbia scelto proprio lei, Chiara Turozzi. Bene, si tratta di uno scrivere che vuole mantenersi presso l’oralità, in uno stile narrativo scherzoso, forse perché consapevole che i temi, le questioni, che affronta, sono coinvolgenti, forti e che la forma narrativa le permette una leggerezza che altrimenti sarebbe impossibile tenere.

Avevo annunciato che ci sono dei nodi passionali attorno ai quali l’autrice lavora. Uno dei più importanti è quello del corpo. Questo in un certo senso giustifica l’iniziare il percorso di attraversamento del pensiero femminile da Trotula de Ruggero. Si tratta di una medica della Scuola di Salerno che scrive attorno al 1050. Turozzi mostra come Trotula, proprio perché si affida a un sapere sperimentale, si occupi del corpo femminile a partire dall’esperienza del proprio corpo, trovando così la possibilità di coniugare il sapere medico del tempo a ciò che la tocca personalmente e che riconosce delle sue simili.

Per Turozzi il corpo è radice e porta del pensiero delle donne, elemento mai trascendibile, limite e luogo di sperimentazione. Del resto lo stesso pensiero della differenza sessuale trova a partire dalla corporeità il proprio orientamento che lo sottrae dall’essere una formula filosofica. Perché il patire il corpo nella sua differenza ne è il primo passo, ed è questo che ne fa fulcro per il pensiero. Questa è una chiave con la quale l’autrice legge molte pensatrici, dalle mistiche come Teresa D’Avila alle filosofe come Simone Weil.

Sappiamo che gli affetti hanno corrispondenze profonde con il corpo. Questo le permette di commentare quella vasta produzione di pensiero femminile, che ha discusso, scritto, scommesso su una ragione essenzialmente legata al sentimento e in senso più generale agli affetti. Essa spazia dalla cultura dei salotti del Seicento, creata in particolare dalle Preziose, fino alla letteratura anglosassone, espressa da grandi scrittrici del Settecento, dell’Ottocento e del Novecento. Del resto proprio il corpo è al centro di quella rivoluzione che è stata il movimento femminista della seconda metà del Novecento.

È ancora una volta a partire dal corpo che si gioca la partita contemporanea che potremmo chiamare dello scuotimento del genere, come lo definisce Judith Butler, intendendo l’opzione politica di allargare il più possibile il significato di essere donna, in modo che sia aperto e sovversivo, a costo di rompere tutti i cliché del genere sessuato.

Un altro nodo di passione: Chiara Turozzi ha una vera inclinazione per il tema dell’indefinito, del mostruoso. Aspetto per il quale il corpo non mantiene i propri confini. Perde il limite che lo fa uno e individuabile, senza per questo passare al due o ad un’altra sessuazione oppure al neutro. Attorno a questo tema convoca diverse pensatrici: da Mary Shelley di Frankenstein a Virginia Woolf di Orlando, a Rosi Braidotti di Madri, mostri, macchine fino alla fantascienza di Ursula Le Guin, alle posizioni sul godimento infinito di Schulamith Firestone, alla donna senza volume, senza confini, “non una né due”, di Luce Irigaray, all’abietto di Julia Kristeva fino al cyberfemminismo e a certa letteratura contemporanea di fantascienza e queer.

Mi chiedo se perfino la scrittura mistica non sia convocabile sotto questo registro, quando si pone attenzione al godimento corporeo eccedente i codici, eccedente anche il corpo proprio, i suoi confini nell’apertura all’Altro.

I grandi conflitti del femminismo contemporaneo riecheggiano in tutto il testo. In particolare nello scontro a distanza che Chiara Turozzi orchestra tra Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft, prendendo posizione a favore decisamente della prima. Questo conflitto prefigura nel campo della politica e dei diritti la scommessa di una soggettività femminile da inventare e produrre contro la ricerca dell’eguaglianza pura e semplice con gli uomini, tesa a cancellare una differenza patita nel tempo dalle donne.

Molti altri grandi nodi del pensiero femminile sono presenti in filigrana nel testo. L’autrice ha sì il desiderio di affrontarli con mano leggera, ma allo stesso possiede una notevole precisione concettuale, che fa di questo libro una introduzione diretta e indiretta a grandi questioni che soprattutto il Novecento ha messo in chiaro. Proprio a questo periodo viene dedicata l’attenzione maggiore. Questo segnala implicitamente quanto nel costruire l’attraversamento di tempi storici così diversi l’autrice abbia approfittato con intelligenza del dibattito degli ultimi decenni in campo femminista.