C’è un legame vivente tra esperienza della natura e scrittura. Una recensione dell’ultimo libro di Chiara Zamboni
Il libro Sentire e scrivere la natura[1] di Chiara Zamboni valorizza un certo modo di stare in rapporto alla natura e al linguaggio, offrendo degli elementi d’appoggio teorico all’ecologia. In particolare fa del sentire, in cui gioca anche il lato inconscio e relazionale della percezione, una posizione essenziale per portare ad espressione, senza tradirlo, il legame costitutivo che abbiamo da sempre con la Terra e i suoi elementi. È proprio dal sentire che può prendere vita uno scrivere in linea col lasciarsi attraversare dall’accadere, sempre relazionale; una ricerca accurata delle parole non definitive o interpretanti, ma coinvolgenti in un processo di trasformazione esistenziale, che sono anche una forma di attenzione e cura per la Terra, le cose, il vivente.
Prima di parlare del libro, come premessa vorrei riprendere la centralità di questa riflessione sulle modalità del dire, mostrando il suo aggancio con l’attualità e la sua urgenza per me. Mi riferisco prima di tutto al linguaggio della pandemia, ovvero a quel modo di usare la parola che quotidianamente in quest’ultimo periodo ci ha accompagnato. Si tratta di un linguaggio, quello adottato dalla politica e dall’informazione, in cui mai mi sono riconosciuta e che ho avvertito come inadeguato perché povero di complessità, quantitativo, semplificante. Lo stile espressivo della pandemia non ha lasciato spazio alle esperienze vissute, alle relazioni che in essa erano in trasformazione, ma si è espresso in termini oggettivi, arroganti, con la pretesa di avere sempre nuove verità ultime da dichiarare. Non ha previsto un respiro per le perplessità e il sentire di ciascuno. Ho avvertito questo linguaggio, incredibilmente contagioso, come una morsa stringente per lo sforzo di tenere tutto sotto controllo volendo sopprimere l’imprevisto o inglobandolo repentinamente in una nuova versione della verità.
Trovo allora pertinente riprendere Laura Conti, autrice citata da Chiara Zamboni nel suo libro. Conti ha lavorato per il nostro Parlamento ammettendo il rischio di fallire delle soluzioni ecologiche e politiche proposte, perché consapevole di essere parte del sistema che studiava. Il richiamo a Laura Conti è utile per dire quanto manchi la premessa, nei tempi attuali, che ci sfugge uno sguardo intero, il controllo completo sulle cose. Avere presente questo è un importante punto di partenza per adottare una comunicazione meno pericolosa.
In secondo luogo, vorrei portare l’attenzione su un certo tipo di linguaggio utilizzato per parlare della natura che ritroviamo sempre di più nei documentari o in alcune notizie di cronaca. Annunciare la recente eruzione del vulcano Tonga paragonandola a cinquecento bombe atomiche di Hiroshima, raccontare il paesaggio vesuviano o flegreo come un potenziale serbatoio di catastrofi, mostrare le azioni di un insetto accompagnandole da parole che, volendo catturare, lo descrivono come un killer spietato sono modi di esprimersi che mi trovano insofferente. Si tratta di parole interpretanti, deformanti, fuorvianti. Parole dal taglio ben preciso, accompagnate da musiche volte a suscitare un banalizzato senso di pericolo.
Questo linguaggio non solo non mostra ma limita la natura nella sua espressività dandole una direzione; allo stesso tempo, impone ai fruitori una certa esagerata e tendenziosa codificazione degli eventi, impedendo che essi si confrontino davvero con quel contenuto. Aggiungo che questo stile narrativo apocalittico è molto diverso da quello che userebbero coloro che sono realmente in contatto con il fenomeno naturale di cui si vuole raccontare. Per esempio ho scoperto recentemente come molti abitanti del territorio etneo curino quotidianamente il rapporto con il vulcano seguendolo nelle sue manifestazioni e siano impegnati nell’esprimere questo legame con la fotografia artistica o con la pittura dei parossismi. Siamo quindi lontani dal tipo di linguaggio utilizzato da certi discorsi sul mondo naturale.
Ecco allora che la modalità del raccontare e le parole utilizzate, diventano una questione urgente perché si legano al sentire, al modo di vivere il nostro essere parte della natura. Non è di un linguaggio violento che abbiamo bisogno ma semmai, come suggerito da questo libro, di un’ecologia che coinvolga anche la lingua. Si tratta di stare contemporaneamente in rapporto al linguaggio, alla natura e alla verità.
Al centro del lavoro di Chiara Zamboni si pongono alcune domande che le stanno a cuore, per la cui soluzione vuole indicare una strada: quale forma di ragione consente di vivere l’esperienza della natura preservandola da un irrigidimento che può portare a, come sappiamo, pericolose cristallizzazioni o falsificanti semplificazioni, lasciando invece emergere il carico di senso della contingenza, il suo potere trasformativo aperto? Come parlare della natura senza oggettivarla?
Viene tracciato un percorso che si arricchisce di suggerimenti di autrici (Bachmann, Ortese, Conti, Zambrano) e un autore (Merleau-Ponty), che hanno proposto modalità originali di scrittura che esprimono il contatto con la natura e che Chiara Zamboni riprende mostrandone le figurazioni più efficaci a guidarci nell’esperienza con “l’anima e i sensi”, senza pretesa che esse siano universalmente adottate, ma solo punti di partenza stimolanti per altre e altri.
In questo senso si tratta di un libro coinvolgente, ovvero che continua a parlare anche dopo la lettura e soprattutto ad offrirci suggestioni, le quali entrano nella nostra percezione, alcune in modo più intenso di altre, imponendosi alla sperimentazione. Per esempio, nel momento in cui mi dispongo a scrivere questa recensione, sento che sto raccogliendo e testando una figura portata dall’autrice e ripresa da Zambrano, attinta dalla cultura persiana mazdea. Ovvero mi sento invitata ad assecondare l’immagine o idea di questo libro partecipandovi, portandone avanti il senso e cercando di «renderlo ancora più bello».[2]
Procederò facendo emergere dal testo alcuni temi nei quali mi sembra si concentrino i significati fondamentali o che hanno avuto risonanza nella mia lettura.
La figura dello schiudersi
«Schiudersi» è un termine utilizzato spesso nel testo, che ho percepito come caro all’autrice. Ci porta subito in contatto con la botanica (lo schiudersi di una corolla o di un germoglio) e la zoologia (la nascita di un uccellino dallo schiudersi dell’uovo). Nel libro rimanda alla natura valorizzata come natura naturans, ovvero nel suo carattere germinativo e creatore, per cui ogni sua manifestazione viene interpretata, sulla scia di Merleau-Ponty, come un’apertura dell’essere, come lo schiudersi di una modalità di darsi. In questo senso tale parola allude al movimento creativo infinito e sempre nuovo di forme diverse, non fisse ma in metamorfosi; al costante apparire di un nuovo che sorprende per la sua originalità differenziandosi dal flusso dell’essere. È una qualità della natura molto affascinante, in grado di influenzare la nostra percezione delle cose se ci si pone nell’ottica di riconoscerla.
Sono però vari gli usi che Chiara Zamboni fa di questa parola: lo schiudersi, ad esempio, è anche quello che avviene nell’esperienza letta come un aprirsi di potenzialità trasformative. Infatti il sentire porta con sé una germinazione di senso da raccogliere e far procedere. Vi è anche uno schiudersi di espressività nelle cose, il loro mostrarsi in un modo peculiare seppur non compiuto, come un balbettio che siamo invitati a sviluppare con la parola, secondo quanto Zamboni riprende da Maria Zambrano.
Anche l’idea merleau-pontiana del corpo come apertura al mondo è legata allo schiudersi: si tratta di un aprirsi senza essere totalmente aperti, per cui c’è coinvolgimento ma anche differenza dei partecipanti al sentire nel campo di un’esperienza, e divenire (deiscenza).
Questo termine si lega poi all’immagine dell’Aurora ripresa ancora da Zambrano, quel sorgere del nuovo giorno che attira tutte le creature a rivolgersi verso est ed indica la nascita avvolta da una luce chiaroscurale, una presenza non totalmente svelata, portatrice di un aspetto enigmatico che ci attrae e che si rivela insieme nella parola e nella percezione.
Quindi vi è lo schiudersi del nuovo nato contemporaneamente alla lingua e al mondo, un’apertura duplice che avviene nella relazione materna e si rinnova per tutta la vita.
Lo schiudersi è una bella figura che mi piace riprendere per dire lo slancio intrinseco a tutte le forme della natura, in divenire infinito, come uno sbocciare delle manifestazioni dell’essere.
Nello schiudersi c’è il potenziale trasformativo degli elementi del mondo; c’è la nascita accompagnata dalla meraviglia che ogni cosa e creatura porta con sé nel differenziarsi da un’unica stoffa. E poi l’intreccio relazionale per il nostro essere un corpo aperto. C’è la fede percettiva, quella fiducia nel mondo che sostiene ogni nostra esperienza e che comincia con la fiducia nella madre. Lo svelarsi della natura ma mai completamente, per cui essa porta con sé un lato d’ombra, un segreto non svelato, un enigma da custodire.
L’attenzione per la singolarità, unicità, differenza
Quello proposto da Chiara è un pensiero della natura attento all’unicità delle creature, delle cose, degli incontri. È molto bello l’esempio del vento in relazione alla fisicità dell’autrice, per cui c’è un avvicinarsi tra questi due elementi e un’espressività di entrambi che si coglie nel rapporto. Un vento caldo e umido ha una sua qualità espressiva diversa da quella di un vento freddo e pungente. Entrambi hanno anche impatti diversi su una donna gracile o sulla vela di una barca. Questa attenzione per la singolarità e quindi per la differenza si appoggia, nel testo, sulla qualità del «poeta» proposta da Maria Zambrano. Il poeta è colui che è in grado di cogliere il logos delle singole cose, di ascoltare il loro canto, il loro desiderio d’essere. Ma anche in Anna Maria Ortese Chiara Zamboni ritrova qualcosa di simile, quando parla dell’attenzione per tutte le creature perché portatrici di uno splendore, di una luce propria che deriva dal fatto di essere fatte di materia celeste. Questo sentire che siamo tutti corpi celesti guida Ortese con stupore di fronte all’esistente, inteso non solo nell’insieme ma in ogni sua parte.
La singolarità delle cose non è però da confondere con l’idea che esse coincidano con delle sostanze fisse: non vi è nulla dietro all’ente ma tutto si gioca nel suo apparire mutevole, per cui l’attenzione per il suo essere unico si allarga fino a comprenderne i cambiamenti. Infatti in Ortese troviamo una preoccupazione per il nominare le cose, che passa dalla scelta di parole diverse per dire lo stesso elemento percepito in momenti diversi, seguendone il divenire.
Tutte le cose, le apparenze, sono manifestazioni della natura che hanno una loro unicità, un loro esprimersi che può essere colto a partire dalla nostra posizione. Esse ci chiamano all’ascolto.
Dall’io alla scrittura
Il soggetto è inteso come in trasformazione, seguendo le percezioni del molteplice. Non è un’identità l’io, ma un appiglio linguistico che tiene unite le esperienze in corso. Ciò che vuole fare questo libro è proporre una riabilitazione del corpo e dell’inconscio nella concezione dell’io, nonché del suo rapporto con la natura.[3] Sono corpo e inconscio, infatti, i protagonisti dell’esperienza, che ha il suo centro nella percezione: nell’avvolgere il soggetto, questa costituisce un pre-avvertire di ciò che verrà compreso dall’intelletto.
Dunque l’io si lascia percorrere dagli eventi analogamente a quanto accade nella mistica per cui «diventa un niente […] attraversato dalle forze del mondo e della storia»[4]. Coincide con un corpo vivente che è costitutivamente in comunicazione con la natura. Allo stesso tempo abita creativamente il linguaggio.
L’inconscio è connesso al corpo, perché è proprio lì, nella percezione coi cinque sensi, che si mescolano elementi onirici, passato e futuro, storia e natura. Chiara Zamboni esprime bene questo aspetto riprendendo Bachmann e Merleau-Ponty. Nel primo caso, il riferimento è al libro della poetessa Luogo eventuale[5], in cui l’atmosfera tesa della Berlino divisa non è spiegata ma resa percettibile sensibilmente. Viene così restituita non l’interpretazione di un io che fa riferimento alla propria analisi degli eventi, ma una sorta di presentimento della ferita che si attiva attraverso i sensi. Esso viene testimoniato mediante l’accostamento di accadimenti, percezioni che si intensificano rispetto alla normalità dell’andamento delle cose. Pertanto l’effetto dei fatti storici avviene già nel sentire del corpo, prima che nella comprensione intellettuale.
Nel secondo caso, rispetto a Merleau-Ponty, cito come esempio le pagine dedicate da Chiara Zamboni all’esperienza del colore rosso. Di fronte ad un rosso la percezione si carica di elementi onirici: entrano in gioco le bandiere della rivoluzione russa, la tappezzeria di un antico caffè, qualcosa di mitico e arcaico, la differenza rispetto agli altri colori e alle altre tonalità di rosso.[6]
Se da un lato vi è immanenza al processo di dispiegamento delle cose, dall’altro vi è anche una posizione specifica occupata dall’io nel mondo, come portatore della propria differenza prospettica in relazione a ciò che lo circonda. Che non è però relativismo. L’essere umano affiora dalla relazione con la madre, diviene insieme ad altri (umani, animali, vegetali, cose, fenomeni) in modo sessuato, è parte di un sistema, partecipa al movimento dell’essere da una precisa angolazione, esprime linguisticamente il proprio legame con il cosmo. Si tratta di un io strutturalmente relazionale e inconscio, sostiene l’autrice, a cui fa riferimento implicitamente l’ecologia perché al di fuori del dispositivo soggetto-oggetto.
Questi punti offrono un ponte per parlare delle modalità di scrittura valorizzate da Chiara Zamboni. È proprio il lasciarsi attraversare passivamente dagli eventi e dall’incontro con gli elementi della natura che chiama il soggetto a scriverne con una speciale ricerca delle parole quando si lascia immergere con tutto se stesso in tali legami e il suo sentire accresce, sopravanzando il già detto da altri o dalla cultura di cui è parte. Ecco la parola vivente. Una scrittura in sintonia con l’esperienza della natura può accompagnare le metamorfosi, dipanare quella rivelazione di senso (sempre non compiuto) che offre il contatto con le cose, rispondere al suo richiamo di parteciparvi. Portarlo ad espressione preservando l’insondabile, l’ordine misterioso interno al mondo naturale.
Gli stili poetico e metonimico, procedendo per accostamenti, ci aiutano in questo senso, perché assecondano l’andamento dell’apparire delle cose. Vengono considerati una forma «ecologica» di linguaggio perché tessono legami tra elementi evocandoli, evitando di incatenarli; accompagnano la germinazione di senso insita nell’esperienza senza esaurirla, mantenendo un’apertura ma anche una latenza, preservando cioè il segreto della natura dalla trasparenza. Travolgono il lettore nel processo del farsi delle connessioni, consentendogli di sperimentarle esistenzialmente e di intraprendere nuove vie nel modo di vedere e di vivere.
Le autrici e l’autore scelti da Chiara Zamboni hanno in comune proprio questo coinvolgere chi scrive e chi legge nella scoperta del mondo, attraverso un percorso di metamorfosi radicale che li avvolge anche sensorialmente. Questo si traduce nello stile espressivo per Ortese, la tensione verso la ricerca dei nomi attirata dallo splendore delle cose del mondo, e nel linguaggio poetico per Zambrano, che accoglie il balbettio, il desiderio di venire ad espressione della natura, sviluppandolo con attenzione alle singolarità. Ancora, per Merleau-Ponty, nella parola creativa che procede a tentoni facendo spazio alla relazione costitutiva con le cose. In quest’ultima è abbozzato un senso che si scopre solo mano mano che la scrittura si fa, perché il linguaggio non è un mero strumento a disposizione ma qualcosa di vivo, irriducibile alla nostra intenzione. Infine, in Bachmann, la scrittura procede per accostamenti che testimoniano le evidenze, rendendole percepibili.
Sono tutti stili che si rapportano all’esperienza della natura lasciandosi attraversare da essa, perciò portano ad espressione una ragione che non è dominio razionale della coscienza ma un sentire legato all’inconscio. Come a dire che possiamo accostare con maggior precisione e verità l’espressività della natura e restituirla, prendendo parte al suo processo, se ci rivolgiamo al sentire, perché siamo strutturalmente connessi ad essa attraverso il corpo e l’inconscio. Rischiamo di pronunciare qualcosa di irreale, invece, quando adottiamo un linguaggio che fa leva sull’interpretazione, la comprensione totale, la spiegazione definitiva. Sento molto vicino, in questo, il pensiero di Gregory Bateson, quando sostiene che il gioco, il sogno, la religione e la poesia si basano su tipi di comunicazione in grado di rivelare l’unità dell’essere umano con tutte le creature. Questa rivelazione è strettamente connessa con la bellezza e lui la chiama «sacro». Non si tratta di immediatezza, cioè di connettere il proprio vissuto a definizioni già disponibili, ma di porsi in ascolto del sentire cercando creativamente associazioni di termini nuove e rigorose, fedeli a ciò che si sperimenta di momento in momento.
Un ulteriore aspetto dello scrivere avanzato da Chiara Zamboni è la presa di distanza dal ricorrere ad oggettivazioni: se interagiamo, sentiamo, pensiamo a partire da un’angolatura, con un taglio, questo significa che non possiamo avere uno sguardo esterno, complessivo, ma solo esprimerci a partire dalla posizione che occupiamo. Di questo, come ho già anticipato, è consapevole Laura Conti, la quale, sottolinea Zamboni, come donna di scienza impegnata politicamente nella proposta di azioni ecologiche, dichiara di voler agire in una certa direzione con l’onestà che non vi sarà controllo pieno ma possibilità di sbagliare, perché anche lei è parte del sistema che vuole studiare e per il quale vuole agire. Questo partecipare da dentro è come un presupposto di ogni conoscenza e azione: il riconoscimento, se vogliamo, di un limite che però è anche una verità che abbiamo a disposizione e che ci consente di prendere parte alla danza della natura anziché disporci verso di essa in modo coercitivo.
L’amore
Vale la pena soffermarsi su questo punto, che Zamboni individua come chiave per comprendere che cosa muove filosofe, letterate e anche scienziate nell’accostarsi ad un pensiero della natura.
Tutt’altro che tema banale, ho trovato in questo libro un significativo discorso sull’amore soprattutto nelle pagine dedicate ad Anna Maria Ortese, con le quali sento un’affinità.
È la condizione preconoscitiva, caratterizzata dal presentimento doloroso per la realtà tutta e meraviglia e stupore per la sua esistenza. Allo stesso tempo è il porsi in sintonia con ‘equilibri maestosi e nascosti’, cioè con un ordine non immediatamente evidente che orienta il mondo. […] Nel partecipare dolorosamente allo splendore del mondo, sentiamo in esso una legge, una ragione […] che è l’ordito del mondo e il suo mistero.[7]
In Ortese l’amore per la natura comprende un elemento di curiosa ammirazione per la trama segreta che rinnova il suo funzionamento e connette tutti i suoi elementi, la capacità di accogliere anche gli aspetti distruttivi e inquietanti, insieme alla sofferenza per la vulnerabilità delle creature, dei sistemi, della Terra tutta. Un vivere e patire assieme, che suscita una spinta alla protezione. La sorgente di questo amore è il sentire che siamo tutti fatti di materia celeste: un sentimento di comunanza, unità, condivisione (che Chiara Zamboni chiama «Agapé non teologica») da un lato; dall’altro lo scorgere sempre di nuovo il fascino di qualcosa di prezioso, luminoso, avvolto da un’aura profonda e insondabile.
L’ordine cosmico, segreto ma intuibile, insieme con l’accogliere la molteplicità delle cose nel loro darsi, sono anche il fulcro dell’amore a cui fa riferimento Maria Zambrano. Zamboni riporta poi sia dell’amore come coinvolgimento soggettivo che guida le ricerche di Barbara McClintock, raccontate da Evelyn Fox Keller in Sul genere e la scienza[8], che dell’amore come perno degli studi e della politica di Laura Conti.
Vorrei, insieme all’autrice, rilanciare il «riconoscersi come creature della terra e con la terra, nel suo movimento celeste»[9], con la sensibilità al dolore, alla bellezza, alla molteplicità che porta con sé esplicitandola per dire uno stile femminile di essere in rapporto al mondo che cambia la prospettiva. Una forza simbolica precedente alla costruzione di un’etica, che vorremmo avvertire più spesso come fiamma delle politiche, delle pratiche e delle scienze rivolte alla natura. È il legame affettivo che può trasformare la conoscenza in un «sapere con tutta l’anima»[10], sottolinea questo libro, quando avvertiamo che ciò che accade nell’interazione con la natura ci riguarda, ci trasforma e il sapere entra nel nostro vissuto aprendoci a nuove vie. Credo che gli aspetti qui evidenziati a partire da Sentire e scrivere la natura siano da valorizzare come considerazioni filosofiche dalle ripercussioni esistenziali e politiche. Questi punti, dalla connotazione per lo più femminile, ci aiutano ad orientarci nel vivere, concepirci e scrivere in sintonia con il mondo naturale di cui siamo parte.
Chiara Zamboni invita a porci in ascolto dei momenti in cui più ci sentiamo partecipi al movimento della natura perché sono portatori di una verità profonda. Cogliendo questa intensificazione del sentire, disseppellendola dal sonno della routine, accompagnandola con una parola amorevole, ci scopriamo parte di un mondo comune e possiamo affidarci a questo sentimento per proteggerlo dall’oggettivazione e da tutto ciò che ne deriverebbe.
[1] C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, Mimesis, Milano 2020.
[2]Il riferimento è al capitolo “Non «Cosa è la Terra?» ma «Chi è la Terra?». La cultura persiana nella concezione della natura di Zambrano” inC. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, cit. pp.114-118. Qui viene presentata la figura persiana dell’Angelo della Terra come un’idea della Terra che è da sempre, però non fissa ma in trasformazione e alla quale noi siamo chiamati a contribuire per «farla ancora più bella».
[3] Se Zamboni valorizza la cultura femminile per aver sempre tenuto conto delle radici corporee, prende però le distanze da una parte del pensiero femminista, esemplificato dal concetto di postumano di Braidotti, che pone un primato di zoe (la vita biologica o potenza materiale della natura) su bios (cioè linguaggio, cultura, autoriflessione). Zamboni sottolinea che il legame carnale con il mondo è accompagnato fin da subito dalla parola e dall’immaginazione della madre, perciò esiste un circolo vivente tra natura e linguaggio che non è una precedenza dell’uno sull’altro. In luogo dell’egualitarismo tra specie zoocentrato proposto da Braidotti, l’autrice preferisce avvicinare essere umano e animale riprendendo da Merleau-Ponty l’idea che tutte le specie, animali e umana, siano creatrici di mondi simbolici.
[4] C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, cit. p. 24.
[5] I. Bachmann, Luogo eventuale, SE, Milano 1992.
[6] C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, cit. pp. 156-158
[7] Ivi, pp. 48-49.
[8] E. Fox Keller, Sul genere e la scienza, Garzanti, Milano 1995.
[9] C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, cit. p. 49.
[10] Ivi, p. 28.