diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 3 - 2004

Tradizione filosofica

Caverne cibernetiche

*Questo saggio è tratto dalla mia tesi di laurea, vincitrice della borsa di studio Maria Grazia Zerman.

 

A prima vista, Platone e Donna Haraway non sembrano avere molto in comune, se non il fatto, sostenuto dalle cyberfemministe e dalle cosiddette femministe post-moderne in genere, che Haraway presenta la sua figura del cyborg come una liquidazione dell’economia binaria e della metafisica platonica. Vorrei smentire questa tesi, mostrando come la posizione di Haraway sia ancora tutta interna alla trama platonica della quale, anzi, finisce per rafforzare la strategia matricida.

L’oggetto del mio lavoro si articola a partire dalla strutturazione dei ruoli sessuali nell’opera di Platone, per trarne lo schema in relazione al quale rileggere due classici della letteratura fantascientifica e delineare, così, il concetto di cyborg. Lo scopo è di ricondurre il pensiero cyberfemminista, il cui impegno è di sbaragliare l’assetto simbolico originariamente pianificato dal filosofo ateniese, entro i limiti del medesimo impianto: il cyborg, anziché figura di un soggetto femminile non cristallizzato in qualche essenza normata, altro non sarebbe se non la versione futuribile dell’uomo della caverna, con cui il fallologocentrismo rimette in atto il distoglimento prospettico dal luogo dell’origine. Dunque, l’intenzione delle cyberfemministe di sbarazzarsi del potere speciale di dare la vita, considerato però, a partire dal Platone, alla stregua del noioso ruolo di matrice accogliente, coinciderebbe nientemeno che con l’assunzione del paradigma maschile.

 

Manifesta e irriducibile, la duplice sessuazione umana è immediatamente sotto lo sguardo di tutti e irrimediabilmente vincolata al crudo fatto della procreazione.

I dati elementari, constatati originariamente perché incisi nel corpo di ciascun individuo, sono assunti a unità concettuali da ricombinare convenzionalmente, al fine di produrre norme e di articolare consuetudini. Così, le designazioni della sessualità non sono sanzioni universali, bensì ancoraggi simbolici che traducono precise relazioni tra i sessi all’interno di ogni singolo sistema sociale, innervandone l’immaginario e coordinandone le espressioni concrete

Nel sistema sociale dell’Occidente, tali combinazioni rivelano un’asimmetria tra i sessi, sintomo della «volontà di controllare la riproduzione da parte di chi non dispone di quel potere»[1]: affascinata da questa intuizione, vorrei rintracciare alcuni momenti decisivi della pianificazione di quei settori dell’organizzazione simbolica che concernono la questione dei ruoli sessuali.

La produzione mitologica, attuale prerogativa della science-fiction, si presta particolarmente a tale scopo: il mito, infatti, si nutre proprio della tensione tra le limitazioni della vita concreta e la riconfigurazione fantastica di quelle costrizioni, proponendo un compromesso tra i dati reali e la loro elaborazione intellettuale.

Uno dei paradigmi concreti dell’assetto rappresentativo occidentale è la potenza del corpo materno di partorire altri corpi e di trasmettere ad alcuni di essi il segreto della medesima potenza. La soluzione mitica all’esclusività di tale appannaggio femminile è la facoltà esclusivamente maschile di generare non creature, ma pensiero.

A condurmi in questa indagine, inevitabilmente, è la categoria della nascita, perché esprime il fenomeno visibile e tangibile della procreazione, che in modo assai evidente esibisce le peculiarità di ambedue le nature sessuali.

 

 

Lo scaltro imitatore

 

Rispetto all’epos di tradizione omerica, Platone impone un nuovo sapere, configurato secondo rappresentazioni universali in forme nitide, connessioni astratte di elementi concreti, proprietà indispensabili per classificare ciò che nel linguaggio immaginoso della poesia era confuso. Si tratta del logos, la nuova regola verbale e simbolica che struttura le molteplici formulazioni del discorso, da quella narrativa del racconto a quella imperativa dell’ordine a quella teoretica, e più specificamente filosofica, del pensiero.

La psyche, un tempo soffio vitale che faceva vibrare le corde vocali nel canto, ora è spirito disincarnato che contempla le idee indipendentemente dal corpo, del quale non ha più bisogno per imparare perché, nella civiltà della scrittura, le parole è sufficiente vederle, e non incorporarle con l’educazione ritmica al verso epico. L’unità lessicale ops non designa più la consuetudine vocale bensì la percezione visiva, ma questa facoltà conoscitiva va orientata nel verso giusto: tale è lo scopo della paideia (educazione).

Allora, il settimo libro della Repubblica, che propone nella forma del mito della caverna la teoria della conoscenza elaborata da Platone, si rivela momento cruciale della filosofia occidentale.

Proprio qui, infatti, si incappa nella formula che recita «ek tou gignomenon periakteon eina2 ovvero «si devono voltare le spalle al dominio della generazione». Secondo Luce Irigaray, nel suo Speculum. L’altra donna, si tratta del distoglimento prospettico dal luogo dell’origine, metaforizzando la caverna quella cavità del corpo femminile che conduce all’utero: la periagoge (l’azione del voltarsi, ovvero “rotazione”, “movimento circolare” e anche “rivoluzione”) malcela una sorta di invidia per la potenza materna di generare, risentimento che motiverebbe la sopraffazione della genalogia femminile, nel nostro sistema simbolico, ad opera dell’ordine patriarcale.

Proprio dall’imperativo platonico prende avvio la costruzione progressiva della mia chiave di lettura: uno strumento ermeneutico che definisco con il termine greco genesis (“origine”, “generazione”), concetto che dal punto di vista pragmatico indica semplicemente nascere da un corpo in grado di generare ad un corpo che ne sarà o meno abilitato, ma semanticamente è contraffatto in ”genere”, “razza” e “specie”.

La questione simbolica è, perciò, assai intrigante.

 

A lungo il pensiero di Platone è stato identificato sostanzialmente con la teoria cosmogonica  proposta nel dialogo Timeo. Osservando il termine cosmo-gonia in greco, esso risulta composto di kosmos, “mondo” e “ordine bello”, e –gonia, la cui radice gon, come gen nel sostantivo genesis, significa “nascere”, “essere” e “divenire”: origine dell’ordine bello, insomma.

Il discorso dell’astronomo protagonista comincia con il suggerire agli spettatori i fondamenti di questa dottrina della scaturigine cosmica: «estin oun de […] proton diaireteon tade»3. La traduzione italiana, purtroppo, alleggerisce il tono di quello che in greco suona come un vero e proprio imperativo metodologico, che altro non è se non l’ingresso sulla scena occidentale della logica binaria, valido modulo interpretativo costituito da una struttura duale antitetica e asimmetrica che oppone a due a due elementi concreti e valori astratti, al quale istintivamente si fa riferimento di consueto (chiaro/scuro, caldo/freddo, inferiore/superiore… e, perché no, organismo/macchina), e che conseguirebbe dall’originaria percezione di una costante inscritta nei corpi: la differenza sessuale (maschio/femmina) e la differente funzione dei sessi nella riproduzione. Anch’io parlo questo linguaggio: la logica binaria è per me un supporto imprescindibile, ma sono stata spesso pungolata dal desiderio di scarnificare, per così dire, questo punto di partenza per descriverlo in modo più radicale.

Collocato subito dopo l’avverbio proton, “in principio”, ad attrarre l’attenzione è diaireteon, aggettivo verbale che, completato dall’estin dell’esordio, esprime necessità – è la stessa costruzione dell’imperativo pronunciato nella caverna. «Si deve […] innanzitutto fare diairesis», dunque. La radice di dia è dis, che introduce la nozione di penetrazione a traverso e divisione in due, mentre aireo annovera tra i suoi significati “ridurre in proprio potere” e “scegliere”, ma anche “cominciare”: efficace sintagma, diairesis determina l’origine di un impianto dicotomico le cui file opposte ingrosseranno a mano a mano che procederò nell’analisi.

Ebbene, secondo Timeo bisogna fare diairesis tra ciò che è sempre e che, non subendo mai modificazioni, si comprende con il logos e quanto invece nasce (in greco gignomenon) e muore, e perciò si cattura con un’impressione per nulla razionale o a-logos4: è questa, allora, la griglia di partenza in relazione alla quale, d’ora in poi, considerare dominio del logos gli elementi che verranno posizionandosi sul versante di ciò che è eterno e con il logos, per l’appunto, concepito, e riservare il versante della genesis a ciò che, in quanto nato, con il logos non avrà nulla a che fare.

Pur affermandosi come dato inaugurale della filosofia, la genesis viene esclusa dalla sfera del logos, tanto più che  a-logein significa “non tenere in conto” e “disprezzare”.

Nel successivo passaggio, l’elocuzione si fa più sottile con l’introduzione del predicato decisivo di causa, dal momento che manifestamente «tutto ciò che ha un’origine (ancora gignomenon) nasce da una causa»5 anziché servirsi del più consueto sostantivo aitia, che è grammaticalmente – e minacciosamente – femminile, ma di certo astratto e perciò più adeguato al dissertare, Platone impiega l’aggettivo sostantivato aition dal più definito senso “che è causa”, di per sé dotato di doppia declinazione e nel testo ambiguamente al genitivo.

Si può leggere, in questa espressione, una arbitraria neutralizzazione della causa: un episodio grammaticale che inaugura una vicenda culturale. L’introduzione della categoria di causa, infatti, scandisce il passaggio dall’ordine reale, in cui la causa di ciò che ha avuto nascita è una matrice carnea palesemente femminile, all’ordine simbolico, in cui, per mezzo di uno stratagemma mimetico, tale potere sarà trasposto dal tangibile corpo muliebre ad un pensiero invisibile, ma dichiaratamente fallico, il quale designerà come unigenito un identico pensiero fallico, stabilendo in questo modo un’unione indissolubile tra logos e virilità.

A questo punto, Timeo introduce la figura dell’artefice cosmico aggiungendo che «ogni cosa di cui il demiurgo (o demiourgos) realizzi la forma guardando a ciò che si mantiene sempre identico a se stesso e servendosene come modello riesce necessariamente tutta bella»6: questo demiurgo, di sesso inequivocabilmente maschile anche solo per l’articolo che lo precede, definisce nientemeno che quella causa, dapprima neutralizzata con una operazione grammaticale, e ora virilizzata con un intervento simbolico.

Nel causare la genesis, l’autore celeste trae ispirazione da una delle forme ideali: allora, il demiurgo è in grado di attingere con il logos o pensiero a ciò che è sempiterno e immutabile, la cui antitesi con ciò che nasce (gignomenon) e perciò continuamente muta, costituisce il pilastro iniziale su cui poggia saldamente la logica binaria. Quell’artefice, pertanto, partecipa dell’ordine del logos, che viene profilandosi ormai nitidamente come orizzonte maschile.

Non sfugge, adesso, quello che nel testo pare appena un velato riferimento inserito dall’oratore in merito al successivo snodarsi della narrazione, nel punto in cui il demiurgo non solo è chiamato poietes – “costruttore” e, dunque, “colui che dà l’essere a” cioè “genera” – ma addirittura pater7.

Si tratta dell’assunzione ufficiale di quell’attitudine che materialmente, però, pertiene ad un altro principio generante e a sua volta generato: un trucco mimetico trasferisce la virtù autenticamente materna ad un capostipite artificiale dall’aspetto maschile, con il conseguente disconoscimento del vero ordine natale e di una genealogia femminile surclassata, ora, da un sistema di discendenza marcatamente patrilineare. E’ sufficiente pensare alla nostra trasmissione del cognome.

Sul versante maschile del logos si stabilisce, così, anche la categoria di mimesis (“imitazione”), che viene in tal modo a trovarsi in opposizione a quella femminile di genesis.

Il segreto della nascita, realmente custodito dalla donna che ne dispone a propria discrezione, diventa un logos esclusivo ed esclusivamente androcentrico perché, a quanto pare, sono in grado di condividerlo i commensali Timeo, Socrate, Crizia ed Ermocrate, dotati tutti della medesima «physis anthropine»8, che letteralmente è la natura dell’anthropos, colui che possiede i lineamenti (ops) dell’aner (“maschio”), dove è il demiurgo-capostipite, in quanto pater, a fungere da prototipo.

Si dice poi, infatti, che essendo buono e libero da invidia «egli volle che tutto nascesse il più possibile somigliante a lui»9, e dell’artefice divino si è detto, fin qui, che è grammaticalmente un maschio (aner, da cui anthr-opos), è capace di logos e soprattutto è il pater di un ordine bello prodotto a sua somiglianza: dati, questi, che nella griglia binaria vanno situati nel polo del logos.

Stornare lo sguardo dal luogo materno della genesis, dove si nasce o femmina o maschio per la differente sessuazione, istituisce l’ordine cosiddetto fallologocentrico, sintomaticamente omosessuale (omos è “identico” o “simile”) perché c’è un padre-maschio che, per somiglianza (maschio=maschio), genera la sua prole maschile e le trasmette (maschio®maschio) il logos, corredato di un’autonomia generatrice alquanto improbabile, però, nell’ordine reale.

Il cosmo, mastodontico animale, viene fatto muovere in maniera uniforme su se stesso, «en to ayto […] periagogon»10, e dotato di moto circolatorio, perché la periagoge, secondo Platone, è il movimento conveniente al pensiero, lo stesso con cui l’anthropos della caverna voltava le spalle alla propria origine. Ma, soprattutto, è la descrizione dell’azione per mezzo della quale la competenza del corpo materno è cancellata dall’orizzonte visivo di un logos immateriale che in quest’analisi si rivela pervasivamente paterno.

L’artefice si accinge alla complessa realizzazione degli dei: il risultato del procedimento consiste in una coppia capostipite in grado di originare autonomamente una propria discendenza, secondo un modello di riproduzione che, questa volta, è eterosessuale (eteros significa “altro”, “differente”) e non omosessuale com’era, invece, quella operata dal solo padre cosmico. Debutta, in modo discreto, anche la struttura maschio-femmina, per ora accennata dal narratore senza motivare la novità di quell’elemento femminile che determina proprio il carattere etero-sessuale della generazione divina, differenziandola dal modello di partenza maschio-maschio.

Ma è interessante come la sostanza femminile si insinui anche nel sostantivo adelphoi (“fratelli”) che Timeo adopera per descrivere la consanguineità degli dei nati, in un secondo tempo, da Urano e Gea: il termine deriva da delphys, “matrice” e “utero”, ed è femminile anche dal punto di vista grammaticale. Posso solo dedurre, a questo punto, che quell’a– abbia valore privativo e pertanto apporti il significato di negazione: senza matrice sarebbe l’esito semantico di quel movimento su se stesso che il demiurgo ha prescritto anche a ciascuna divinità, e che somiglia tanto all’ormai nota periagoge.

Nell’affidare agli dei il compito di forgiare le nature mortali, dal momento che, a questo punto, due sono le formule riproduttive, l’artefice esprime la propria preferenza: «imitando (mimoumenoi) la potenza che ho mostrato io nella vostra generazione»10, sentenzia. Il pater cosmico assurge, così, ad archetipo universale dell’unica e originaria linea di discendenza perpetua, che pure conosce successivamente uno sviluppo bisessuale, ma non per questo difforme dal piano del logos: generazione divina o mortale, maschile o femminile, omosessuale o eterosessuale, non fa differenza alcuna: il lignaggio è indissolubilmente paterno.

Innestata in un corpo l’anima-seme di origine demiurgica, invisibile legame con il logos trasmesso dall’aner-padre agli anthropoi-figli, essa subisce l’insolita intimità con la materialità situata e sensibile della carne: dall’inconsistenza di un seme alla gestione di un corpo alquanto ingombrante, l’anima non potrà sentirsi altrimenti che turbata da questa prima nascita. Ma, sebbene così disorientata, la psyche umana potrà disciplinare tali passioni perché pur sempre costituita del logos demiurgico.

Tuttavia è prevista anche l’eventualità di un suo insuccesso, nel qual caso essa rinascerà «in una natura di donna»11, complessivamente difettosa e tuttavia nei lineamenti ancora piuttosto simile al prototipo. Classificata nella categoria dell’anthropos, ma solo come essenza antropomorfa e incompleta, quella natura femminile si chiarisce come degenerazione del paradigma maschile, imitazione inesatta della compiutezza dell’aner.

In seguito, gli dei instilleranno negli umani il desiderio dell’unione sessuale: Timeo può così legittimare, in conformità alla giurisdizione del logos, anche la pratica dell’eterosessualità, solo apparentemente difforme dal paradigma omosessuale paterno.

Da questo momento, la discendenza proseguirà con il congiungimento di un principio maschile, erede del potere generativo demiurgico, con un elemento femminile, coinvolto semplicemente nella funzione di partorire altri corpi, perché l’educazione prospettica attuata dal logos virile ha riconnotato il potere concretamente femminile di generare come luogo di incubazione dell’omos, somigliante più al moderno mito dell’utero meccanico che al corpo fecondo di una madre.

Le anime generate dal demiurgo, dunque, sono pronte per essere seminate negli strumenti del tempo distribuiti preventivamente nella volta del cielo, avendo egli assegnato opportunamente un astro a ciascuna: se ne ottiene, infine, la natura umana, in una confusa sovrapposizione di corpi celesti e corpi mortali, dotati entrambi – soltanto quelli di sesso femminile, per la precisione, tra i corpi mortali – di «ritorni regolari»12 per mezzo dei quali misurare il tempo.

Evidentemente, allora, anche il moto dell’anima umana è quello che più concerne il pensiero, descritto qui dal sostantivo femminile periodos, composto dall’avverbio peri proprio come periagoge, che nel mito della caverna suggeriva un identico significato, vale a dire “movimento circolare” o “ciclo”, ma anche, pertinentemente al contesto, “rivoluzione degli astri”.

E’ consuetudine dell’anima percorrere la periodos per il verso determinato dal logos, secondo «il circolo dell’identico»12; qualora essa venga sollecitata da passioni causate dalla totale assenza di dimestichezza con il corpo, rotolerà in modo disordinato e irregolare, senza un percorso preciso: a-logos dunque, cioè in maniera irrazionale perché senza logos. Ruoterà ancora su se stessa, ma nel senso sbagliato, ossia non volterebbe le spalle alla genesis come nella caverna bensì al logos, e intravedere il reale luogo della nascita, all’interno di un sistema che proprio sull’imitazione surrettizia e la cancellazione di quel luogo si è progressivamente organizzato, condurrebbe inevitabilmente alla follia.

Ma il metodo pedagogico esposto nella Repubblica, e sintetizzato dall’immagine mitica dell’anthropos nella caverna, educa proprio alla costrizione di voltare le spalle al dominio della generazione.

Nella cosmogonia androcentrica, il moto dell’identico, ovvero la rotazione sul proprio asse di una natura sia disincarnata sia corporea, è un’azione simbolica perché simbolici sono e l’impostazione e l’intento del racconto mitico: non può che essere proprio questo, allora, il movimento adatto alla struttura omosessuale (omos significa “identico”) dell’ordine bello. Ma è chiaro, ormai, che l’autentico modello della pianificazione concettuale prescritta da Platone è lo speciale corpo materno, caratterizzato da ritorni regolari (periodoi) e capace di partorire altri corpi.

Lo stratagemma mimetico è comunque riuscito: con la periagoge, l’orizzonte fallologocentrico ha distolto inesorabilmente lo sguardo dal deturpamento del corpo femminile che lo ha generato.

 

 

Il cavaliere elettrico

 

Molto tempo dopo Platone e il debutto della filosofia occidentale, la mitologia greca è diventata oggetto fecondo di interpretazioni e rielaborazioni alquanto suggestive.

Non è mai cessata, però, la consuetudine di postulare con audacia un mondo in cui sospendere le costrizioni della vita concreta, e di incoraggiare la fantasia culturalmente configurata, riflettendo su come si potrebbero altrimenti riorganizzare i dati sensibili per elaborare una soluzione alle contraddizioni e ai limiti materiali.

Tuttavia, questa indefessa negoziazione per raggiungere un compromesso tra reale e simbolico non è più compito del mito: è la science-fiction, ora, a tentare di risolvere la tensione tra ciò che è reale e ciò che del reale stesso è l’alterazione simbolica.

 

Nel 1817, la ventenne Mary Godwin Shelley – figlia, detto per inciso, dell’intellettuale femminista Mary Wollstonecraft – compone Frankenstein; or, The Modern Prometheus.

Perlustrando le distese ghiacciate dei mari artici, l’avventuriero Robert Walton salva da morte certa il dottor Victor Frankenstein, che gli snocciola il travaglio che lo allontanò da ogni affetto per realizzare un essere mostruoso, frutto di una smania assidua e sconsiderata: «Avevo fra le mani quello che, sin dalla creazione del mondo, era stato il desiderio di tutti gli uomini più dotti»13. Ma dopo l’infausto esperimento, il giovane scienziato si dileguò rinnegando la creatura artificiale, che non corrispondeva alle sue aspettative estetiche.

Alfine, ecco che l’orrido vivente rintraccia il padre-artefice sull’imbarcazione del giovane esploratore, trovando però soltanto il corpo esanime di colui che gli diede quell’origine tanto stravagante quanto funesta, imprimendo la scintilla della vita alla materia inerte di un cadavere.

Quella di un mostro, in fondo, non può che essere una genesis inconsueta, e questa storia narra, infatti, non di un’ordinaria nascita carnale, ma del prodotto del logos paterno che si attribuisce incautamente una qualità generante che non gli compete, cancellando in tal modo il corpo materno: ecco perché la ricerca della creatura si rivela mortifera. Forse per questo, Mary Shelley conclude il libro con l’immagine sinistramente trionfante della pira funebre che ridurrà in cenere lo sventurato e singolare personaggio e le spoglie dello scienziato imprudente che ha voluto imitare il potere femminile della genesis. Padre e figlio.

In seguito, la letteratura fantascientifica ha conosciuto molte altre creature siffatte, che il linguaggio della science-fiction colloca nella variegata categoria del cyborg, un mito attualissimo e dal ricco potenziale semantico: l’espressione cybernetics fu coniata nel 1947 dallo scienziato americano Norbert Wiener per indicare quel ramo della scienza che si occupa del controllo e della comunicazione nelle macchine e negli esseri umani, con lo scopo di riprodurre le funzioni del cervello. Il termine deriva dal verbo greco kybernan, che significa “governare” o “pilotare”, usato anticamente soprattutto in relazione all’arte di dirigere una nave.

Cyborg, allora, è un’unità sintattica composta di cyb-er e org-anism: il risultato è un organismo cibernetico, corpo di carne e protesi tecnologiche programmate per guidarlo.

Questo genere di creatura viene talora nominato anche androide, vocabolo composto dall’ormai noto aner e dal sostantivo eidos. Un sistema autonomo somigliante al maschio umano, un’altra replica, dunque: la mimesis di un prototipo, proprio come l’anthropos che possiede i lineamenti (ops) dell’aner-padre.

Il paradigma ufficiale, insomma, è ancora quello maschile.

Prodotto dell’ambizione di un artefice – in questo caso il dottor Frankenstein, altrove il demiurgo cosmico – che assume il tratto materno di generare, l’androide è inoltre, ancora una volta come l’anthropos platonico, non il frutto carnale dell’esperienza eterosessuale dell’accoppiamento, bensì l’esito di un’imitazione della capacità realmente femminile di effettuare la  genesis.

Così delineata, la figura del cyborg custodisce la traccia artificiale dell’antitesi archetipica che innerva la logica binaria: genesis (la natura muliebre)/mimesis (la sostanza maschile). Si tratta del prodotto, ora però tecnologicamente sofisticato, dell’antica esclusione prospettica del concreto luogo materno della genesis, e della conseguente istituzione dell’ordine di carattere omosessuale, dove un padre-maschio per somiglianza (maschio=maschio, l’omos) genera la sua prole maschile e le trasmette (maschio®maschio) il logos, dotato di un’autonomia generatrice inverosimile nell’ordine reale.

Il cyborg potrebbe essere, allora, l’attuazione sintetica dell’assetto minuziosamente predisposto da Platone.

Tornando, dunque, nella caverna, vorrei analizzare il paragrafo in cui il prigioniero viene strappato alla sua dimora originaria. Il filosofo, per bocca di Socrate, paragona la nostra natura (physis, che deriva da phyein, “nascere”) alla situazione di alcuni uomini (anthropoi) che fin da fanciulli vivono in una dimora sotterranea incatenati gambe e collo – rispettivamente veicoli del movimento fisico e del movimento del capo, platonica sede dello sguardo e del pensiero – sì «da poter vedere soltanto in avanti, incapaci […] di volgere attorno (periagein) la testa»14.

Questi desmotai (desmos è “vincolo”, “legame”) «somigliano a noi»15: se l’anthropos è colui che ha il sembiante virile, allora i protagonisti di questa favola sono indubitabilmente di sesso maschile. Ancora una volta, l’aner si presenta come prototipo universale della natura umana, la cui originaria condizione è, non lo si dimentichi, quella del legame, desmos.

Alle spalle dei prigionieri brilla il bagliore di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri è stato innalzato un muricciolo lungo il quale altri uomini muovono figure di legno e di pietra in modo che ciascuno dei prigionieri possa vedere di sé, dei compagni e di quella sorta di burattini, nient’altro che le ombre proiettate dalla luce sul fondo della caverna.

Platone immagina a questo punto che avvenga quanto segue: «che uno fosse sciolto (lytheie), costretto (anagkazoito) improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno (periagein) il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che così facendo provasse dolore»16. E prosegue: «E se lo si costringesse (anagkazoi) a guardare la luce stessa, non sentirebbe male (algein) agli occhi […]?»17. Certo una corretta educazione farà sì che, liberato dalle catene che gli imponevano di vedere un mondo di ombre evanescenti e trascinato con violenza («bia») fuori dall’antro, l’uomo si abitui a contemplare la luce del sole, non le immagini ingannevoli proiettate dal barlume di un fuoco.

L’esperienza descritta nel racconto è quella di un individuo il cui corpo viene diretto con la forza dalla condizione del vincolo alla quale per natura è abituato ad una situazione alla quale deve essere educato, talmente innaturale – direi artificiale – da procurargli dolore. La stessa analisi grammaticale della locuzione «ek tou gignomenon periakteon einai» denuncia l’azione compiuta dall’uomo della caverna come imposizione, perchè l’aggettivo verbale periakteon accompagnato all’infinito del verbo essere (einai)  indica dovere e necessità.

Dunque, puntualizzando che la creatura sintetica trae la sua origine fittizia dal significato del verbo kybernan (“pilotare” e “governare”), tali elementi suggeriscono la possibilità che una figura mitologica a noi contemporanea come il cyborg abbia qualcosa a che fare con Platone: non è forse azzardato, infatti, definire la periagoge cui il filosofo costringe il suo educando e con la quale, soprattutto, fonda la sua dottrina, come paideia cibernetica, quasi che l’anthropos, alla stregua di un androide, sia stato dotato di circuiti dicotomici che lo pilotino sistematicamente da ciò che ha a che fare con la genesis (che cosa è generato e dal corpo di chi) verso ciò che con la genesis non intende avere nulla da spartire, un logos eterno e privo di zavorre corporee, accecante come il sole fuori dalla caverna ed esclusivo perchè sentenzia la cancellazione della nascita dal pensiero.

Se anticamente, nel mito, il pater paradigmatico trasmetteva il proprio seme-logos ad una sua copia che debuttava come anthropos, oggi, nella science-fiction, il lignaggio assoluto di quello stesso aner esibisce un nuovo membro, anch’esso dai lineamenti virili: si chiama androide, altrimenti detto cyborg, espressione fantascientifica della logica platonica.

Anche il discendente sintetico dell’unico e universale capostipite è due volte mimesis: dell’omos che lo precede, in quanto sistema autonomo somigliante al maschio umano e replicato in serie, e del potere procreativo reale competenza materna.

 

Philip Kindred Dick trascorre la sua vita dedicandosi a una incessante produzione letteraria di carattere fantascientifico. Invenzione della sua fantasia è un classico della letteratura science-fiction: Do Androids Dream of Electric Sheep?, del 1968.

Tragico e grottesco, il romanzo racconta il panorama desolato della San Francisco del futuro (1992!), nella quale si muovono esseri umani ed esseri artificiali, cacciatori gli uni e vittime gli altri: un’altra Guerra Mondiale ha ucciso milioni di persone e condannato all’estinzione intere specie, costringendo l’umanità ad andare nello spazio, mentre chi è rimasto sogna di possedere un animale vivente, e le industrie ne producono copie incredibilmente realistiche: gatti, cavalli, pecore…

Anche l’essere umano è stato duplicato: i replicanti sono simulacri perfetti e indistinguibili, e per questo motivo sono stati banditi dalla Terra. Ma a volte decidono di far perdere le proprie tracce e di confondersi tra i loro simili biologici, come il mostro di Frankenstein aspirava alla pienezza della condizione umana e gridava, perciò, l’ingiustizia del creatore che l’aveva abbandonato perché inorridito dalle sue fattezze.

A questo proposito, uno dei personaggi più commoventi del libro, la celebre cantante artificiale Luba Luft, che ama la musica e l’arte, dice: «gli androidi non li sopporto più. Da quando sono arrivata qui da Marte ho dedicato la mia vita a imitare il comportamento umano, e ad agire come se avessi gli impulsi e i pensieri di un umano»18.

Il protagonista è un cacciatore di cyborg, Rick Deckard, che lavora per il dipartimento di Polizia con l’incarico di ritirare gli androidi che violano la legge, benché spesso i dubbi intralcino il suo mestiere, spingendolo a chiedersi cosa sia veramente un essere umano.

E’ l’attività onirica cui si riferisce il titolo a rendere gli androidi simili ai loro creatori in carne ed ossa, poiché essi sognano un passato che non esiste, talvolta all’oscuro persino della loro origine artificiale, e di conseguenza intimamente persuasi di essere cantanti liriche o ricche ereditiere o, ancora, agenti sovietici.

Allora, l’unica differenza veramente irriducibile tra l’androide e l’anthropos, entrambi somiglianti al medesimo prototipo dell’aner-padre, è da imputare soltanto al fatto che il cyborg è una replica (mimesis) prodotta dall’imitazione secondo logos della disposizione autenticamente muliebre, mentre il vivente umano un’autentica e singolare creatura generata dal corpo materno: si ripropone così la coppia antitetica genesis/mimesis.

Se in fondo, dunque, il tratto inconfondibilmente umano è proprio la nascita carnale, sarà sufficiente per un androide che intenda vivere genuinamente come un anthropos «farsi installare un programma di memoria sintetica»19, dimenticando in tal modo la propria origine artificiale di replicante, ma di fatto ignorando anche che cosa comporti nascere come creatura unica e irripetibile – che sarà o meno in grado di generare altre creature uniche e irripetibili – dal corpo di un’altra creatura unica, irripetibile e indubbiamente dotata del potere di generare.

«Non è vero che qualche volta gli androidi hanno falsi ricordi?»20, chiede Luba Luft a Rick Deckard: come l’anthropos nella caverna, anche l’androide compie la propria periagoge cibernetica.

Rispetto allo schema platonico, che sembra trovare nel cyborg una materializzazione fantascientifica, Philip Dick propone però un interessante elemento imprevisto.

Una delle macchine dal sembiante umano prodotte dalla Rosen, la potente industria che detiene il monopolio della fabbricazione di esseri artificiali, possiede un corpo di donna ed è la nipote fittizia del proprietario dell’omonima azienda, nonché l’affascinante cyborg che riuscirà a sedurre il cacciatore di taglie con la prospettiva di un’insolita esperienza sessuale tra un maschio biologico e una femmina artificiale.

Ebbene, prima di una congiunzione tanto inconsueta, l’androide Rachael Rosen interroga Rick Deckard: «gli androidi non possono avere figli. Ci perdiamo qualche cosa? […] Che si sente ad avere un figlio? Anzi, che si sente ad essere nati? Noi non nasciamo mica; non cresciamo; invece di morire di malattia o di vecchiaia, ci consumiamo»21.

Utilizzando la terminologia sviluppata a partire dai testi platonici, Rachael è, dunque, una replica (mimesis) antropomorfa, prodotta secondo logos da un aner-padre (l’imprenditore Eldon Rosen) che ha imitato la virtù materna alla procreazione; in quanto androide, essa ha già compiuto la periagoge ed è fin dall’inizio priva di facoltà generante: tali caratteristiche, insomma, ne fanno la più esauriente e sofisticata concretizzazione dell’ordine elaborato da Platone.

Eppure, è proprio lei a porre la domanda sulla nascita, profilandosi in tal modo come figura che scalfisce, dall’interno, l’orizzonte paterno.

 

 

Il rampollo sintetico

 

Le vicende stravaganti narrate dalla science-fiction sono il parossismo delle ipotesi proposte dall’attuale panorama delle biotecnologie e dell’elettronica.

Da tale contesto di ispirazione tecnoscientifica muove una posizione intellettuale intrigante che tenta di sovvertire i codici di quello stesso sistema binario plurisecolare, attraverso moltiplicazioni, combinazioni, ibridazioni impreviste di nuclei elementari ormai irrigiditi in quell’ordine bello di carattere duale.

La studiosa americana Donna J. Haraway suggerisce proprio questo atteggiamento epistemologico, affermando il ruolo eversivo di identità inedite, fratturate e non più marcate dal gender (maschio/femmina) né da altre dicotomie, bensì incorporate dal cyborg, figura che confonde i limiti tra naturale e artificiale, corpo e macchina, umano e animale, maschile e femminile: da  insigne  filosofa  della  scienza,  intende, dunque, presentare la creatura artificiale come nuovo e sconvolgente immaginario in grado di destrutturare il dispositivo binario di marca platonica.

Ma è proprio da quel dispositivo che il cyborg trae la sua origine sintetica.

Mi riferisco alla voce autorevole di Donna Haraway e al suo Manifesto cyborg, caposaldo del movimento cyber-femminista, proprio perché la mia impressione è che parli il linguaggio di quella stessa logica duale che vorrebbe invece rovesciare per mezzo della «sovrapposizione di macchina e organismo»22: si lavora ancora su quell’impianto antitetico che struttura la cultura occidentale.

Haraway  descrive la tecnologia come radicalmente ambigua a seconda dello scopo mortifero o benefico in vista del quale viene manipolata: da un lato, infatti, alcuni degli strumenti sofisticati dell’elettronica avanzata sono utilizzati, è vero, come strumento di dominio e di morte, ad esempio le bombe intelligenti impiegate nelle guerre (determinando l’opposizione umanità/tecnologia); d’altro canto, la stessa tecnologia sarebbe anche in grado, positivamente, di destabilizzare proprio l’orizzonte tradizionalmente androcentrico.

Secondo la studiosa, il rapporto tra tecnologia e umano può essere ridimensionato in una relazione di reciproca annessione, rendendo ibrido il concetto ordinario di natura umana, e ristrutturando quella pianificazione che poneva al suo centro un soggetto virile e universale, intorno al quale gravitavano tutti gli altri fattori. Azzarda, inoltre, Haraway: «siamo tutti dei cyborg. Il cyborg è la nostra ontologia, ci dà la nostra politica. Il cyborg è un’immagine condensata di fantasia e realtà materiale»23; corrispondendo, così, ai requisiti dell’antica mitologia e della più attuale science-fiction. Nel contesto quotidiano, in fondo, strumenti come il telefono cellulare o il forno a microonde sono ormai imprescindibili, e per nulla estranei alla nostra esistenza concreta.

L’aspetto del cyborg che solletica particolarmente l’autrice è che questa intersezione di tecnologia e organismo può funzionare come figura dell’immaginario: gli esordi della cultura occidentale sono caratterizzati dalla produzione mitica di rappresentazioni creative e polivalenti, risultato di combinazioni insolite, come sirene o sfingi.  Ma in seguito, tali personaggi seducenti vengono immobilizzati e integrati nel sistema filosofico tradizionale, smettendo di raccontare storie avvincenti.

Con il suo potenziale destrutturante e polisemico, l’immagine paradossale dell’organismo sintetico viene assunta dalle femministe più audaci per narrare la vicenda di un soggetto muliebre mutevole, incostante, non solidificato in una qualche essenza conformata alla norma e disciplinata, dal momento che «le femministe cyborg devono ribadire che noi non cerchiamo nessuna matrice naturale di unità, e che nessuna costruzione è totale»24.

Per raffinare la definizione del vivente artificiale, presenterò altri brani dell’opera agguerrita con cui Donna Haraway lancia il progetto di una nuova risorsa immaginativa, che nella rigida classificazione dicotomica non si posizioni al di qua o al di là dell’asse di suddivisione (in questo caso, o macchina o organismo), ma nel mezzo, sbaragliando l’ordine dualista e nullificandone il dominio plurisecolare.

Nel primo capitolo programmatico scrive che «la replicazione del cyborg non è collegata alla riproduzione organica»25 e, pertanto, esso «non ha nemmeno una storia delle origini»26; tuttavia, «il cyborg non sogna una comunità costruita sul modello della famiglia organica»27. Data la sua costituzione tecnologica, «si può pensare a qualsiasi […] persona in termini di smontaggio e riassemblaggio: nessuna architettura naturale vincola la progettazione dei sistemi»28; di conseguenza, «il cyborg non è soggetto alla biopolitica di Foucault: il cyborg simula la politica»29. Infine, «le nuove macchine sono pulite e leggere, i loro ingegneri sono adoratori del sole che mediano una nuova rivoluzione»30.

Questa selezione di citazioni insinua un gioco di antitesi in cui lo squilibrio viene ad essere sempre a svantaggio del primo polo nella misura in cui il cyborg 1) non è stato generato, ma è un esangue replicante, genesis/mimesis: si ripropone la perpetuazione dell’identico, con l’imitazione dell’omos, secondo la linea di discendenza aner®anthropos®androide; 2) non è nato da un corpo materno, ma è una macchina fabbricata per scopi precisi, genesis/telos: dunque, rimette in atto il matricidio originario, inevitabile conseguenza del distoglimento dello sguardo maschile dalla propria nascita alla propria morte; per concludere, 3) non può avere legami di parentela, ma virtuali relazioni con altri replicanti, genesis/polis (intesa come partecipazione alla vita politica).

Anche la fantascientifica creatura è telecomandata da un dispositivo dicotomico che lo dirige costantemente dalla categoria di genesis a quelle di mimesis, telos e polis, in una sorta di reiterata periagoge cibernetica dalla nascita carnale dal corpo di una madre, alle manifestazioni del logos paterno.

Sebbene Donna Haraway intenda disintegrare il potente meccanismo binario assemblando un’ingegnosa figura di confine, di fatto sembra non riuscire a sbarazzarsi di quell’ingombrante patrimonio che ancora articola il suo linguaggio. Si tratta di una conseguenza inevitabile insita nella figura del cyborg, che non smantella, bensì riconfigura in versione elettronica l’antitesi archetipica genesis (femmina)/mimesis (maschio), e la rielaborazione in chiave maschile omosessuale della propensione manifestamente e tangibilmente femminile: il logos paterno ha organizzato un sistema simbolico che riconnota la  predisposizione  peculiare  del corpo  femminile da potenza (ma non essenza)  ineffabile  ed esclusiva di generare, ad onere tutto materiale di fornire un luogo di incubazione che accolga e contenga (questi compiti sì, spesso, definiscono la sua essenza) l’omos.

Non stupisce, pertanto, che le cosiddette cyberfemministe guardino provocatoriamente con favore a pratiche riproduttive artificiali che fabbricano la vita umana prescindendo dal grembo materno, come il futuribile utero meccanico, non in quanto tecniche scientifiche per supplire a incapacità fisiologiche, ma come ridefinizione radicale dei codici bioculturali dell’Occidente e modalità di liberazione dal ruolo cristallizzato di matrice, «immaginando un mondo senza genere che forse è un mondo senza genesi»31. Verso l’assunzione definitiva del sembiante maschile paradigmatico.

In questo modo, infatti, la natura femminile acconsentirebbe alla modalità riproduttiva mimetica di stampo omosessuale (non più la genesis bensì una sua mimesis) e verrebbe profilandosi davvero come replica antropomorfa e difettosa (di nuovo, mimesis) dell’aner prototipo, inserendosi volontariamente nella linea di discendenza paterna dell’identico. Anch’essa, come un cyborg, duplice imitazione.

 

 

Finzioni della caverna platonica

 

L’obiettiva situazione della nascita da un corpo predisposto alla genesis ad un altro che ne avrà o meno i requisiti traduce fenomenicamente il dato della duplice sessuazione umana (maschio/femmina), la cui constatazione sensibile  si snoda in un assetto simbolico di carattere duale, che ho specificato nell’antitesi genesis/logos: ne risulta la più complessa e raffinata opposizione maschio-maschio (il padre-paradigma che concreta un ordine a sua somiglianza)/maschio-femmina (l’elemento femminile essendo prodotto a sua approssimativa somiglianza da un padre-paradigma, realizzato quest’ultimo a somiglianza dell’originario padre-paradigma), caratterizzata dalla permanenza maschile su entrambi i versanti dell’opposizione sia come esempio assoluto e autonomo di facoltà generatrice (pater) sia come modello primitivo (aner) da cui, per la regola della somiglianza (anthropos e antropomorfismo della natura femminea), provengono tutte le cose.

Ciò è scaturito da una radicale inversione surrettizia che, d’altronde, informa l’intero ordine duale. Simbolicamente, infatti, la genesis appartiene al dominio paterno della struttura maschio-maschio; solo in un secondo tempo, essa viene riprodotta per mimesis nella relazione maschio-femmina, dove dal prototipo virile deriva, per imprecisa imitazione, anche l’elemento femminile; nella realtà, invece, la genesis, esito concreto di una pratica eterosessuale, è privilegio soltanto della sostanza muliebre, assuefatta a ritorni metodici e capace di creare altri corpi: tale potenza è il vero paradigma del logos paterno, preteso archetipo di una struttura omosessuale indebitamente assunta come schema esemplare.

La paideia promossa da Platone, rappresentata anticamente dall’immagine dell’anthropos nella caverna, educa all’esercizio del logos trasmesso per somiglianza, nel lignaggio paterno, a ciascuno dei discendenti dell’aner-archetipo, imponendo la costrizione di voltare le spalle alla generazione: si tratta dell’azione simbolica, l’unica attuabile, per mezzo della quale la specificità del corpo materno è estromessa dall’orizzonte visivo del logos paterno capillare e immateriale.

L’androide altri non è se non la versione cablata di quell’anthropos: dunque, con la periagoge cibernetica, il fallologocentrismo ha replicato il distoglimento dello sguardo dall’appropriazione fraudolenta cui l’orizzonte paterno deve la sua origine reale.

 

[1]                     1 FRANÇOISE HERITIER, Masculin/Féminin. La pensée de la différence, Editions Odile Jacob, Paris 1996, trad. it. di Barbara Fiore, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Editori Laterza, Roma-Bari 1996, p.11.

2              PLATONE, Repubblica, 518 c.

3 PLATONE, Timeo, 27 d.

3                     4 PLATONE, Timeo, 28 a.

4

5              Ivi, 28 c.

6              Ivi, 28 a-b.

7              Ivi, 28 c.

8              Ivi, 29 d.

9              Ivi, 29 e.

1                     0 Ivi, 41 c.

1                     1 Ivi, 42 b-c.

1                     2 Ivi, 39 d.

1                     3 MARY SHELLEY, Frankenstein; or The Modern Prometheus, Penguin, Londra 1994, trad. it. di Simona Fefè, Frankenstein, ovvero il Prometeo moderno, Frassinelli, Perugia 1995, p. 63.

1                     4 PLATONE, Repubblica, 514 b.

1                     5 Ivi, 515 a.

1                     6 Ivi, 515 c-d.

1                     7 Ivi, 515 e.

1                     8 PHILIP K. DICK, Do Androids Dream of Electric Sheep?, Baror International Inc., New York 1968, trad. it. di Riccardo Duranti, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma 2000, p. 155.

1                     9 Ivi, p. 144.

2                     0 Ivi, p. 123.

2                     1 Ivi, p. 216,

2                     2 DONNA J: HARAWAY, Simians, Cyborgs, and Women: The Reinvention of Nature, Routlege,  New York 1991, trad. it. Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995, p. 40.

2                     3 Ivi, p. 41.

2                     4 Ivi, p. 51.

2                     5 Ibid.

2                     6 Ivi, p. 41.

2                     7 Ivi, p. 42.

2                     8 Ivi, p. 57.

2                     9 Ivi, p. 58.

3                     0 Ivi, p. 45.

3                     1 Ivi, p. 41.