diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 7 - 2008

Lei non sa chi sono io

Bateson e pratiche politiche. Spazi vuoti che fanno politica

L’incontro col pensiero di Gregory Bateson è avvenuto alcuni anni fa durante un corso di ermeneutica tenuto da Luisa Muraro e, in seguito, frequentando i corsi di filosofia del linguaggio di Chiara Zamboni[1]. L’interesse per il pensiero inattuale di questo pensatore mi ha accompagnato durante i miei studi fino alla decisione di scrivere la tesi di laurea su di lui.

Nonostante la sua continua ricerca di un linguaggio più vicino all’ambito creaturale, il più possibile libero dalle gabbie epistemologiche del pensiero riduzionista, non troviamo esempi del suo percorso che richiamino in modo significativo l’ambito della politica: aveva con questa un rapporto ambivalente fatto di critiche e incomprensioni[2]. I miei interessi, invece, mi legavano a questa. La frequentazione dei discorsi della politica delle donne, in particolare, mi ha permesso di rintracciare e considerare come politici alcuni aspetti del suo pensiero che egli non riconosceva come tali, essendo rimasto legato, anche se in maniera critica, ad una visione tradizionale della stessa. Questo diverso senso di politica di cui parlo ha a che fare con uno spostamento dello sguardo, un riposizionamento epistemologico, un lavoro sul simbolico, una revisione del proprio essere al mondo come essere-in-relazione.

Il mio modo di legare il pensiero di Bateson e la politica ha dunque necessitato più di altri di una lettura creativa e vicina alla mia esperienza. C’è da dire che in questa operazione mi è stato di stimolo lo stesso pensiero di Bateson, essendo questo per sua natura generativo, un “meta-pensiero” che chiede di essere “usato”, di essere sporcato con l’esperienza.

Lasciando che il pensiero di Bateson contamini l’idea di politica, siamo portati per forza di cose a modificare il nostro modo di concepirla, privandola prima di tutto della sua dimensione più “tecnica”, ovvero degli aspetti più pragmatici e pianificatori[3]. Ci ritroviamo, invece, ad allargare il suo senso a partire dalla considerazione dell’essere in relazione, dell’essere coinvolti/e in contesti più grandi, contesti giocabili a partire dal nostro radicamento in essi piuttosto che da un’azione fortemente finalizzata al raggiungimento di uno scopo.  Radicamento in parte inconoscibile, indicibile, ma che costituisce il nostro luogo. Il nostro “luogo comune”. Che è fatto anche di parole che necessitano di una certa onestà epistemologica, parole come “fiducia”, “dipendenza”, “vulnerabilità”, “segretezza”, “incertezza”, “paura”, “impotenza”.

E’ nota la posizione critica di Bateson verso l’abuso della visione finalistica[4], che si nutre dell’ossessione illusoria di controllo propria del soggetto cartesiano occidentale, ed è proprio a partire da questa critica che egli rifiutò l’idea di politica racchiusa nelle ideologie politiche convenzionali. Nell’estate del ’67, davanti ad un pubblico di estrema sinistra, egli criticò le ideologie politiche[5] poiché avevano in sé degli scopi e in quanto aventi in sé degli scopi erano al centro dei problemi contemporanei di adattamento. Le istituzioni politiche ed economiche, inoltre, non potevano offrire soluzioni ecologiche in quanto coinvolgevano “parti di persone”, orientandole verso i risultati limitati propri di tale parte (razionale) delle persone. La razionalità, la finalità cosciente, isolata e ipertrofizzata, diventa tossica poiché isola gli scopi consapevoli e mette in atto strategie per raggiungere tali scopi: in questo modo si trascurano le altre parti delle persone e i molti processi autocorrettivi[6] che potrebbero scaturire da tali parti meno consce della mente[7], perdendo dunque l’interazione e la relazione con una realtà complessa e multisfaccettata. Bateson mi ha dunque stimolata a chiedermi cosa significhi aprire la politica agli aspetti inconsci[8] che si mettono in gioco nella comunicazione.

Trovo che in questa direzione si muovano le pratiche politiche: verso cioè un recupero delle relazioni (tra le persone, soggetti politici diversi e tra noi ed il mondo), relazioni che ci vedono tutti interi e tutte intere in un agire politico alternativo alla politica della rappresentanza, dei partiti e dei numeri. Il fatto di non rendere tutto esplicito in termini di progettualità, di modalità di azione e di fini permette di avventurarsi fuori dagli schemi prestabiliti e di considerare un’azione non solo a partire dal raggiungimento o meno dello scopo previsto, ma dal processo in sé che spesso porta verso qualcosa di imprevisto…

Una pratica a me familiare è il seminario politico che si svolge ogni anno all’Università di Verona.

 

Il seminario.

Il seminario ha avuto inizio nel momento nella mia vita che ha segnato una volta per tutte il rifiuto nei confronti dei discorsi della politica istituzionale: la guerra che la Nato decise di scatenare in Kosovo nel 1998. Quella guerra andrebbe ricordata poiché la propaganda ne fece una missione umanitaria: per la prima volta venne usata l’espressione “guerra umanitaria”. Ossimoro, paradosso. Ma non (batesonianamente) un bisticcio linguistico foriero di creatività, quanto un’abile mossa propagandistica di nascondimento della verità: la verità della guerra, la verità della mutilazione dei corpi. Troppa era la distanza tra il suono di quegli aerei mortiferi che passavano di notte sopra la mia testa[9] e le parole della propaganda che cercavano di convincermi che si trattava di un intervento necessario, buono, con fini umanitari. Eppure la vita andava avanti: si andava a fare la spesa, si seguivano le lezioni dell’università come se nulla stesse accadendo, come se non fossimo un paese in guerra. La mia prima reazione a tale situazione fu quella di pensare di andare via, spezzando così l’irrealtà di quella quotidianità, andando sui luoghi della guerra a prestare aiuto nei campi profughi. Mi sentivo, ed ero, completamente fuori contesto. Ciò che era fuori di me era allo stesso tempo alienato e alienante: eravamo un paese in guerra ma nessuno, almeno intorno a me, sembrava saperlo. Era in corso una rimozione della guerra. In quei giorni però trovai altre persone che, come me, erano sconvolte per l’evento e confuse dalla apparente indifferenza dell’università.  Cominciammo dunque col chiedere ai docenti di collaborare nel trovare uno spazio nel quale si potesse accogliere quel sentimento di incredulità, di frustrazione che, andavamo scoprendo, era diffuso tra studenti e insegnanti. Così organizzammo una giornata intera, aperta a chiunque volesse partecipare, durante la quale si poté riflettere e mettere in circolo pensieri e sentimenti relativi a quella guerra.

A partire da quella giornata un gruppo di studenti e studentesse sentì la necessità di trovarsi e parlare ancora. Trovammo ospitalità ed entusiasmo da parte di alcune docenti tra cui Chiara Zamboni, docente di filosofia del linguaggio, che ci ospitava del suo studio. Cominciò così una serie di seminari politici che si tengono ancora negli spazi dell’università con cadenza annuale.

Se avessi risposto all’urgenza che sentivo appena scoppiata la guerra avrei di sicuro guadagnato un’esperienza forte, che mi avrebbe portata chissà dove, ma tutto sommato avrei risposto a quegli eventi con un tipo di scelta già prevista e avrei perso l’opportunità di rompere l’isolamento che io ed altri/e sentivamo lì, nel nostro contesto quotidiano. Avrei anche perso l’opportunità di rendere significanti le emozioni[10] che quegli eventi mi provocavano, ovvero di comprendere meglio ciò che mi/ci lega alla guerra e alla consapevolezza di appartenere ad un paese che porta distruzione. In quei giorni sentivo forte il bisogno di un contesto che rispecchiasse e accogliesse la mia inquietudine, e quello del volontariato è di frequente un modo per vedere rispecchiata, ma anche per quietare e ingabbiare la propria inquietudine, per renderla innocua. È, infatti, un contesto che rispecchia quello che sentiamo ma che non permette il cambiamento. Il volontariato contribuisce a mantenere la status quo ed è, in questo senso, molto diverso dalle pratiche politiche, che si pongono invece in maniera da interrogare e modificare la realtà. Partire verso posti dove l’urgenza umanitaria grida il suo bisogno, ci impedisce di vedere che anche dentro di noi, nelle nostre città, nel nostro paese c’è un diverso tipo di bisogno: bisogno di politica, bisogno di riscoprirsi legati. Legati a chi, a cosa? Alle persone che ci siedono affianco a lezione, agli insegnanti ma anche alle persone che viaggiano in autobus o che fanno la fila in posta con noi. E poi legati ai contesti che ci ospitano: i miei sentimenti sono stati accolti dalle persone che “fanno” l’università al punto che quest’ultima si è lasciata modificare da noi diventando essa stessa luogo di dubbi, inquietudini, sentimenti forti, contraddizioni. Amplificando il nostro vissuto. I corridoi, le aule erano finalmente pervase dallo stesso lavorìo emotivo che la guerra aveva prodotto dentro di noi. La guerra continuava, certo, ma non era più solamente dall’altra parte dell’Adriatico oppure sotto forma di malessere dentro ciascuno di noi: era anche tra noi, circolava nei pensieri, nelle parole, nelle relazioni e ci modificava. Anzi, modificava noi, l’università, la città. E poi, lavorare sul nostro qui è un lavorare sui luoghi dove la decisione della guerra è maturata: che cosa cambia il prestare soccorso nell’urgenza se domani saremo pronti a portare guerra in un altro posto? Con questo non intendo negare gli aspetti positivi delle azioni di volontariato. Vorrei però ampliare la questione: a livello di singoli esseri umani il volontariato in zone disagiate porta benefici, sollievo, salva vite, ma è a livello sistemico che le cose cambiano. Finché ci sarà la buona volontà delle persone a tappare le falle del sistema questo rimarrà uguale a se stesso e riprodurrà le proprie aberrazioni. E’ come salvare vite umane mentre l’umanità procede verso l’estinzione. Forse sarebbe preferibile toccare il fondo e guardare in faccia la catastrofe. Che non è solo umanitaria, ma anche, e soprattutto, sistemica.

Liberi dalle gabbie della propaganda andavamo dunque cercando ciò che ci legava agli avvenimenti bellici prima di ogni schieramento, prima di ogni posizione già data.

Ed è il desiderio di quello stesso tipo di libertà che fa muovere ancora oggi, negli interstizi di spazi e tempi non occupati dalle attività universitarie, ragazzi e ragazze, donne e uomini, liberamente. Mettere in comunicazione, creare interfacce tra noi e tra noi e il mondo che ci facciano sentire non-separati da ciò che accade ma irrimediabilmente e incommensurabilmente compromessi. In relazione. Ritrovare e reinventare i fili che ci legano al mondo.

 

Spazi vuoti dell’università e fiducia nella sfera politica.

Uno dei vizi della nostra politica istituzionale è la mancanza di fiducia che si può riscontrare nella eccezionale proliferazione di leggi in Italia. Tuttavia, in questioni molto delicate e dove entrano in gioco valori morali come l’aborto o la fecondazione artificiale, la regolamentazione è eccessiva al punto che una volta che si entra nell’iter burocratico ci si sente manipolate in maniera totalmente oggettivante e irreversibile. Ma in questo modo, l’iter diventa così spersonalizzante che il personale che svolge il proprio lavoro in questi luoghi, si trova ad essere meno coinvolto e meno umanamente interessato alle donne che ha di fronte. Medici, infermieri, tendono a sentirsi pezzi di un ingranaggio immutabile dove non c’è spazio per le relazioni umane. E così magari si ottiene proprio il contrario dell’intento ricercato: che chiunque, fatta richiesta e stando alla correttezza dell’iter, possa abortire nel completo disinteresse delle persone che ha di fronte…magari una due tre quattro volte e usare l’aborto come anticoncezionale. Tutto questo frutto dell’illusione, da parte dei politici, di esercitare controllo attraverso la legiferazione, un controllo finalizzato ad evitare l’uso e l’abuso dell’aborto da parte di donne “irresponsabili” oppure della fecondazione artificiale da parte di chi non ne abbia veramente necessità. Bateson direbbe che la soluzione tentata diventa il problema. E allora che fare?

Una soluzione alternativa sarebbe stata la depenalizzazione[11]: ovvero fare uscire dall’illegalità tutto il sommerso della pratica dell’aborto, le pratiche già create e funzionanti, lasciando dunque che il sistema si organizzasse da sé. La depenalizzazione è un procedimento per il quale lo stato si ritira, lasciando quel vuoto di regolamenti, quello spazio in-conscio, non-conscio, che permette l‘articolarsi di modalità più belle. “Bellezza” è una parola che richiama il complesso tema batesoniano dell’estetica[12]. Il valore estetico, la bellezza, di qualcosa è in relazione al suo grado di integrazione: quanto più qualcosa è “bello” quanto più  risulta equilibrato al suo interno e integrato nel contesto. Modalità più belle, dunque, creative e sistemicamente efficaci. Certo bisogna fidarsi delle capacità autoregolative del sistema.

Alla luce degli esempi fatti, acquista ancora di più una valenza politica il discorso di Bateson sui rischi dell’ipertrofia da finalità cosciente[13]. Nel caso del seminario politico, ciò che lo distingue da molte delle altre iniziative che attraversano l’università, è che, pur essendo nato nell’università, ne utilizza gli spazi non regolamentati, spazi-tempi non colonizzati dalla pianificazione cosciente che permettono l’elemento imprevisto e creativo. Spazi vuoti che lasciano che il seminario continui a vivere ed evolversi negli anni secondo le proprie modalità e che l’università di non smettere di essere, anche, un luogo dove possano intrecciarsi relazioni non basate sull’utilitarismo e nascere pratiche politiche[14]. Anche nel campo della politica istituzionale, la deregolamentazione è un possibile e più saggio percorso per affrontare questioni controverse: un percorso che dia fiducia all’elemento umano, anzi, creaturale. È proprio nella fiducia in ciò che è inconscio, invisibile e che è insieme rischio e risorsa per la politica, e nella rinuncia alla smania controllo che vedo un significativo richiamo tra il pensiero Bateson, le pratiche politiche e la  scommessa della politica delle donne.

[1]              Presso l’Università di Verona. Il corso di ermeneutica tenuto da Luisa Muraro a.a ‘97/’98 e corsi di filosofia del linguaggio a.a 2001/2002 e 2002/2003.

[2]              Significativo a questo proposito è il discorso che Bateson tenne al Governor’s preyer breakfast, appuntamento mondano che coinvolge alte cariche istituzionali. Vedi G. Bateson, M.C Bateson, Dove gli angeli esitano , trad. di Giuseppe Longo, Adelphi, Milano 1898, p. 111 e segg.

[3]              La principale critica che Bateson muove alla politica è di essere cieca rispetto alla complessità del vivente. Programmare in termini di scopi da perseguire, pensare in termini di rimedi ad hoc, non fa altro che perpetuare gli errori dell’Epistemologia occidentale. Vedi avanti.

[4]              Vedi in particolare il saggio “Effetti della finalità cosciente sull’adattamento umano” in G. Bateson Verso un’ecologia della mente, trad. di Giuseppe Longo, Adelphi, Milano 2002,  p. 480 q segg.

[5]              Vedi la biografia di David Lipset, Gregory Bateson, The legacy of a scientist, Beacon press, Boston 1980, p. 222.

[6]              Il fatto che il linguaggio batesoniano utilizzi termini di matrice cibernetica è dovuto all’incontro di Bateson col movimento cibernetico fin dalla sua nascita nei primi anni ’40. Tale incontro costituì un passaggio fondamentale per il pensatore, che trovò in concetti come ricorsività, feedback, causalità circolare, strumenti importanti per la sua ricerca. Per il racconto dell’incontro con la cibernetica all’interno del suo percorso di ricerca, vedi G. Bateson, Dove gli angeli esitano, op. cit., p. 28e segg.

[7]              Lo stesso concetto di mente trova nel pensiero di Bateson un enorme arricchimento dovuto in parte al contributo della cibernetica. La mente esce dai confini, troppo umani, della scatola cranica e diventa relazionale, sistemica, fondendo e con-fondendo fuori/dentro, umano/non-umano, vivo/non-vivo, soggetto/oggetto, fuori/dentro, razionale/emozionale, io/mondo.  Vedi Gregory Bateson, Mente e natura, trad. it. di Giuseppe Longo, Adelphi, Milano 1984, p.126 e segg.

[8]              L’inconscio per Bateson comprende, oltre agli aspetti più propriamente freudiani, anche tutti quei fenomeni non controllabili razionalmente come gli automatismi e la comunicazione non verbale. Vedi G. Bateson, Una sacra unità, trad. di Giuseppe Longo, Adelphi, Milano 1997, p. 275-276,  p. 322.

[9]              In quel periodo ho passato dei giorni dalla mia famiglia a Foggia, città che sorge accanto all’aeroporto militare Amendola, luogo di partenza degli aerei da guerra diretti in Kosovo.

[10]            Ho messo al centro le emozioni poiché le considero, con Bateson e Sclavi, espressioni di un’intelligenza più complessiva e di una mente di cui siamo una parte attiva ma che non risiede unicamente nella nostra testa né nelle nostre viscere. Vedi il testo di Marianella Sclavi Arte di ascoltare e mondi possibili, Bruno Mondadori, Milano 2003. La Sclavi propone, contro la retorica del controllo delle emozioni, l’autoconsapevolezza emozionale. Vedi in particolare la parte seconda del libro, pagg. 117-248. C’è da dire, inoltre, che la svalutazione dell’importanza delle emozioni in politica è funzionale al controllo di queste ultime e del loro potenziale di cambiamento. Non essendo abituati/e a riconoscere le nostre emozioni diventa facile, per gli esperti della politica-comunicazione, usarle per scopi manipolativi. Penso invece che ci sia bisogno di accogliere le nostre emozioni e di metterle in circolo, perché, come ha detto Marina Terragni nel suo intervento del nove novembre 2007 all’ultimo Grande Seminario di Diotima, “..un po’ di paura è, omeopaticamente, un rimedio al panico.”

[11]            Questo spunto viene dalla discussione che ha dato vita ad uno dei metaloghi del libro “Legàmi-con Gregory Bateson”, Libreria, Universitaria Editrice, Verona 2006. Il libro è nato, su idea di Chiara Zamboni, dalla collaborazione di diversi studenti e studentesse che hanno scritto la tesi di laurea su Bateson.

[12]            L’arte per  Bateson è uno degli ambiti nei quali si può scorgere l’integrazione, la grazia, e farne esperienza sia come spettatore che come autore. Si veda a questo proposito “Stile, grazia e informazione nell’arte primitiva” in G.Bateson, Verso un’ecologia della mente, op. cit.,  p. 166 e segg.

[13]            Interessante a questo proposito è il metalogo “La segretezza” in G.Bateson, M. C. Bateson, Dove gli angeli esitano, op.cit. p. 129-136. Emerge qui il confronto tra due opinioni diverse, attribuibili a Bateson e alla figlia Mary Catherine.

[14]            Accanto al seminario politico, ritengo giusto nominare anche il laboratorio tesi che ha le stesse modalità “informali” di svolgimento del seminario e che da più di 10 anni mette in relazione studentesse e studenti e docenti facendoli riflettere sull’elaborazione della tesi di laurea.