diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 1 - 2003

Pratica Filosofica

Autorità senza monumenti

 

Di che cosa si tratta quando si tratta dell’autorità? Non cerco una definizione ma un significato e so che devo cercarlo vicino al potere, con il quale l’autorità viene spesso confusa. Partiamo allora dal significato che si esprime con la frequente confusione fra autorità e potere. La prima cosa da notare è che la confusione non è totale, il che ci permette di porre la questione della sua origine: da dove viene che noi tendiamo così facilmente a confondere il significato di due parole che, se ci riflettiamo, non corrispondono a una stessa esperienza? La risposta sembra ovvia: per chi vive in Occidente (che vuol dire, ormai, per gran parte del mondo), la confusione è una realtà, la realtà di una commistione fra il potere di dare ordini, comandare, decidere per gli altri, e la capacità di fare ordine, capire, decidere quanto a sé, affermare, giudicare[1]. Questa è una civiltà in cui i maestri di scuola, oltre a insegnare, bocciano, e i giudici, oltre a giudicare, condannano, e i più pensano che ciò sia abbastanza naturale. Si tratta invece di una realtà storica. Le possiamo assegnare un inizio fra il 1220 e il 1240, quando cioè l’Imperatore si impegnò formalmente nella repressione delle eresie, facendo perdere alla società cristiana il gusto della ricerca libera, e alla Chiesa cattolica quello di operare senza gli strumenti del potere[2]. Cominciò così a offuscarsi la distinzione fra autorità e potere che la Chiesa aveva ereditato dalla civiltà romana antica. (Su quest’ultimo punto seguo il giudizio di Hannah Arendt, Che cos’è l’autorità?)[3]

Ma la morte del senso romano antico, io dico, non può equivalere alla morte del senso dell’autorità. Questo, infatti, ha una sua risorsa autonoma e permanente in quel fatto inaugurale dell’umanità che è l’apprendimento della lingua materna. Il senso dell’autorità, io sostengo, ciascuno lo acquisisce praticamente nell’atto stesso di chiamare “casa” una casa e “pane” il pane[4]. Come avviene, allora, che in noi si smarrisca la risorsa nativa del senso dell’autorità? Una risposta esauriente a questa domanda ci coinvolgerebbe in una troppo lunga analisi della miseria simbolica di cui soffre la civiltà occidentale. Risponderò quindi solo in parte, chiamando in causa la misura del tempo necessario alla decisione e all’azione. Avere il senso di questa misura è un’arte alla quale si può essere più o meno portate, ma che domanda comunque di essere coltivata con l’esercizio. E ha a che fare con il senso dell’autorità. Non si può dire che l’autorità sia lenta o veloce: essa prende il suo tempo, che è il tempo di una contrattazione interiore fra sé e sé, la quale prende il posto dell’originario “venire a patti” con la madre (Winnicott) e prelude alla normale contrattazione che caratterizza i rapporti liberi con le nostre e i nostri simili[5]. Il senso dell’autorità – che originariamente non è autorità propria o altrui ma qualità relazionale – sarebbe, insomma, una competenza simbolica, quella di commisurarsi con il reale, in uno scambio di senso e di valore che arricchisce qualitativamente la nostra esperienza (è nota la radice di autorità da augere, accrescere). Non c’è dubbio, d’altra parte, che il disporre di un qualche potere in più, ci fa credere che non sia più indispensabile prendere la misura di sé in rapporto agli altri. Così, per fare un facile esempio, l’accresciuto potere d’acquisto di cui dispongono i bambini, distrugge in loro il senso dell’autorità, e questo indipendentemente dal comportamento delle persone che cercano di educarli. Il potere è come un’abbreviazione, vera e presunta. In Italia, il potere politico è stato recentemente preso, democraticamente, da un uomo già dotato di notevole potere, e io sono certa che questa circostanza lo ha favorito parecchio agli occhi dell’elettorato: la sua figura suggerisce l’idea che, con lui al potere, i problemi più difficili siano destinati a una facile soluzione. Chi confonde autorità e potere – e questa confusione si può fare in molti sensi – ha smarrito il senso della necessità permanente di accordarsi fra sé e sé, fra sé e il mondo, circa quello che vuole essere e fare. E lascia allora – anche questo “lascia” ha molti sensi: delega, cedimento, complicità – che sia il potere a decidere e ad agire.

 

Questo discorso sembrerà strano a chi ritiene che l’essere umano abbia la facoltà di decidere direttamente da sé del suo essere e fare, salvo ostacoli esterni. In effetti, io non credo all’autodeterminazione. Però, ci tengo a dirlo, non ho dubbi gravi circa la libertà umana, intesa come responsabilità personale per le azioni di cui comprendiamo il senso. La mia questione riguarda unicamente l’autodeterminazione. Il mio ragionamento verte sulla necessità della mediazione, nella quale necessità vedo riposare il senso ultimo dell’autorità, in mancanza della quale quello che si esercita è un potere. L’esercizio del potere, in sé, non sarebbe niente di male: è lo stato delle cose che comanda sugli esseri umani. Niente di male, se non fosse che ci preclude un di più rispetto allo stato delle cose, un di più senza il quale, chissà perché, siamo perduti. In effetti, siamo animali simbolici. Vivere senza autorità ci espone alla strapotenza dei fantasmi evocati dalla casualità di una convivenza senza vincoli simbolici e senza scambi umani, la convivenza riducendosi di conseguenza ad un vivere in una società di mostri. Hannah Arendt lo aveva visto e previsto. Scrive infatti, alla fine del testo citato sopra, che vivere senza autorità, vivere cioè senza sapere che la fonte dell’autorità trascende il potere e i suoi detentori, ci espone a dover affrontare daccapo i problemi più elementari della convivenza umana.

La mostruosità del corpo sociale privo di ordine simbolico, talvolta si manifesta con una spaventosa evidenza. Ma c’è una mostruosità meno evidente, più spicciola e quotidiana, che affiora nei rapporti sociali quando, per esempio, ci mettiamo a fare calcoli su quello che per sua natura dovrebbe esser fuori da ogni calcolo, o quando capita che l’impunità sia interpretata come licenza. La risposta di chi, a questo punto, fa appello ai valori morali, è vana nella misura in cui presuppone che possa determinarsi per il meglio chi dispone del solo criterio potere/non potere.

Come abbiamo visto, Hannah Arendt fa coincidere l’autorità con la sua trascendenza rispetto al potere e ai suoi detentori. Nei modelli storici da lei tenuti presenti, la trascendenza dell’autorità viene assicurata dal suo stretto connubio con la tradizione, ossia con il costante riferimento a un evento fondatore (es., la fondazione di Roma) e con la religione, che dà la fede in una vita futura in cui il male è punito e il bene premiato. Questo connubio, sempre secondo la Arendt, storicamente realizzato dalla civiltà romana antica e rinnovato dalla Chiesa cattolica nella civiltà medievale, è venuto meno in epoca moderna, mettendo in crisi l’autorità come istanza distinta e trascendente.

Io sono pienamente d’accordo sul primo punto: o l’autorità trascende il potere o non c’è, e noi siamo consegnate alla assoluta determinazione dei rapporti di potere, nostro o altrui. Ma mi interrogo sulle forme storiche della trascendenza dell’autorità rispetto al potere: tradizione e religione sono indispensabili?

Detto alla buona, ma abbastanza fedelmente al pensiero della Arendt, questo è il problema: finita la paura dell’inferno, sparita l’idea di un al di là (comunque inteso) in cui i conti, fatti su questa terra con il criterio del potere, torneranno a essere rifatti con altri criteri, finito, com’è finito, questo tipo di civiltà, chi o che cosa riuscirà a impedire che giovani maschi annoiati decidano di divertirsi uccidendo automobilisti con pietroni buttati, nottetempo, dall’alto di un cavalcavia?[6] Le risposte di tipo repressivo, come sarebbe il disporre di una polizia meglio addestrata, urtano contro il ripresentarsi dello stesso problema: chi o che cosa impedirà ai poliziotti bene addestrati di massacrare di botte le persone inermi? Le risposte di tipo preventivo, come sarebbe l’impartire una migliore educazione, urtano contro un problema analogo, quello dell’educazione degli educatori, in una regressione destinata ad andare all’infinito, per assenza di modelli di riferimento.

Sembra che non ci sia una via d’uscita. Sembra che siamo strette fra il ritorno nostalgico e regressivo a una cultura tramontata (il tradizionalismo, il campanilismo, la chiesa alleata con il potere politico, l’educazione autoritaria) e l’arrenderci alla crescente mostruosità della convivenza umana. Il dibattito su destra/sinistra che si è sviluppato in Europa in questi ultimi anni, è strozzato dal dilemma fra i problemi sempre più acuti della convivenza e le risposte che appaiono ancora peggiori dei problemi, di modo che la sinistra diventa talvolta più conservatrice della destra, le innovazioni essendo temute come veicoli del peggiore passato.

Sembra, in altre parole, che, insieme al senso dell’autorità, abbiamo perduto il senso della storia. Del che, chi ha letto la Arendt non può meravigliarsi. Ella, infatti, spiega come la ricerca storiografica si trovi agevolata dalla fine di ogni vincolo simbolico, tolto quello specificamente scientifico; non se ne trova però agevolato il senso della storia, poiché la caduta dei vincoli simbolici priva dei criteri per selezionare nell’opera degli storici quello che per noi è degno di essere ricordato e tradotto, al presente, in un orientamento verso il futuro.

Con il senso della storia, è perduto anche quello della politica. Anche su questo punto la Arendt è una guida di prim’ordine. E anche su questo punto i fatti storici, fino ai più recenti sviluppi politici osservabili in Italia, le danno ragione.

Non però fino in fondo, se noi rivolgiamo lo sguardo verso la politica delle donne. Scrive Diana Sartori di Diotima, in un saggio sul rapporto fra il pensiero politico della Arendt e la politica delle donne: “Sicuramente la politica di cui Hannah Arendt parla, non è quella che comunemente viene chiamata così. Non si può tuttavia dire che sia solo un ideale di politica, e per di più irrealizzabile o destinato all’insuccesso. (…) Qualcosa di simile al senso autentico della politica così come la Arendt la intende, vive nella politica che ha fatto e fa il movimento delle donne”[7].

Questo “qualcosa di simile”, va subito detto con molta forza, si è storicamente realizzato con la mediazione della differenza femminile, della quale la Arendt, conformemente al pensiero politico di ogni tempo e luogo (universale?), non tiene conto. Ora, se dalla realtà storica imprevedibilmente modificata dalla differenza femminile ritorniamo a considerare il ragionamento di Hannah Arendt, immediatamente ci rendiamo conto che le figure di autorità cui ella si appoggia, per concludere che l’autorità è cosa storicamente tramontata, corrispondono a forme di autorità alquanto compromesse, fino alla confusione, con l’esercizio di un potere. Precisamente, del potere patriarcale sulle donne, secondo quello che possiamo imparare dalla ormai ricca storiografia femminista. Così, l’inventore del mito religioso-politico dell’inferno, Platone, è anche l’inventore del mito filosofico-politico della caverna, in cui la ricerca filosofica viene raffigurata alla stregua di un allontanamento dall’oscurità ingannevole del corpo materno. Analogamente, il mito fondativo della nascita di Roma presenta i tratti evidenti di una nostalgica evocazione della madre, nostalgica e ambigua, perché riveste la figura della madre di una grandiosità dietro cui albergano emozioni maschili inconfessabili, ma agite nella storia anche con il disprezzo verso le donne in carne e ossa.

I modelli storici dell’autorità sui quali la Arendt basa il suo ragionamento, non sono dunque innocenti, in quanto appartengono a una storia che, mediante (mediante?) l’abbreviazione del dominio sessista, ha espulso dal suo dinamismo la mediazione della differenza femminile interpretando la potenza materna con i simboli propri del potere maschile. L’esito storico lamentato dalla Arendt, può spiegarsi in questa chiave. E in questa chiave possiamo spiegare il fatto rimarcato da Diana Sartori, e cioè che la trascendenza dell’autorità rispetto al potere si è ripresentata storicamente nel cosiddetto femminismo della differenza. Ossia, in una politica basata non sulla rivendicazione della parità con l’uomo, ma sulla genealogia materna e sulla mediazione femminile.

D’altronde, nella stessa storia europea alla quale fa riferimento Hannah Arendt, vediamo esercitarsi forme di autorità, e precisamente di autorità femminile, che non sono solidali di miti religiosi né di miti fondativi. Penso all’opera di Jane Austen. Più anticamente, penso alle scrittrici beghine del sec. XIII, che mettono in dubbio l’eternità dell’inferno, appellandosi all’onnipotenza dell’amore divino, o che, come Margherita Porete, sviluppano una concezione del paradiso che nulla ha a che fare con il trionfo delle anime virtuose. Donne troppo prese dall’amore divino per porre mente ai problemi politici della convivenza umana? Affatto, se consideriamo che esse appartengono a una lunga genealogia di consigliere, maestre, predicatrici, carismatiche che, nel corso del Medioevo, da Ildegarda di Bingen fino al Concilio di Trento e oltre, hanno dato assistenza, e assistenza autorevole, ai detentori del potere sia politico sia religioso.

María-Milagros Rivera, presentando il femminismo della differenza, osserva che la pratica politica della differenza femminile non deriva dal femminismo, poiché ben prima del femminismo sono esistite donne che hanno saputo dare un senso libero alla differenza femminile, strappandosi ai ruoli e agli stereotipi di genere. Donne “de-generate”, le chiama la Rivera[8]. Questa osservazione è molto giusta, così com’è giusto riconoscere che questa presenza di una libera mediazione femminile nella storia umana, oggi combatte per il suo significato universale. Al centro di questa lotta vi è la questione dell’autorità, intesa, precisamente, come fautrice di ordine simbolico. O, per usare una formula cara a Lia Cigarini,[9]  come figura dello scambio. Voglio dire questo: se la differenza femminile farà ordine simbolico, allora ci sarà certezza di un’esistenza libera. Non altrimenti. Voglio dire, inoltre, che questa partita della libertà femminile, se vogliamo vincerla, va giocata subito: è la partita del nostro tempo[10].

Affermazioni di questo tenore, naturalmente, non sono tesi dimostrabili, ma scommesse e intuizioni. La lettrice può esigere, tuttavia, che le vengano illustrate: lo farò commentando una specie di incidente che ha riattivato in Italia la discussione intorno alla memoria storica. O, meglio, intorno alla perdita della memoria storica.

È capitato, nel corso di una trasmissione televisiva, che due studentesse di scienze politiche abbiano dato prova di una clamorosa ignoranza della storia recente, in particolare per quel che riguarda la lotta contro il nazifascismo. Nella discussione succeduta a questo fatto, nessuno ha sottolineato che si trattava di persone di sesso femminile, un po’ perché la cosa sarà apparsa casuale (le studentesse passano, non a torto, per la parte migliore del corpo studentesco), un po’ perché lo spettro della misoginia vieta di chiamare in causa la differenza di sesso. Io, che non ho paura dello spettro della misoginia, mi sento di affermare, tranquillamente, che l’ignoranza di quelle due ragazze non era senza rapporto con il loro sesso, pur pensando che i loro coetanei di sesso maschile non avrebbero dato migliore prova di sé. Ma, ripeto, il significato dell’incidente si chiarisce meglio alla luce della differenza sessuale. Me lo hanno suggerito le due ragazze, quando, nel corso della stessa trasmissione, hanno così commentato un film che mostrava la condanna a morte di un giovane fascista: “I morti sono tutti uguali, basta con il fascismo, l’antifascismo e il comunismo”. Queste parole hanno un evidente rapporto con l’ideologia della fine del comunismo; ma c’è in esse, più profondamente, l’eco di un sentire che possiamo chiamare femminile, in quanto comune più alle donne che agli uomini. È un sentimento di avversione per il giudizio che divide. Il riferimento alla morte ne risulta doppiamente significativo: il giudizio divide e porta al conflitto, il conflitto porta alla morte e la morte, che ci accomuna tutti, è la prova che il giudizio, oltre che micidiale, era senza senso.

Su questa base, com’è ovvio, non è possibile che vi sia storia. E questo non soltanto perché, senza giudizio, non c’è discernimento né, di conseguenza, memoria. Ma anche per il fatto, più specifico, che la storia è proprio un giudicare i morti: giudicarli per farli così rivivere, naturalmente. Nel modo di sentire significato dalle due studentesse, per contro, vien fuori che il pareggiamento della morte sia più forte di ogni giudizio storico, più forte e più sensato.

Il problema è di capire da dove venga l’assimilazione del giudizio a un’operazione disgregante, come tale contraria alla vita e simile alla morte, ma peggiore della morte che ha la superiore capacità di riunire quelli che la politica vorrebbe continuare a dividere.

In questa maniera di pensare o di sentire, a me pare di riconoscere due istanze riscontrabili nella sempre più esasperata e difficile ricerca di un’identità personale: enfasi posta sull’uguaglianza, e ripugnanza per il conflitto. Si tratta di istanze molto evidenti nella ricerca di identità da parte delle donne, la cui condizione sta diventando in effetti paradigmatica della condizione umana, spingendo l’altro sesso nella posizione di secondo. Così, un filosofo politico che in Italia gode di grande fama, è arrivato a teorizzare che l’uguaglianza è il fine, la libertà il mezzo[11]. Il che corrisponde, precisamente, alla politica delle pari opportunità ma, prima ancora, al linguaggio delle donne emancipate, per le quali ogni conquista, ogni guadagno, si traduce nei termini del riuscire a pareggiare gli uomini.

In questa situazione, la morte trova un facile varco per insinuarsi come istanza ultima. Niente e nessuno, infatti, può competere con l’egualitarismo della morte, una conclusione la cui ovvietà si trova ulteriormente rinforzata dalla morte simbolica della differenza femminile. E, da qui, lo sbocco nella depressione, una patologia non esclusivamente ma preferenzialmente femminile, come fu in altri tempi l’isteria, con la differenza che oggi il male femminile racconta il male comune.

La ripugnanza a giudicare e ad aprire conflitti, è una sindrome femminile antica, che viene generalmente ricondotta al fatto che le donne non potevano partecipare alle lotte politiche e militari, di cui però dovevano patire le conseguenze. Io ritengo che questa spiegazione non esaurisca il problema. Mi sono sempre chiesta perché le donne, davanti alla prospettiva di conflitti reali fra uomini, molto raramente abbiano agito per impedirli. Mi viene in mente, come risposta, quello che ho potuto osservare in me e altre: la confusione fra il conflitto simbolico e il conflitto reale. In effetti, per impedire conflitti reali, bisogna aprire e affrontare conflitti simbolici; ma chi confonde gli uni con gli altri, crede di poter evitare quelli evitando questi. In questa sindrome femminile c’è una certa somiglianza con un fenomeno caratteristico della “mostruosità” della convivenza umana ai nostri giorni, e cioè la crescente incapacità di discernere fra l’agire simbolico (giudicare, confliggere) e quello reale (uccidere).

D’altra parte, non è difficile scorgere come queste diverse manifestazioni della ricerca di identità personale, più femminili che maschili, ma non esclusivamente femminili, abbiano in comune il tratto della debolezza simbolica, riconducibile (per vie diverse, a seconda che si tratti di donne o uomini) a una debolezza del senso dell’autorità. Ma non l’autorità tradizionale e religiosa evocata di preferenza da Hannah Arendt, bensì l’autorità come senso personale della necessaria mediazione e come “figura dello scambio”. Che gli interpreti più fini di questa debolezza simbolica, interpreti sempre meno inconsapevoli, siano più donne che uomini, questo non sorprende chi pensa, come me ma non soltanto, che la differenza sessuale costituisca l’esperienza umana più bisognosa di mediazione. Tale mediazione è stata, come dire, saltata, prima dal dominio sessista, poi dall’egualitarismo, dove la cosa che faceva problema era, e continua a essere, la differenza femminile. Queste peripezie sono leggibili nella storia, ma ancor più nella nostra presente difficoltà ad avere un rapporto vivo con la storia. Sono nodi venuti al pettine.

Passo così a svolgere una seconda riflessione sull’incidente delle due studentesse, Nel dibattito intorno alla perdita della memoria storica, nessuno ha osservato che, a rigore, di perdita si dovrebbe parlare soprattutto per gli uomini, poiché la storia di cui si è tramandata la memoria è una storia quasi unicamente di uomini. A giudicare dai libri di storia, ci sarebbe da dubitare che le donne abbiano mai coltivato la memoria storica. Il femminismo non contraddice questa veduta; anzi, sembra perfino confermarla. Il femminismo che noi conosciamo è cominciato tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta, con una presa di coscienza che per molte aveva le caratteristiche di un anno zero della storia delle donne. Le ondate di femminismo che si erano già succedute in Europa, verranno scoperte in seconda battuta. Luce Irigaray scrive Speculum. L’altra donna ignorando Le tre ghinee di Virginia Woolf, e Carla Lonzi concepisce i suoi fiammeggianti libelli avendo come unico riferimento, negativo, Hegel. Nella presa di coscienza iniziale, quella che ci ha dato lo slancio, ha contato lo scambio con donne presenti in carne e ossa e ha contato, per l’appunto, la pratica dell’autocoscienza. Non ha contato la memoria di quelle che, in realtà, ci avevano aperto la strada e la cui esistenza, allora, quasi tutte (non tutte) ignoravamo. Riflettendo su questa caratteristica del femminismo, Geneviève Fraisse è arrivata a sostenere che il femminismo trae la sua forza più dalla dimenticanza della storia che dalla sua memoria[12]. Il femminismo sarebbe dunque paragonabile all’invasione dei barbari o all’avvento del cristianesimo? Conosco un antifemminismo motivato proprio dall’amore della storia e dalla fede nell’intelligenza formata storicamente. Penso a una illustre studiosa che mi onora della sua amicizia, Romana Guarnieri, cui dobbiamo la riscoperta e edizione di un capolavoro della teologia femminile medioevale, Lo specchio delle anime semplici di Margherita Porete. Ecco come ella inizia il racconto della sua scoperta:

Se per qualche cosa nel campo degli studi storici il ricordo del mio nome non svanirà del tutto alla mia morte, ciò sarà dovuto al fatto che è legato alla scoperta dell’autore e dell’originale francese di un testo tardo medievale di indubbio interesse, così letterario che di pensiero, ahimè divenuto nell’ultimo decennio una specie di best-seller nel campo del femminismo culturalmente più avveduto e agguerrito[13].

Perché “ahimè”? Perché ella teme che Margherita sia trasformata in una ennesima vittima del “più truce ‘maschilismo chiesastico’”, al pari di Giovanna d’Arco. Su che cosa si basa questo timore? Sull’inserto di un quotidiano, “La Repubblica”, che dava, in poche righe, la notizia della messa in scena di una pièce teatrale dedicata a Margherita Porete; Margherita veniva presentata, con gergo tipicamente femminista, come “una predicatrice istintiva e appassionata” che “riunisce intorno a sé un gruppo di donne profondamente diverse fra loro, ma accomunate da un insopprimibile anelito di liberazione sociale e sessuale”[14].

La contraddizione è che l’opera di Margherita Porete, pubblicata nel lontano 1965, ha conosciuto una crescente fortuna proprio con il crescere del femminismo. La contraddizione è che il femminismo, settario, barbarico, azzeratore del passato, ha dato impulso alla ricerca storica aprendo, da una parte, nuovi filoni d’indagine, e incentivando, d’altra parte, la domanda di storia. Se è vero che si sta perdendo la memoria storica per quel che riguarda la storia ordinaria, quella degli uomini, è vero anche che la storia delle donne, grazie al femminismo, è diventata oggetto di un interesse crescente.

Bisogna capire bene questa contraddizione e, per farla capire, torniamo a osservare le due studentesse dell’incidente. Negatrici del senso della storia degli uomini, con i suoi tagli e i suoi giudizi, che rapporto hanno le due con la rottura storica operata dal femminismo della fine degli anni Sessanta? La ignorano. Vengo così al punto che mi interessa. La presa di coscienza che ha così profondamente toccato me e molte delle donne che fanno questa rivista e non poche di quelle che la leggono, questa presa di coscienza non ha creato una tradizione, come forse avremmo voluto. Io sono arrivata alla conclusione che avere una tradizione femminile, come personalmente volevo, pensando che fosse necessaria alla libertà femminile, non sia cosa veramente indispensabile alla libertà femminile. Questa, forse, va affidata alle scansioni di ripetute, rinnovate prese di coscienza, e non alla conservazione di monumenti storici. Ma a una condizione, che vi sia il senso dell’autorità femminile, intesa come mediazione vivente, capacità di contrattazione, figura dello scambio, misura di sé in rapporto al mondo. Il senso della rottura femminista si gioca dunque intorno a un nuovo senso dell’autorità, per il quale non è necessario identificare l’inizio con l’origine. Non è necessario, cioè, costituire una tradizione né istituire una religione. Neanche una religione della madre: la madre è l’origine, ma l’inizio è qui e ora, è presente, sono le relazioni di scambio e di guadagno che ho con altre donne, con gli uomini, con la realtà del mio tempo[15]. La ricchezza della madre non è appropriabile da nessuno, ma è disponibile per chi si impegna nel lavoro della necessaria mediazione.

 

 

 

[1]
La differenza fra autorità e potere, come differenza tra fare ordine e dare ordini, è stata finalmente analizzata da Diana Sartori, Dare autorità, fare ordine, in Diotima, Il cielo stellato dentro di noi. L’ordine simbolico della madre, La Tartaruga, Milano 1992, specialmente pp. 137-152.

[2]             La questione è, sia storicamente sia giuridicamente, più complessa. La Chiesa cattolica non rinunciò a essere una potenza puramente spirituale, ma puntò a ottenere per i propri scopi i servigi dei detentori del potere.

[3]             “What is Authority?”, in Between Past and Future: Eight Exercices in Political Thought, Penguin Books, New York 1987 (Tra passato e futuro, trad. it. di Tania Gargiulo, Garzanti, Milano 1991).

[4]             Sulla lingua materna come forma archetipica di ogni autorità, ho avviato una riflessione in L’ordine simbolico della madre (Editori Riuniti, Roma 1991), Non pretendo d’aver fatto una scoperta: questa idea è presentissima nella filosofia romantica del linguaggio (von Humboldt, Alessandro Manzoni), ma verrà completamente sepolta dalla cultura positivistica e neopositivistica, senza più riemergere, nemmeno dopo la critica del positivismo, che riscopre, come unica fonte di autorità, quella della tradizione.

[5]
Mi sia consentito riferirmi ancora al mio L’ordine simbolico della madre e, precisamente, al cap. III, “La parola, dono della madre”.

[6]             Questo esempio di mostruosità, preso dalle cronache dei giornali, corrisponde a comportamenti che, senza essere abituali, non si possono tuttavia imputare a patologie di persone singole. Questo è anche il giudizio unanime degli osservatori qualificati del costume.

[7]             Diana Sartori, op. cit., p. 152. Con il saggio di Diana Sartori, che giudico ben documentato e innovativo, non mi trovo d’accordo da un punto di vista strategico. Diana Sartori si sforza di trovare una coerenza logica nella filosofia politica di Hannah Arendt, insieme ad una sua intima rispondenza con la politica della differenza femminile. A me pare che, se vogliamo – e io sono d’accordo con questa opzione – dimostrare la rispondenza, dobbiamo rinunciare alla coerenza. L’incoerenza della filosofia politica della Arendt si segnala nella debolezza della sua nozione di potere (“Potere corrisponde alla capacità umana non tanto di agire, quanto di agire di concerto”) che non soltanto contrasta con l’uso linguistico più attestato, ma non si accorda con il pensiero stesso della Arendt, quando ragiona sull’autorità come istanza politica distinta dal potere: il “concerto” che ella attribuisce al potere, risulta infatti essere una funzione politica dell’autorità. Soltanto l’intento di dimostrare la coerenza impedisce a Diana Sartori di rilevare questa contraddizione (cfr. ivi, p. 141, n. 35).

[8]             María-Milagros Rivera, Feminismo de la diferencia. Partir de sí, “El viejo topo”, n. 73, marzo 1994, pp. 31-35.

[9]             Cfr. L’autorità femminile. Incontro con Lia Cigarini, Edizioni Centro Culturale Virginia Woolf – Gruppo B, Roma 1991; Lia Cigarini, Note sull’autorità femminile, “Madrigale”, n. 4, Napoli 1989, pp. 16-18 (entrambi ripubblicati in Lia Cigarini, La politica del desiderio, introduzione di Ida Dominijanni, a cura di Luisa Muraro e Liliana Rampello, Pratiche, Parma 1995, pp. 163-184 e pp. 137-142). Devo dire che l’idea di fondo di questo mio testo, idea di un’autorità senza monumenti, mi viene dagli scambi orali con Lia Cigarini, il cui pensiero politico ha una compiutezza e una profondità che i suoi scritti, troppo rari e frammentari, fanno solo intravvedere.

[10]           Le mie parole echeggiano, deliberatamente, quelle, ben note, con cui Luce Irigaray introduce la sua Étique de la différence sexuelle (Etica della differenza sessuale, trad. it. di Luisa Muraro e Antonella Leoni, Feltrinelli, Milano 1984): “La differenza sessuale rappresenta uno dei problemi o il problema che la nostra epoca ha da pensare”.

[11]           Cfr. Norberto Bobbio, Destra e sinistra, Donzelli, Milano 1994.

[12]           Cfr. “Via Dogana”, n. 16, Maggio/Giugno 1994, p. 21 (si tratta della traduzione italiana di una intervista fatta da Eva Horn a Geneviève Fraisse, apparsa originariamente su “Neue Rundschau”, 4/93).

[13]           Romana Guarnieri, Ricordando 10 – Quando si dice, il caso!, “Bailamme”, n. 8, dicembre 1990, p. 45.

[14]           Ivi, p. 45, n. 1.

[15]    Questa idea dell’inizio come distinto dall’origine, che io qui avanzo senza approfondirla, ma che ritengo decisiva per una concezione non monumentale dell’autorità, mi è stata data oralmente da Lia Cigarini e l’ho esposta per la prima volta su “Via Dogana”, n. 16, cit., p. 23. Una concezione non monumentale dell’autorità emerge anche in Alessandra Bocchetti, Autorità e libertà: un paradosso?, “Quaderni di Agape”, n. 24, febbraio 1994, pp. 14-23, che aggiungo alla scelta bibliografica con cui si apre il mio saggio Sobre la autoridad femenina, trad. di Cinta Montagut, in Fina Birulés (a cura di), Filosofía y género. Identidades femeninas, Pamiela, Pamplona-Iruña 1992, pp. 51-63